Pin It

Il teatro racconta la tv e s’interroga sulla cultura “nazional-popolare” ricorrendo a immagini di repertorio tratte dalla migliore tradizione della Rai, ma anche dal peggio che è arrivato dopo. 3 Gennaio 1954, dagli studi di Milano partono le fatidiche parole che hanno dato il “la” alla televisione segnando un momento importante della storia del costume italiano. “La Rai, radiotelevisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”. Primi passi, pochi testimoni,  pochi privilegiati che erano in grado di acquistare un apparecchio televisivo che aveva ancora un prezzo proibitivo per la maggior parte della popolazione. Nei bar, a casa dei vicini, la gente s’incontrava e vedeva l’altra parte dell’Italia. I Piemontesi incontravano i Sardi, i Sardi i Pugliesi, diventava, visibile ciò che fino ad allora era pura immaginazione, così fino agli anni ottanta. Anni di svolta, che cosa accade in quegli anni? L’Italia scopre il lusso, il disimpegno, parole d’ordine, vivi, cerca il successo, cerca il tuo luogo ideale di vita: un grande “drive in” , dove la felicità è a portata di mano per tutti, a Milano capitale della cultura, dell’edonismo, nella “Milano da bere”, questo motto si respira ovunque. Nel 1984, dopo aver acquistato anche Italia 1 e Retequattro il sistema Fininvest concorre a livello nazionale con la Rai, nasce un nuovo genere nazional-popolare fatto di Grande Fratello, telenovele e personaggi costruiti a tavolino. A partire da questo momento la “cattiva televisione” diviene profitto, si celebra il vuoto e il disimpegno la politica lasciatela a noi, il collettivo sfuma e il popolo felicemente si addormenta mentre gli altri agiscono… Dove ci ha condotto tutto ciò? Lo spettacolo riflette sui danni che alcuni programmi televisivi recano alle nostre coscienze e lo fa in modo vibrante, divertente, critico. Coinvolgendo nei diversi giorni di replica, proprio gli intellettuali, Lorella Zanardo, regista del documentario “Il corpo delle donne”, il filosofo Carlo Chiurco e Massimiliano Panarari, autore del libro “L' egemonia sottoculturale” (Einaudi) a cui Serena Sinigaglia si è ispirata.  Un buon modo per riflettere, partendo da una significativa citazione di Gramsci, tratta dai “Quaderni del carcere”, una citazione che apre lo spettacolo. Gli intellettuali possono essere mediatori di cultura e di consenso presso i gruppi sociali, una classe politica deve avvalersi di intellettuali che sappiano cogliere e far vivere valori culturali di gruppi sociali riconoscere esigenze e interpretare i bisogni culturali, diffonderli all’intera comunità. Uno schermo televisivo frantumato, schegge di programmi e schegge sospese in platea. Pillole di saggezza e schegge di teatro, riflessioni, dubbi, ricordi tutto questo è “NAZIONAL POPOLARE da Gramsci ai Reality Show”, la conferenza spettacolo che Serena Sinigaglia porta in scena, accompagnata da Mattia Fabris e Arianna Scommegna, vivaci, espressivi e coinvolgenti. Serena racconta i suoi dubbi, la sua anima a metà, divisa fra impegno e necessità di svuotare la mente. Recuperando l’insegnamento di Artoud, “un doppio mi possiede”, la regista milanese, va in scena vestita di bianco e nero. «Sono cresciuta con Lady Oscar e La Famiglia Bradford, oggi faccio teatro. Com' è che mi commuove Shakespeare ma anche il Grande Fratello e non smetto di oscillare tra il bisogno di insubordinazione del teatro e quello di rassicurazione della tv?». Un percorso di ricerca iniziato anni fa: la ricerca sulla bellezza di un’opera teatrale. Che cosa rende bella un’opera? Ma bella per tutti… «Shakespeare era nazionalpopolare. A vederlo ci andavano gli ubriachi, la regina, i contadini e i nobili. Parlava a tutti ma non era banale. Era poetico, emozionante, divertente. Umano». Il suo teatro arriva a tutti perché? E’ possibile oggi riprendere l’insegnamento di Shakespeare? Da qualche anno Serena Sinigaglia, proprio con l’inquietudine di un personaggio shakespeariano, si aggira intorno a questa domanda. Il teatro è anche divertimento racconta in un’intervista, ma divertimento nel senso etimologico della parola, guardare altrove, alternativa. Non è vero che non c’è alternativa, negli anni ottanta, Margareth Thatcher coniò l’acronimo TINA “There is no alternative” (non c’è alternativa). La mancanza di alternative, per la lady di ferro, era un dato di fatto. La competizione senza regole ed il profitto ad ogni costo, la ricerca dell’interesse individuale era l’unico sistema applicabile nel mondo moderno. E le sue conseguenze, come il degrado culturale o l’ingiustizia sociale, un penoso effetto secondario del sistema. La mancanza di alternative sembra un alibi, perfetto anche per la nostra “cattiva televisione”. Non è così l’alternativa c’è, basta cercarla. Ieri sera l’abbiamo trovata in via Boifava a Milano, al Teatro Ringhiera.

TEATRO RINGHIERA MILANO
NAZIONALPOPOLARE
da Gramsci ai Reality Show
Compagnia ATIR
da un’idea di Serena Sinigaglia
testo di Renata Ciaravino
con Mattia Fabris e Arianna Scommegna