Si sa che il pubblico viene al Teatro Olimpico di Vicenza per vedere insieme teatro e il Teatro, non sempre in questo ordine. Vi si ciclano ancora spettacoli per questo. Anzi per questo è stato proprio costruito e poi tramandato, dall’Accademia Olimpica,

da Palladio, da Scamozzi, da municipalità, sovrintendenze, comitati e imprese di spurghi che ne hanno svuotato le cantine dopo l’alluvione del 2010 (mentre Giuliano Scabia arrivava su un cavallo di cartapesta a ridare la vista a un Edipo con gli stivali di gomma). Perché in genere, lo “spazio” di una rappresentazione non è solo il suo contenitore, ma ne è parte costituente, in quanto contribuisce a fondarne l’unicità; e nella misura in cui una critica è impronta di questa unicità, non può non raccontare lo spazio che l’ha occasionata. Dunque la critica all’Olimpico non si sottrae a un rituale che, nei suoi aspetti più trash, è fatto di glamour, ma nei suoi aspetti più catartici è fatto di di u-topia (Tebe o Vicenza, c’est-à-dire nulle part, come la Polonia di re Ubu). Quattro secoli e mezzo di critiche olimpiche, di cui gli ultimi sessantacinque anni con continuità documentata, recensiscono teatro e Teatro come un tutto unico, rinnovando questo rituale – talvolta inciampando in attitudes stereotipate (Gino Nogara, CRONACHE DEGLI SPETTACOLI NEL TEATRO OLIMPICO DI VICENZA DAL 1585 AL 1970, Vicenza, Accademia Olimpica, 1972).

1967, LA BOTTEGA DEL CAFFÈ (o dello Scandalo)
“Tra le audacie del nostro tempo […] può contarsi LA BOTTEGA DEL CAFFÈ di Goldoni, data in questi giorni al Teatro Olimpico di Vicenza  […] audacia che potrebbe essere oscurata, non so, da una rappresentazione di NATALE IN CASA CUPIELLO nel teatro greco di Siracusa o da una ripresa di MY FAIR LADY a Bayreuth. È difficile infatti immaginare due ingegni più contrastanti del Palladio e di Goldoni: il primo che lascia con la sua incredibile architettura teatrale il monumento funebre più eloquente del Rinascimento, arricchito dalle statue degli amici accademici in travestimenti greci o romani e appollaiati nei posti migliori […] il secondo che, circa due secoli dopo, ricomincia daccapo osservando la vita, ignorando i modelli antichi, le agiografie e le pastorellerie […] per la prima volta nella storia del Teatro Olimpico l’arco centrale viene occluso da una […] scenografia che rappresenta proprio un caffè: tant’è vero che lo scenografo non ha dimenticato di scrivercelo sopra” (Ennio Flaiano).

1959, DYSKOLOS (o dell’Evento)
“Un pubblico foltissimo fra il quale molti stranieri giunti dalle capitali europee, in particolare da Londra, affollava la bellissima sala dell’Olimpico […]. Un pubblico di dotti e di esperti: un’aria come di convegno di grandi ‘assaggiatori’ nelle austere e profumate cantine di Francia, riuniti per giudicare – messa da parte la mozione degli affetti e della riconoscenza e del palpito culturale – per giudicare dico se l’invecchiamento di 2300 anni ha impreziosito il vino di Menandro, o se lo ha trasformato in un modestissimo aceto. Qualunque avesse dovuto essere il giudizio, si trattava del maggiore avvenimento culturale, non solamente del 1959, ma di vari decenni a questa parte. Nella cavea e sulle gradinate quasi un migliaio di ‘posteri’, fra i quali i più insigni grecisti d’Italia, e molti, naturalmente, che il greco l’hanno dimenticato a diciotto anni” (Orio Vergani).

1952, LE CID (o della Visitatio)
“Quando Gerard Philipe, giunto da Venezia alcune ore prima dell’inizio dello spettacolo, entrando dalla versura di sinistra si trovò addosso improvvisa la scena palladiana appena rilevata dai proiettori, diede un passo indietro con quel suo modo trasognato che incanta le signore […], spalancò le braccia senza aggiungere parola. Fu Jean Vilar che, solitario sulla gradinata dell’emiciclo […] ogni tanto esclamava ‘beau! beau!’[…] Entrarono quindi gli altri attori del T.N.P., tutti presi da un incontro che superava ogni loro immaginazione. Françoise Spira, la dolcissima Chimene, non si arrestò all’ammirazione del famoso prospetto […] lieve come una fantasia poetica spariva, ricompariva dentro le illusorie vie e i palazzi di una Tebe cinquecentesca, dilatando gli occhi vivi di un contento tutto intimo […] Chiamate a non finire, e un subisso di applausi quando gli attori, visibilmente toccati dalla commozione che hanno trasmessa, tenendosi per mano si fanno incontro al pubblico al limite della ribalta e ad esso (il pubblico sovrano!) piegano il ginocchio” (Gino Nogara).

1937, I SETTE CONTRO TEBE (o della Scoperta)
“Per la prima volta nel Novecento le rappresentazioni hanno luogo di sera, essendosi provveduto alla illuminazione elettrica del Teatro; ed ecco che ai primi accordi dell’orchestra, celata nella cavea, il teatro s’immerge nell’oscurità, e la magìa delle luci, con sapiente giuoco di raggi radenti, svela le armoniose bellezze della scena, in cui i capitelli, le paraste, i pilastri, le cornici, gli aggetti, le nicchie, i cassettoni e il fastigio giuocano una loro ritmica sinfonia così bella allo sguardo, che i raggi, colorati appena d’arancione, mettono in evidenza, con alternative di ombre e di luci, perfette come un ritmo musicale, o come una poesia greca dove i versi dàttili e spondèi s’alternino a creare opera di perfetta bellezza. E mentre la scena s’illumina, ecco sullo sfondo le mirabili prospettive cominciare ad animarsi di luci lievi, azzurrate, mentre le cimase dei palagi, le acute piramidi ornamentali, le statue dei frontoni, si colorano delle prime luci dell’alba” (Anonimo).

Non stupisce che, proseguendo à rebours, la voce più anticonvenzionale è quella che arriva da più lontano; dal principio di tutto. Domanda: se l’Olimpico è il primo teatro coperto al mondo, e l’EDIPO TIRANNO che lo inaugura (1585) è il primo spettacolo, la critica che lo accompagna è la prima critica moderna? Non importa, naturalmente, basta il pensiero. Come anche che la “prima critica moderna” sia anche la prima stroncatura: “La tragedia è parsa poco terribile, et miserabile per essere stata recitata con poco effetto, dove il commo non si ha visto nelle persone del Choro, et della scena se non con gesti mutoli, che non molto commovevano […] et così è stato defraudato Sofocle del Ballo e del Suono […] et vi era il canto solo, et non il suono et un canto sempre uniforme, che non lasciava intender le parole, che rasembrava frati o preti, che cantassero le lamentazioni di Hieremia […] questa Iocasta pareva una giovanetta, assai bella putta; almeno le si potea impallidire in qualche modo la faccia, et porre in capo dei peli canuti”. C’è dell’ideologia, naturalmente, e quanto basta di gossip. Ma anche buon senso.

1585, EDIPO TIRANNO (o delle Buone Pratiche)
“Mi parve strano, che in un tempo calamitosissimo di peste si adoperassero quelle vesti tanto pompose, che ancho delle vesti regie è qualche differenza, essendo altre più allegre, et altre meno, et dovendosi adoperare le meno allegre ne tempi calamitosi. E se bene alcuni dicono, che ciò si può fare convenientemente per dar maggior speranza di bene al Popolo, mi pare che si deve dare speranza con altro, che con le vesti […] accioche il popolo non dicesse, il Re et la Reina trionfano, et noi giacciamo in continua miseria […] questo modo pomposo di vestire, corrisponde forsi maggiormente alla magnificenza de Signori Academici che à un tempo di peste” (Antonio Riccoboni).

Grazie a tutti i Retecritici per essere stati a questo nostro Laboratorio Olimpico: percorso decennale dell’Accademia Olimpica e dell’Assessorato Cultura del Comune, per una valorizzazione del Teatro Olimpico di Vicenza come laboratorio teatrale permanente; ideato da Cesare Galla, progettato e diretto dallo scrivente; che ha finora portato nel Teatro Olimpico Luca Ronconi, Paolo Portoghesi, Giovanni Raboni, Paolo Puppa, Giuseppe Manfridi, Peter Stein, Franco Quadri, Maddalena Crippa, Eugenio Barba, Julia Varley, Iben Nagel Rasmussen, Pippo Delbono, Alfonso Santagata, Davide Susanetti, Claudia Castellucci, Marco Martinelli, Ermanna Montanari e Le Albe, Dario Vivian, Gianfranco Bettin, Giuliano Scabia, Armando Punzo e la Fortezza, Massimo Marino, Michele Sambin, Enrico Castellani.