Le luci di Algeri (Un requiem di fine millennio) ha vinto il premio Flaiano 2000. Con il patrocinio di AMNESTY INTERNATIONAL e la produzione di Studio 12, la Compagnia IL PANTANO diretta da Claudio Frosi ha debuttato con lo spettacolo lo scorso febbraio. Dopo una tournèe estiva riprenderà le repliche presso il TEATRO DELL’OROLOGIO di Roma dal 21 novembre al 23 dicembre 2001
Di cosa parla:
Novità assoluta della drammaturgia italiana contemporanea assume, alla luce dei tragici fatti di New York, un valore addirittura anticipatore. Il tema trattato è infatti una delle orribili e troppo numerose stragi che deturpano il suolo dell’Algeria, ed ora anche dell’occidente. Lo spettacolo si propone come un incontro tra Culture, un Requiem, un pianto funebre scritto e rappresentato da occidentali in onore di bambini algerini, vittime innocenti sgozzate da altri algerini. Laddove ancora una volta sono le donne, nel loro dramma di madri e di mogli, a subire impotenti il peso del lutto dopo quello della violenza.
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COME TRE BAMBOLE ROTTE di Letizia Bernazza.
(Articolo pubblicato su www.tuttoteatro.com Anno II - n.6 - 10/02/2001).
Quando gli spettatori fanno il loro ingresso nella sala romana del Teatro Due, gli interpreti de Le luci di Algeri sono già in scena a sipario aperto ed è difficile non rimanere subito coinvolti dall’atmosfera, finemente ricreata dal regista Claudio Frosi, dell’opera di Gianni Guardigli su una delle numerose stragi commesse in Algeria durante il Ramadan. Un acre profumo d’incenso e un buio quasi diffuso avvolgono l’interno di una modesta abitazione dove è riunita una piccola comunità che piange i suoi morti: tre bambini sgozzati dai terroristi islamici senza un perché in una delle tante strade polverose tra Orano e Algeri. Il racconto del massacro prende il via dal pianto soffocato della madre e tutta la messinscena è governata dal tono sommesso di un lungo canto funebre, intriso di una rabbia talmente dolorosa da impedire l’agire disperato dei protagonisti e un loro sfogo verbale. Gesti e parole non servono a cancellare l’avvenuta tragedia che ora si consuma per i vivi sotto il candore di bianche tende e in mezzo a cuscini colorati, candele accese, tappeti sfarzosi, utili soltanto ad accogliere corpi prostrati e distrutti dalla ferocia gratuita di un gruppo di esaltati. Seduta a terra con il volto coperto dal caratteristico ciador, la madre si abbandona al ricordo dei propri figli e, mentre indulge a rammentare i loro tratti fisici non ancora sbiaditi dal trascorrere del tempo, torna alla sua mente l’immagine dei piccoli cadaveri sfigurati. <<Erano come tre bambole rotte>>, ripete a tormentone nel corso dello spettacolo ed è questa frase a sottolineare il peso irremovibile del lutto insieme alle poche battute dell’anziana nonna, la quale vorrebbe addirittura <<diventare muta e sorda pur di non sentire il silenzio della morte>>. Anche lei è accovacciata su una sedia, anche lei parla il linguaggio universale della sofferenza che diventa un grido straziante di dolore quando afferma di voler <<lavare le pietre intrise di sangue e persino il sole che ha visto tutto>>. Alla sua ribellione non sfuggono né gli assassini dei nipoti né Dio, gli uni rimasti impuniti e l’altro indifferente alle ingiustizie del mondo. Il vuoto di sentirsi costantemente orfani di tutto e di tutti è il tratto saliente dei protagonisti della pièce (a vestire i loro panni sono Chiara Di Bari, Silvana Bosi, Isabella Martelli, Maria Monti e Gaetano Varcasia) in cui, non a caso, i dialoghi vengono sostituiti dai monologhi e brevi a solo si alternano ai brani registrati del cantante algerino Kaled o ai ritmi delle musiche arabe tradizionali suonate dal vivo. Due musicisti a lato della scena con tamburi e percussioni scandiscono il tempo dello spettacolo e, nell’evocare luoghi a noi neanche troppo lontani, preparano i successivi interventi dei quattro attori principali sempre sul palco per l’intera durata della rappresentazione. Così, ad esempio, un rullo prolungato di tamburo invita il padre dei tre bambini - fino ad allora rannicchiato sul suolo della claustrofobica abitazione - a intonare il proprio inconsolabile lamento, malgrado egli sia forse l’unico disposto ad illudersi di un possibile riscatto. Mohammed è, infatti, un uomo e il suo ruolo di maschio gli impone di fare altri figli a risarcimento di quelli perduti, laddove nella pièce sembra essere affidato alla donna il compito di contrastare i carnefici. Ci prova la venditrice di granaglie del villaggio (Claudio Frosi e lo scenografo Piero Risani sono molto abili a trasformare lo spazio scenico in un suk pieno di botteghe e di commercianti ambulanti), la quale sbarra le finestre e le porte della propria casa affinché il nipote-terrorista non esca più a uccidere bambini; ci prova il fantasma di Fatima (la maggiore delle tre vittime) che fa la sua sinistra apparizione per scuotere con autentica sincerità la memoria dei vivi prima di ritornare nel regno dei morti sulle note del Requiem di Mozart.
Dalla stampa:
"La storia scritta da Gianni Guardigli racconta una delle terribili stragi che durante il Ramadan deturpano il suolo dell'Algeria, ... , una terra dove si vive e si muore in comunità e dove la comunità è partecipe dei lutti e delle gioie del singolo." (Rossella Fabiani, La stampa)
"Ambientato da Guardigli tra le tende di un'arcaica comunità del deserto questo "Requiem di fine millennio" riguarda anche noi: "Si bagna nelle acque del bacino del mediterraneo, è radicato in un profondo sud povero e sanguigno come era il nostro meridione". (Nico Garrone, La repubblica)
"Un lavoro il cui testo pregevole è il primo degli interpreti, poesia di parole che si susseguono accompagnate da una musica araba tradizionale molto ben eseguita ed appropriata che ne aumenta il fascino" (Diana Palma, Sipario)
"Il primo merito è quello di aver riacceso le luci su Algeri (...) il secondo è quello di aver saputo conciliare con le compatibilità teatrali una tragedia così complessa: rappresentandola nei suoi tratti essenziali, in modo da dare anche allo spettatore meno informato un quadro per capire ciò che sta succedendo in Algeria" (Giuliana Sgrena, Il Manifesto)