Il dramma del mese
L'attentato di Gozzi Bonazzi Floridia Paolucci
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L’ATTENTATO è andato in scena al Teatro ITC di San Lazzaro e al Teatro delle Moline dal 21 al 25 gennaio e dal 28 gennaio al 1 febbraio 2004 con la produzione TNE/Moline in collaborazione con Teatro dell’Argine/ITC e con la consulenza dell’Istituto Provinciale della Resistenza di Bologna. Con Marinella Manicardi, Lorenzo Ansaloni, Micaela Casalboni, Andrea Gadda, Giovanni Malaguti, Carlo Massari. Scene e costumi Davide Amadei, musiche e documenti sonori Antonia Gozzi, regia di Luigi Gozzi.
Di cosa parla: A distanza di quasi ottant'anni l’attentato a Mussolini in pieno centro a Bologna il 31 ottobre 1926 resta un mistero. Chi fu a sparare? Un complotto? Fascisti dissidenti? Un attentatore isolato? Un 'giallo' tuttora irrisolto. All'istante un povero ragazzo, Anteo Zamboni, viene ferocemente linciato dai ‘seguaci’ di Mussolini, e pochi giorni dopo sono promulgate le leggi speciali che sanciscono l’instaurazione della dittatura.
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La stampa:
Elisa De Portu (CARTELLONE LO SPETTACOLO DELL’EMILIA ROMAGNA)
Luigi gozzi coltivava da tempo il desiderio di mettere in scena uno spettacolo che narrasse la storia di un personaggio controverso e dimenticato, come Anteo Zamboni. Ci riesce quest’anno, anche grazie alla recente pubblicazione di un libro di Brunella Dalla Casa che raccoglie documenti, resoconti e testimonianze su un avvenimento mai realmente chiarito e dai risvolti del tutto inquietanti. La mattina del 31 ottobre 1926 il giovane quindicenne Anteo Zamboni viene lapidato da una folla inferocita, con l’accusa di aver tentato di sparare al duce. Ma era davvero possibile che un giovane balilla, di famiglia anarco-fascista desiderasse attentare alla vita di Mussolini? Ma soprattutto, è certo che sia stato davvero lui a sparare il colpo e non piuttosto qualcun’altro? Dal 21 gennaio fino al 1 febbraio in prima Nazionale all’ITC di San Lazzaro è possibile assistere a l’Attentato, una produzione nata in collaborazione con il Teatro dell’Argine di Andrea Paolucci e un testo scritto a ben otto mani. A buttarsi nel progetto e a collaborare con Gozzi altri tre giovani drammaturghi che, a differenza del fondatore del TNE, il fascismo lo hanno studiato sui libri di scuola: si tratta dello stesso Paolucci, di Nicola Bonazzi e di Pietro Floridia. Un connubio tra giovani e “anziani” che ha prodotto un risultato interessante e intenso da cui emerge sopra le altre una bella interpretazione di Marinella Manicardi che impersona Viola, la madre smarrita di Anteo. Sulla scena, di Anteo, si avverte solo l’assenza. Fin dall’inizio sentiamo parlare di lui dalla madre, dal padre, dalla zia. Lo chiamano “patata” ed è solo un ragazzino che vuole diventare grande, un ragazzino che durante la parata vuole indossare gli abiti da balilla e scendere in piazza con gli altri. La sua mancanza è il filo rosso che lega tutti gli elementi sul palco e il motore di un’angoscia che è mancato ritorno, presentimento, violenza subita. E’ da questo momento che il fascismo irrompre tra le mura di via Fondazza, la casa di Mammolo Zamboni, che ne è completamente preso alla sprovvista. Il fascismo è ira, repressione, distruzione: una sedia che viene ripetutamente fatta a pezzi e un ragazzo che viene picchiato a sangue.
E poi la politica. E il dubbio. Il dubbio di un complotto, se è vero che non c’è un’inchiesta a chiarire la dinamica di un omicidio perpetrato da 20 squadristi e un duce che se la cava sempre. Da quel momento Mussolini è “l’uomo della provvidenza”, un uomo che si salva sempre, ma per farlo deve poter promulgare le leggi speciali, che sanciscono una feroce dittatura e l’abolizione di qualunque tipo di opposizione, dai partiti alla stampa. E lo fa per telefono, da Bologna, la sera stessa, mentre il corpo sfigurato di un giovane giace al comune, una famiglia cerca il suo ragazzo, una madre presagisce il pegio. L’Attentato è uno spettacolo da vedere. Ricco, umano, amaro ci rimanda i riflessi di un periodo storico che ha segnato l’Italia, per il senso di ingiustizia e la perdita di libertà che ha portato con sé. Non si tratta di uno spettacolo che parla di storia, ma la messa in scena di un’umanità. La famiglia è l’unico elemento a riempire il vuoto e le scene di terrore sono forti, così come è forte il rumore di uno sparo o di una sedia spaccata. E’ però uno spettacolo appena nato, che si avvale della partecipazione di un gruppo di attori di spessore, ma che come tutte le produzioni fresche, ha ancora un buon margine di miglioramento. Un lavoro, tuttavia, necessario ai giovani e agli “anziani”.
Davide Turrini (LIBERAZIONE)
Bologna, 31ottobre 1926, anniversario della marcia su Roma, Benito Mussolini dopo aver presieduto l’evento allo stadio comunale e partecipato ad un convegno scientifico all’Archiginnasio, si avvia sull’Alfa rossa verso la stazione ferroviaria. Migliaia di persone in delirio per il duce, che a busto scoperto rotea le pupille e mostra la volitiva mascella alla folla. Poi alle 17 e 40 in pieno centro, tra via Indipendenza e via Ugo Bassi, un colpo di pistola.
Anteo Zamboni un quindicenne, in camicia nera da balilla, viene immediatamente additato dalle centinaia di astanti: il linciaggio è furioso ed immediato. “Sono state undici pugnalate, quindici percosse, un morso, u colpo d’arma da fuoco, un tentativo di soffocamento” e il corpo sfigurato e senza vita di Zamboni, rimane sul selciato per oltre un’ora. Nei giorni successivi il consiglio dei ministri fascista promulgherà le famigerate leggi speciali dirette a “spezzare le reni” degli oppositori.
Questa in sintesi la verisone ufficiale, ma fu veramente Zamboni a sparare? O c’era a monte un complotto dei fascisti locali che spinsero Anteo ad agire? Domande insolute, risposte ipotetiche nello spettacolo teatrale diretto da Luigi Gozzi all’ITC di San Lazzaro di Savena, nel bolognese. Punti di vista che si incrociano (i due camerati, il vigile , il padre di Anteo, Mammolo, la madre Viola e la zia Danda) per una scarna e dinamica messa in scena attorno ad una sedia vuota che verrà ripetutamente fracassata in mille pezzi dal camerata più giovane. Spolverini, fez e pantaloni alla zuava neri, inserti sonori del ventennio che aleggiano minacciosi, i coni d’ombra di una storia presto archiviata ma che rivolge allo spettatore l’insolubilità della questione e insinua il dubbio. Emotivamente trascina Marinella Manicardi nella parte della madre affettuosa e svampita, sorta di narratrice cortese e continuamente esclusa dagli eventi materiali, ma pronta a donare dolcezza verso la giovane figura del figlio, stritolata dall’incombente necessità di un visibile, salvifico e girardiano capro espiatorio.
Stupiscono i due miliziani (Carlo Massari e Giovanni Malaguti) per l’intensità con cui rievocano con poche e concitate parole, con nervosi e secchi gesti, l’atmosfera oppressiva di una dittatura che non lasciò scampo al seppur minimo dissenso. Senza dimenticare l’apporto di Lorenzo Ansaloni, Micaela Casalboni e Andrea Gadda, il vigile, che introducendo il fatto che si verificherà nell’immaginario futuro (ripetiamo: solo le sedie che continuamente vengono rotte riamandano simbolicamente ad Anteo) afferma: una gran giornata dove si fa la storia, la storia più importante, che rimane, e la storia che passa, anzi che è già passata, perché non c’è memoria, perché non c’è mai stata”.
Un plauso anche a Luigi Gozzi (lui il fascismo da bambino l’ha vissuto ) che è riuscito a mettere in scena un progetto nato nel lontano 1976 e continuamente rimandato, soprattutto per mancanza di documentazione storica, poi prontamente riscritto e rielaborato dopo la pubblicazione del libro di Brunella Della Casa, Attentato al duce (Il Mulino). Infine, sarà per quella fretta lapidatoria con cui Anteo viene ucciso, per quella incerdibile e repentina condanna agli ipotetici fiancheggiatori (Mammolo, grande amico del gerarca locale Arpinati, e la Danda verranno condannati a 30 anni di galera) che le ultime parole di mamma Viola assumono un signifcato storico-politico che non lasciano spazio ad ulteriori verità: “C’è chi dice che erano d’accordo tutti, quelli che erano là, attorno al capo, al duce e così hanno approfittato di un bambino, e dopo lo hanno massacrato, perché loro sanno come si fa ad uccidere…loro lo sanno, e lo sanno fare, alla svelta”.
Massimo Marino (L’UNITA’)
Bologna 31 ottobre 1926, quattro anni dopo la marcia su Roma, Mussolini visita Bologna. All’angolo fra via Indipendenza e via Rizzoli, mentre passa il corteo fitto di gerarchi, fra ali di popolo festante e un servizio d’ordine di centinaia di uomini, echeggia uno sparo. Il duce è illeso, in compenso, “l’attentatore” viene massacrato dalle camicie nere a pugnalate e botte. La vittima si chiama Anteo Zamboni: è un ragazzo di quindici anni e non si saprà mai se sia stato davvero lui a sparare. Quello che è certo è che il duce chiama subito il ministro di polizia Rocco e accelera l’iter delle leggi speciali: di lì a pochi giorni in Italia non ci sranno più libertà. Gramsci finisce in prigione in meno di una settimana. A questo episodio sorico, un mistero, forse un complotto, diradato in parte solo due anni fa da un bel libro della storica Brunella Della Casa, è dedicato lo spettacolo “L’attentato”, in scena all’ITC di San Lazzaro fino all’1 febbraio (riposo il 26 e il 27, info 051.6270150). Il testo (pubblicato da Clueb) è stato scritto a otto mani da Luigi Gozzi (che firma anche la regia) e da Nicola Bonazzi, Pietro Floridia e Andrea Paolucci, per una coproduzione Teatro Nuova Edizione e Teatro dell’Argine, due strutture impegnate da anni in una drammaturgia rivolta a indagare la memoria storica e i conflitti del presente. In una scena vuota, fra due pedane con alcuni spettatori ai quali gli attori si rivolgono di tanto in tanto, viene ricostruito il fatto, per porre domamde ma soprattutto per raccontare la nascita di un regime che vuole controllare la società, le vite, perfino le coscienze, e usa ogni mezzo per farlo. Anteo non si vedrà: sarà solo una sedia vuota al centro della scena, più volte fatta a pezzi da due squadristi. Anche di Mussolini si ascolta solo la voce stentorea, arringante folle pronte ad acclamare. I personaggi sono il padre Mammolo, tipografo, anarchico e fascista, ma senza tessera, la cognata Danda, forse sua amante, la moglie Viola, una donna goffa e sperduta, un vigile urbano che conduce nei luoghi di una Bologna diversa da quella odierna, più piccola, meno benestante. E poi i due squadristi, interpretati come caricaturali maschere dai giovani Carlo Massari e Giovanni Malaguti. La storia procede per salti temporali e spazial, con gli attori che si distanziano dai personaggi per raccontare e tornano subito a immedesimarsi nelle situazioni. Risalta la figura della madre, una vittima familiare, una donna debole di mente, ma anche creataura che sembra provenire da un altro mondo, capace di sentire prima, più profondamente degli altri: una Marinella Manicardi attonita e intensa. Il fascino maggiore di questo lavoro essenziale, apparentemente semplice, sta nella sua capacità di aprire i vuti. Non è teatro di cronaca e neppure solo esercizio di memoria. Man mano che scorrono le scene, che i monologhi svelano pezzi di verità dei personaggi, è la dimensione umana di questi che assume consistenza. Mammolo (un bonario Lorenzo Ansaloni), un uomo nutrito di confuse ideologie, che vanta l’amicizia con il federale di Bologna, che sostanzialmente prova a sopravvivere; la tesa Danda di Micaela Casalboni, una popolana diffidente degli slanci dell’altro; Viola e il sensibile vigile Andrea Gadda, tutti disegnano un universo di gente comune travolta dalla storia, colpita negli affetti da un regime che puzza di morte. Questa danza di assenze, evocando Anteo come un fantasma e il suo come un mistero, materializza l’invadenza di un potere che spiana ogni differenza, travolgendo le persone, trasformando le città in deserti di paura e conformismo dove si può solo “credere obbedire combattere”. E qui, il pensiero, non può che ritornare ai nostri giorni.
Come è nata l’idea di ripescare questo fatto dimenticato?
Ci pensavo da tempo. Ma non avevo i mezzi d’indagine storica. Due anni fa è uscito il libro di Brunella Dalla Casa e mi ha fornito materiali e nuovi stimoli. La vicenda storica mi interessava per ragioni locali e personali, per ricordare il fascismo a Bologna e perché comparivano nomi che ricorrevano nella mia infanzia. Ma anche perché credo si debba fare teatro politico, in certe forme, oggi particolarmente.
Ha un valore emblematico la scelta di questo episodio?
Siamo di fronte a uno strano mistero. Probabilmente non ci fu nessun attentato: si trattò di una messa in scena per propiziare una stretta del regime e per emarginare i settori più estremisti dello stesso fascismo. Ma la sinistra mollò, fece di tutto per perdere. E’ vero anche che la destra picchiò duro. Oggi viviamo ancora in un clima di decisa repressione e speriamo la sinistra non dimostri l’insipienza di quei tempi. Il vostro testo, pubblicato dalla Clueb, gioca su più livelli lasciando assente Anteo, ma anche il duce. Mussolini è presente come voce: era un grande comunicatore del suo tempo (come qualcun altro, in modo diverso, oggi), usava tutti i mass media a disposizione, il megafono, la radio, i giornali, i comizi, il cinema. Noi ricostruiamo gli avvenimenti secondo una scansione temporale libera; la madre, per esempio, interpretata da Marinella Manicardi, è un personaggio isolato, che sembra vedere per prima i fatti. Questa libertà di piani ci consente anche di lasciare le ambiguità della storia. Eppure ogni riferimento è precisissimo: luoghi, nomi, personaggi.
Come ha lavorato con gli altri drammaturghi?
Sono giovani. Quello che apparteneva alla mia memoria, per loro era decisamente lontano. E’ stato bello trasmettere anche un’esperienza storica, politica, di vita. Lavorare su un fatto reale penso che sia, oggi, importante. Non solo perché in molti, specie nel cinema o nella migliore TV, tornano a indagare il passato. Ma anche perché credo faccia bene misurarsi con dati reali, sociali, civili. In questo modo il teatro può fuggire l’autoreferenzialità da cui spesso è tentato. Senza rinunciare al dato esistenziale, senza cadere nelle certezze: anzi, aprendo dubbi.
Gastone Ecchia (ARGENTO VIVO)
l regista teatrale Luigi Gozzi già nel 1976 voleva mettere in scena questa storia. Solo dopo l’uscita del libro di Brunella Dalla Casa (Attentato al duce – Le molte storie del caso Zamboni, Il Mulino editore, Bologna 2000- pagg. 291) e l’incontro con il TNE e Teatro dell’Argine il progetto si concretizza. Questi eventi storici sono messi in scena all’ITC di San Lazzaro di Savena (Bologna) e vengono organizzate rappresentazioni per le scuole.
La storia e la memoria sono un elemento fondamentale di partecipazione delle nuove generazioni. “Sono curiosa si assistere – ci dice Ornella dell’Istituto Tecnico Commerciale “Pier Crescenzi” – a questo fatto. Abbiamo un grande archivio a scuola che deve essere utilizzato per farci conoscere la nostra storia”. “E’ stata letta la sceneggiatura nella nostra scuola – ci fa presente Fabio delle Aldini – Oggi abbiamo la possibilità di vederla rappresentata a teatro”. Ai lati del palcoscenico alcuni ragazzi assistono alla rappresentazione, a simboleggiare le ali di folla che seguono la sfilata. Al centro una sedia vuota che rappresenta il protagonista, Anteo, che non c’è.
Il testo è pubblicato da "Clueb" nella collana "Simulazioni". Pagg 57 Tav. fuori testo. € 7,50
La scimmia di Mussolini di Tiziano Fratus
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La scimmia di Mussolini è una ragazza sui vent’anni, colta anche se ricorre ad un linguaggio diretto. Una sua caratteristica evidente è il colore della pelle: mulatta. E’ figlia di una padre marocchino e di madre bergamasca. Vive l’Italia post caduta del Muro di Berlino e post undici settembre (quello di New York), vive in un paese attraversato da rigurgiti neofascisti e da movimenti di piazza di varia matrice: reduci del sessantottismo, idealisti, pacifisti, anarchici, disobbedienti. Il diffuso senso di disagio e di protesta, tipico fenomeno che emerge e si diffonde negli strati economicamente più insicuri, e più ampi, durante le fasi di stagnazione macroeconomica, di inflazione galoppante (sui consumi, la spesa), è pane quotidiano per una ragazza e per i suoi compagni, in una città italiana che si sta trasformando, rincorrendo modelli architettonici e culturali internazionali, probabilmente irraggiungibili. Si rivolge ad un ragazzo che le fa il filo, uno studente, un intellettuale di sinistra dichiarata, probabilmente uno di quelli che si infervora pensando a termini e concetti del nuovo come sinistra democratica, Ulivo, lista unitaria. Un ragazzo come tanti, un ragazzo che predica l’integrità intellettuale e morale e poi finisce per rincorrere le mutande di una ragazza che invece prova simpatie per tutt’altra fede politica, e che ha delle passioni notturne molto particolari. Il monologo, scritto come nella mia poesia e come nel precedente monologo in versi l’autunno per eleni (2002, in scena alla Galleria Velan di Torino, al festival Linguaggi di Pescara e musicato da Ilaria Drago e Giovanni Signoretti per Arezzo Wave), procede per frammenti, per flussi di coscienza: in questo modo si intrecciano problematiche perosnali, passioni, discussioni con l’innamorato, ragionamenti di carattere politico e storico. L’assensa di segni d’interpunzione favorisce, nell’intento del suo autore, una maggiore libertà interpretativa. Il linguaggio è volutamente sciatto, diretto, poco o per nulla ricercato. In fase di recitazione la ragazza potrebbe anche manifestare dei tick, delle manie ossessive. Ma ad un certo punto cala la notte, la ragazza è sola, cambia, si trasforma, il nero sgorga e ricopre ogni oggetto, modificando anche il linguaggio che si addensa, si raggruma, si eleva. Per qualche lettore la drammaturgia potrà apparire un inno al qualunquismo, bene: la vita supera le idee o sono le idee che reggono la vita, che la sostengono, che la alimentano, che la vincono? Una risposta non è facile, e d’altro canto nemmeno l’esistenza permette di stare troppo da una parte o troppo dalla parte esattamente contraria. Alla fine, quello che resta, forse, è soltanto l’amore, od un suo simulacro.
Tiziano Fratus
Pazzi di Luigi Maccione
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Pazzi è stato segnalato al premio Ugo Betti 2001 e vincitore del premio Don Chisciotte nello stesso anno.
E' stato prodotto dalla Compagnia Stabile Attori & Tecnici - Teatro Vittoria per la regia di Stefano Messina con Viviana Toniolo, Andrea Lolli, Raffaele Vannoli e Paolo Zuccari. E' andato in scena a Roma all'Ex Mattatoio, al Teatro Vittoria (2001 e 2002) e al teatro Comédie & Studio des Champs Elysées di Parigi (2003).
Con la produzione della Compagnia Giuliano Lenzi (La Lut) per la regia di Giuliano Lenzi, con Lorenzo Giansante, Ugogiulio Lurini e Lorenzo Mori è andato in scena a Santa Maria della Scala Magazzini della Corticella a Siena (2002) a Piancastagnaio (SI), a Il Fabbricone - sala Fabbrichino Prato (2003) e a Buti (PI) nella rassegna Piccoli Fuochi diretta da Dario Marroncini (2003). Andrà in scena , il prossimo 13 marzo 2004 al Castello Pasquini di Cacastiglioncello (LI) per la stagione teatrale di Armunia diretta da Massimo Paganelli.
Pazzi è stato tradotto in spagnolo (Locos) e sono allo studio progetti per metterlo in scena in un prossimo futuro in Spagna.
Note di regia
L’opera, pur essendo incentrata sui monologhi dell’unico personaggio che parla, non cade mai nel vuoto soliloquio: ogni ricordo, ogni frase, ogni azione di Jill è utilizzata dalla donna come strumento per coinvolgere gli altri due e renderli partecipi del proprio tentativo di acquisire coscienza e libertà. Lo spettacolo affronta due temi fondamentali: la diversità e la ricerca di una propria identità. L’originalità del dramma consiste nell’intrecciare i due temi, rifiutando i cliché lacrimosi che tanta produzione artistica moderna ha adottato. Per fare ciò era necessario che il pubblico si sentisse il più coinvolto possibile dalla storia. Tale coinvolgimento può essere ottenuto a due livelli: a livello di messa in scena e a livello di testo. Per agire al primo livello è necessario unire attori e spettatori in un unico spazio scenico, in modo da evitare il distacco emotivo che spesso l’opposizione palco/platea provoca. Per quanto riguarda il testo si è scelto di adottare un linguaggio fortemente realistico, popolare, ruvido, a tratti volgare, all’interno di situazioni che mostrano quasi sempre il loro risvolto divertente. Nonostante il tema apparentemente drammatico, il testo è infarcito di battute comiche e il modo di parlare utilizzato dalla protagonista è sempre sarcastico e ironicamente provocatorio. La scommessa di “Pazzi” consiste nel far riflettere il pubblico su argomenti scomodi, utilizzando i toni della commedia. Una riflessione seria sempre condotta col sorriso sulle labbra.
"... Oddio, scusa Felix, scusa. Scusa, sono proprio una puttana, hai ragione, scusa. Scusa, scusa, vi ci ho portato io nel casino, voi magari vi divertivate pure, là dentro a pisciarvi addosso e mangiare pillole ..."
Di cosa parla:
Pazzi è una favola ironica di cui sono protagonisti due malati psichici e una prostituta, che si trovano in un luogo di costrizione che in qualche modo hanno scelto, fuggiti (probabilmente) da un altro luogo di reclusione; è il racconto di una fuga senza fine, quindi è anche una favola folle, onirica. La fuga sognata e raccontata avviene attraverso la sessualità: ogni prestazione è un passo verso la via d'uscita. Ma per andare dove? Il sesso come chiave universale per infrangere i divieti stabiliti dagli uomini. Pazzi dunque è un gioco di ruoli e si intuisce che per rompere questo gioco qualcuno dovrebbe prendere in mano il proprio destino e cambiare il proprio percorso. Ma è un labirinto senza via d'uscita, un intreccio di affetti troppo complesso. E la favola ironica prosegue, sul filo del grottesco di una situazione paradossale che non precipita mai.
Arrivederci, Luigi...
A cuore aperto di Patrizio Cigliano
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A cuore aperto è in scena fino al 21 dicembre al Teatro dell'Orologio di Roma per la regia di Patrizio Cigliano prodotto da Doppia Effe Compagnia di Prosa Mariano Rigillo e La Compagnia Arcadinoè. Con Alessandra Fallucchi, Patrizio Cigliano e la partecipazione straordinaria "in voce" di Arnoldo Foà e Maria Rosaria Omaggio nella versione a monologo e con Marta Paglioni, Veronica Milaneschi e Alessandro Loi nella versione a dialogo. Aiuto Regia: Italo Coretti, Francesco Trifilio, Irma Carolina Di Monte, Stefano Masala; Grafica: Simona Barbarito; Luci di Camilla Piccioni; Foto e Foyer : Pino Le Pera.
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La stampa:
"... 70 anni di felicità, una storia d'amore in cui il tempo, fugace, è abbattuto dall'intensità dei sentimenti e dalla pasione dei ricordi. Da non perdere". (Il Tempo)
"...Cigliano incanta scegliendo registri alati e drammatici per raccontare la storia degli ottantenni Giuseppe e Maria, ...per avere una visione più ampia della vita. " (Repubblica)
"... Quanto amore tra quei due vecchi coniugi. Il testo ha una struttura singolare: due monologhi incrociati e affiancati per restituire, insieme, una sola verità. Impegnatissimi, i due ottimi attori, già di solida esperienza". (L'Unità)
"...Attimi e sguardi d'amore lunghi come una vita". (Messaggero)
"...il bravo attore si riconosce così. Commozione pura. Vera chicca di Cigliano, l'autore-regista-attore under 35 più premiato d'Italia". (Corriere dello sport)
Di cosa parla:
Un uomo e una donna anziani si fissano in uno spazio indefinito. La musica è pulsante, come il battito di un cuore. Ma con il crescendo ritmico di quel battito qualcosa cambia e proprio nell’ultimo minuto da passare insieme, scocca uno sguardo. E’ un minuto intenso e in quello sguardo scorre velocemente tutta una vita. Tutto un Amore. Memoria. A Cuore Aperto è una storia senza tempo, senza luogo, senza convenzioni. E’ la storia d’amore di tutti. Di tutti coloro che la cercano da sempre. Di tutti quelli che non l’ hanno ancora trovata. Di coloro che sono felici perché hanno accanto il compagno di una vita, la compagna di sempre. A Cuore Aperto è tutto quello che in uno sguardo di pochi attimi, due persone che si amano, che si sono amate, possono dirsi, senza il bisogno di usare parole. Non è una storia “trasgressiva”. Non è una storia scandalistica. Non ruba dalla cronaca quotidiana. Non c’è violenza, né fisica né mentale. Non è una storia “estrema”. E’ una storia d’amore. Una bella storia d’amore, che come quasi tutte le storie d’amore, finisce male. Ma stavolta non perché ci si è traditi, né perché si è stanchi. Semplicemente perché la vita finisce, e prima che accada è bello poter fare un bilancio di una bella storia d’amore e rendersi conto che ne è valsa davvero la pena. La pena di sopportare anche le piccole insofferenze quotidiane che la convivenza inevitabilmente genera, perché in fondo non era affatto una pena. Era la vita. La serena e turbolenta vita di una coppia. È la storia di una vita insieme, attraverso una buona parte del secolo appena finito. E’ il resoconto di un amore profondo, sincero, goliardico, difficile, meraviglioso. E’ la lotta per la vita, per la memoria, per la freschezza di un amore che non è invecchiato con gli anni. Perché se il corpo ha una data di fine, il sentimento resta nelle cose, negli odori, nelle canzoni, finché tutto - ma proprio tutto - sarà finito, e finché non resterà neanche una persona a garantirne la memoria. E’ un testo evocativo, poetico, sicuramente molto letterario, forse per uscire dal pantano di certa drammaturgia “spicciola”, forse un po’ troppo “di strada”. La trasposizione in forma di monologo dell’originale testo dialogato ha un forte intento poetico, e rappresenta una specie di “studio” per la versione che verrà riproposta in seguito, con doppio cast. A Cuore Aperto fa piangere perché è una bella storia d’amore senza tempo, senza luogo e perché tutti noi vorremmo avere una storia – almeno una! – che sia senza tempo e senza luogo.
Patrizio Cigliano