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Prosegue il viaggio-indagine di Marta Cuscunà, giovane attrice e drammaturga veneta che già aveva avuto modo di segnalarsi tra l'altro per “E' bello vivere liberi”, intorno e dentro la condizione femminile, affrontata con uno sguardo in un certo qual modo eccentrico ed eterodosso che del dato storico fa spunto d'indagine artistica ed estetica, senza contraddirlo ma anzi esaltandone in un certo senso il pieno significare anche metaforico e metafisico. Con questo suo spettacolo, frutto di un lavoro iniziato oltre sedici mesi fa con articolazioni  produttive assai innovative e innovatrici, è in scena dal 21 al 24 novembre al Teatro della Tosse di Genova, nell'ambito della rassegna “Cantiere Campana”. Uno sguardo volto verso la condizione femminile ma soprattutto verso le diverse forme di 'resistenza' femminile che, nel passato come nel presente, costituiscono il segno di una lotta identitaria che ha come fine non solo la liberazione del femminile ma anche la libertà del maschio, drammaticamente e sempre più imprigionato nei proprio dogmi e nelle proprie infelici insincerità. È la ricerca di una felicità che non può che riguardare entrambi per essere piena. Stavolta lo sguardo si allunga su un passato raramente indagato da questo punto di vista, verso quella realtà dell'Europa del cinquecento che calcolava il valore dell'esistenza femminile in base alla 'dote', paradigma questo di una condizione di dipendenza senza soluzione, da figlia a moglie, ovvero, se lo scambio non risultava più conveniente, direttamente al convento. Il dato storico specifico è appunto la vicende delle suore Clarisse di Udine,  ispirata dalle opere di Arcangela Tarabotti, monaca anch'essa e letterata, che costruirono e costituirono nel loro convento un luogo di libera creazione di cultura, un luogo cioè di relazioni intense e profonde, e che lo difesero a lungo con intelligenza e ironia, appoggiate dall'intera comunità, contro il potere dell'Inquisizione, che mal tollerava questi di segni di indipendenza, finchè a poco a poco divise si persero. La Cuscunà ne interpreta, in senso pieno, la storia e ne sviscera il significato trascrivendola sulla scena, in ciò coadiuvata da maschere-pupazzi che ne esaltano la sapienza recitativa e sono in grado  grado di articolare la narrazione drammaturgica in un dialogo a più voci, in una sorta di caleodoscopio di significazioni che ne enfatizza l'effetto metaforico. Non si parla mai dunque direttamente di resistenza e liberazione femminile, ma la si narra con la forza dell'arte teatrale e con la sua capacità di dare profondità esistenziale alle pagine talora sbiadite di storie lontane, nonchè alle sfuggenti suggestioni del presente perchè, come ci ricorda il testo di una canzone che accompagna la narrazione, “presto tu ragazza sarai donna”. Così la narrazione può diventare comunicazione ed anche educazione che si specchia nella nostra contemporaneità segnata da un potere, quello maschile e patriarcale, che mentre si nega in superficie (le quote rosa, i ministeri per le pari opportunità ecc. mentre le donne con la maternità perdono il lavoro) viene forse esercitato con più ipocrisia e talora con più cieca ferocia, come testimoniano i sempre più numerosi 'femminicidi'. La drammaturgia, che vede Marta Cuscunà autrice del testo, regista e protagonista in scena, ci narra dunque di una infelicità comune (a uomo e donna) che la forza e la resistenza del femminile si sforza da sempre di scardinare a beneficio suo e anche dell'uomo che distoglie lo sguardo e non ha la parola di sé. Frutto di collaborazioni produttive numerose e mutevoli di cui ci spiace non poter dare integralmente conto,  si giova dell'opera di Marco Rogante (aiuto regista), Claudio Poldo Parrino, Alessandro Sdrigotti,  Elisabetta Ferrandino e Anonella Guglielmi. Come detto molto brava la Cuscunà e convinto l'apprezzamento del pubblico.