Mi arriva, inattesa, una lettera da non so quale passato. Scritta in un italiano incerto e lacunoso, come di chi l’italiano poco lo mastica e mai lo scrive. E’ firmata Endrius (forse Andrew) Colombaioni, che subito si presenta: è figlio di Carlo Colombaioni, erede e continuatore di una coppia di clowns di antica e nobilissima origine, “I fratelli Colombaioni”, appunto: Carlo e Alberto (in realtà cognati). Il 18 maggio di quest’anno, presentando lo spettacolo, Alberto così esordiva: “Signore e signori buonasera, bonsoir, good evening, guten abend. Io sono Alberto, del duo Colombaioni, my name is Alberto. Mio fratello si chiama Carlo, ma purtroppo stasera è in ritardo. Mon frére n’est pas là….” In realtà Carlo era morto il giorno prima; ma questo è lo stile di quella che forse è – davvero – la più antica professione del mondo; migliaia di anni prima dello slogan “the show must go on”; i “pagliacci” avevano imparato che se non si lavora non si mangia.

Non so perché questo fatto così recente mi pare emergere da un passato lontanissimo. Probabilmente perché lontanissimo è il mondo che i Fratelli Colombaioni illustravano, nei loro giochi circensi, praticamente immutati da quel XVI secolo in cui la famiglia ebbe forse origine, con il cognome di Taravaglia. In quanto Colomabioni veri e propri, la stirpe conta almeno cinque generazioni, e una storia alterna di luci ed ombre: furono clowns nei più grandi circhi italiani e stranieri, ebbero periodi di decadenza , la famiglia si ramificò in una pluralità di discendenti che ne rivendicavano in esclusiva l’intera eredità: uno di essi – Nani – fu tra i protagonisti de “I clowns” di Federico Fellini. Ma l’etichetta più diffusa e vincente fu quella del “Duo Colombaioni” di Carlo e Alberto.

Ad essi ricorse ancora Fellini, ad essi chiese lumi e ed esempi Giorgio Strehler, in più occasioni: una – per me indimenticabile – quando egli diresse alla Scala, nel 1974, una straordinaria edizione dell’”Amore delle tre melarance” di Prokofief, ispirata al costruttivismo di Meyerchold, che a sua volta si era ispirato alla tradizione della commedia dell’arte, in un circolo chiuso “garantito” – se così si può dire – dalla testimonianza di Carlo e Alberto e dalla continuità del loro repertorio. Straordinaria la loro completezza teatrale ed atletica: erano saltimbanchi, giocolieri, saltatori, cantastorie, giocolieri: mascheravano con lo stile – come sempre nei grandi – lo sforzo; e tutto ciò che facevano appariva facile e naturale, come lo “opplà” che concludeva l’esercizio.

Ora, Endrius Colombaioni , figlio di Carlo, si ripropone in Italia in coppia con Fabrizio, rispolverando il vecchio repertorio circense del più celebre duo. In un mondo il cui motto sembra essere “di tutto e di più”, il ritorno alla essenzialità del lazzo circense potrebbe essere il salutare recupero di una spettacolarità elementare e per ciò stesso insostituibile, come lo fu quella dei fratelli Marx. Ai Colombaioni – così come ai fratelli Marx – è mancata forse la televisione, con quella esplosione di popolarità e di visibilità che essa comporta. Ma guardandomi attorno, in questo mondo dello spettacolo in cui niente ormai sembra essere sufficiente, io credo che possa essere vero il contrario: alla televisione sono mancati i Colombaioni, e tutto ciò che essi furono e rappresentarono, con i loro piedoni, i loro pomelli rossi, il loro “ciufile” invece di “fucile”.

Auguri dunque ad “Endrius”, e “bentornato”.