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Ogni spettacolo, se non è banale, include in misura diversa tutta una serie di problemi estetici che lo rendono più o meno interessante e lo legano alla prassi e alla tradizione teatrale. Occorre partire da qui per provare a capire e a descrivere il senso de “Il clandestino” lo spettacolo proposto venerdì 30 novembre nello spazio ZO, a Catania (il contesto è la rassegna “Altro scene”), dal friulano Stefano Codolo

(autore del testo e interprete) con la regia di Piero Ristagno. Si tratta di un monologo/flusso coscienza in cui Codolo attraversa i due mesi di delirio seguiti all’operazione d’impianto di cellule staminali, tratte da suo figlio, per guarire da una rara e gravissima forma tumorale (linfoma di Hokgkin) che lo ha dilaniato per cinque lunghi anni. Il monologo è proposto con semplicità, con atteggiamento dimesso, senza alcun tentativo di sedurre il pubblico; tra un modulo e l’altro della narrazione solo degli stacchi musicali (fantastici però: Bob Dylan, Supertramp, Van Morrison, The Clash, Talking Heads, King Krimson, Pink Floyd) che danno respiro, sapore, profondità ad un racconto ch’è un vortice di colori, suoni, eventi, inquietudini, paure, deliri appunto di cui però, ed è questo a rendere il tutto affascinante, l’autore non riconosce l’origine nel proprio vissuto. Ecco allora l’interrogazione centrale di questo spettacolo: di che pasta è fatta la nostra coscienza? Quali sono i materiali che la compongono? È veramente estranea alla complessione della nostra personalità, alla costruzione del nostro essere, la marea di fatti, persone, gesti, racconti, immagini, sensazioni, odori, parole, situazioni che c’investono quotidianamente (nella realtà e nella comunicazione) e che noi pensiamo di non aver registrato nella memoria come dati significativi? In altre parole, in che misura ci conosciamo davvero e totalmente? Ecco questo è il nodo di senso da cui, senza attardarsi in psicologismi o patetismi, si dispiega questo spettacolo: quanto siamo estranei a noi stessi, clandestini nella nostra esistenza? Perché dalle viscere del nostro vissuto scaturisce il delirio di una storia oscura che, come precisa lo stesso Codolo, può assomigliare persino a quella di Roy, il replicante di Blade Runner che «fugge per salvare la propria vita “a termine”?» Poi, certo, se si guarda la qualità teatrale è chiaro che ci sono difetti seri in questo lavoro: una certa debolezza nella sostanza attoriale di Codolo e una certa prolissità del testo che andrebbe corretta e asciugata, magari in direzione di una ulteriore presa di distanza dall’elemento autobiografico.