Conversazione
con Antonio Tarantino di Tiziano Fratus |
Conversazione fra Antonio Tarantino (AT) e Tiziano Fratus (TF) Torino, un bar in via Saluzzo, lunedì 13 ottobre 2003 TF Antonio Tarantino, come è noto, inizia a scrivere per il teatro agli inizi degli anni Novanta. Cosa ti ha spinto a farlo dopo aver dipinto per una vita? AT Sono state una serie di circostanze casuali. Conoscevo un gruppo di teatranti, i quali in un certo senso mi hanno iniziato al teatro. Non ero un gran frequentatore dei teatri, sì avevo visto Carmelo Bene, le cose che si vedevano negli anni Settanta, però non è che avessi mai avuto una particolare attrazione per il teatro. Mi soffermavo di più su altre cose. Poi è accaduto che mi sono occupato per un po’ di anni di poesia, leggevo poesia italiana. Trovavo che i poeti italiani utilizzavano parole che non riuscivano a veicolare il nuovo, parole che avessero veramente a che fare con la nostra esistenza… TF Il quotidiano… AT Sì, il quotidiano ma anche.. mi parevano parole troppo usate, al limite della fruibilità. Parole conosciute, quel loro ricorrere ad una sorta di gergo, non iniziatico, ma di una casta, di una categoria di persone che ammiccano l’un l’altra. Mi venne l’idea di scrivere un racconto, conoscevo una persona che aveva un figlio coinvolto in certe faccende, ne feci un racconto di trenta quaranta pagine. Però era troppo ideologico, molto anni Settanta. Lo lasciai da parte. Dopo un po’ di tempo iniziai a scrivere Stabat Mater, nel quale intendevo adottare una lingua diversa, dove la lingua doveva esplodere e appigliarsi a tutte le possibilità. Usavo i materiali che trovavo, che potevano essere utili da un punto di vista drammaturgico. TF Quindi cercavi di tracciare la psicologia dei personaggi attraverso quella lingua che non trovavi nelle pagine dei poeti, che i poeti lasciavano fuori dal mondo. AT Era una lingua molto convenzionale. E poi si sa, la poesia è ritmo. Questo porta ad una sorta di costrizione, se tu riscrivi secondo i canoni le tue idee vengono incanalate in quel canone, tu ti vedi condizionato a dire meno di quello che vorresti dire, qualche volta invece si vorrebbe dire anche qualche cosa in più rispetto a quello che si vorrebbe dire. Era una scrittura, la poesia, quella lingua e quel canone, che non mi lasciavano libertà. TF E per questa ragione, per questa genesi, che hai scritto tre dei quattro testi della Tetralogia delle cure in versi, per la precisione si tratta di una prosa versificata, come fece Thomas Bernhard. AT Sì sì, è una prosa versificata. In verità la prima versione di Stabat Mater l’ho scritta in prosa, poi decisi di metterlo in versi, versi molto liberi, nulla a che vedere con il canone classico. TF Il verso libero nel corso del Novecento ha frantumato molte regole. AT E’ vero, però il verso libero nonostante si distacchi dalla tradizione ne è comunque vincolato. Si sente che è il poeta che si prende delle libertà rispetto ad un qualcosa che è codificato. TF Nella drammaturgia contemporanea italiana molti autori, a partire dagli anni Sessanta, forse proprio perché provengono da quel mondo, o perché l’hanno vissuto, hanno sviluppato paesaggi e personaggi d’un mondo della marginalità. Cito i soliti nomi, Pasolini, Bene, Scaldati, Moscato, sicuramente Annibale Ruccello che fra i napoletani è probabilmente l’autore che più può essere avvicinato nella costruzione dei personaggi al tuo lavoro. Perché scegli dei personaggi che stanno al margine di quella che è l’identificazione di un individuo nella società borghese, la classe media che in Italia abbraccia un numero sempre crescente di famiglie. Si può scorgere in questo senso un filo conduttore con il teatro di Testori. AT Io non credo di avere particolari legami con Testori. Ho sentito questa esigenza perché quando scrivo lo faccio sulla spinta di un’emozione. Scrivo per evocare le esperienze di un mondo che ho frequentato quand’ero giovane, il mondo della marginalità, di cui io non sono un cantore, ma che rappresentano la mia vita. Non credo che il mondo cosidetto della marginalità possa riscuotere un consenso superiore attraverso la pietà che non il mondo borghese, o altoborghese. Dipende sempre da come hai vissuto queste cose, da come hai partecipato a questa vita. Ci sono tanti mondi. Quello che io ho vissuto è un modo, né peggiore né migliore di altri, presenta le stesse dinamiche degli altri mondi: liti, gelosie, rancori. Soltanto invece di lottare, invece di combattere per delle cause che possano apparire buone, dignitose, qui si lotta per cause piccole, almeno da un certo punto di vista: per loro hanno lo stesso significato che può avere la lotta per il potere, per la ricchezza o per il prestigio. Sono modi e valori incommensurabili. Non ho alcuna particolare sensibilità per quel mondo, non provo particolare compassione, è un mondo fatto, organizzato secondo leggi e principi che appartengono a quel mondo, e che si possono comprendere soltanto vivendoci dentro. Anche lì ci sono i capi, i sottocapi, gli ultimi, e fra i più poveri dei poveri ci sono quelli più poveri ancora, i disastrati. TF Materiali per una tragedia tedesca, un kolossal teatrale, è un’opera a sé. Cosa ti ha portato a scrivere un testo di tale vastità, di tale varietà, dove la lingua esplode ancor di più rispetto a quanto fatto in precedenza? AT L’idea nasce da una vicenda del tutto casuale. Su una bancarella ho trovato un libro, Sabbia su Stammheim , è la ricostruzione di avvenimenti accaduti in Germania negli anni Settanta e che riguardano la banda Baader-Meinhof. Ho incominciato a leggerlo con grande curiosità, mano a mano che lo leggevo ritornavo indietro nel tempo, ai discorsi che si intavolavano, all’attenzione con cui si seguivano gli avvenimenti. Io ero di sinistra, facevo parte di un gruppo come allora si usava. Avevamo preso le distanze dal terrorismo perché era assurdo, la stessa teoria che io abbracciavo vietava il ricorso ad atti di terrorismo. Si guardava alla funzione del partito guida, Bordiga diceva: Il partito può essere un uomo solo in biblioteca. TF Era un gruppo che faceva capo al partito comunista oppure vi ponevate in una posizione extraparlamentare? AT Eravamo contro il PCI, ma eravamo ugualmente contrari all’intervento pratico, ci pareva assurdo e destinato al fallimento. Nonostante tutto seguivamo in televisione le vicende, soprattutto quelle tedesche, perché in generale i tedeschi sono quelli che fanno le cose meglio, sicuramente molto meglio degli italiani… ho rivisto i telegiornali di allora, mi sono riapparsi. Dopo certi personaggi mi hanno incominciato a parlare, Schleyer , Schmidt . Anche secondo una visione manichea: Materiali per una tragedia tedesca è un lavoro manicheo, di parte, esageratamente di parte. Ovviamente lo stato tedesco, oltre alla facoltà e alla forza aveva il diritto di reprimere, di imporre la propria legge. Certo, Materiali è un lavoro di parte anche perché sono uscite le mie simpatie, insomma stavo dalla parte di Robin Hood. La cosa notevole è che nel corso della scrittura pian piano si è data a vedere l’imprendibilità della vicenda, l’impossibilità di ricondurre la storia a dei dati e criteri obiettivi. La storia non è una scienza, è un racconto, può addirittura essere una favola. Quindi mi sono sentito libero di dire ciò che volevo, magari anche in contrapposizione alla realtà storica. TF Non ti sei posto alcun obiettivo di realismo. AT No no, assolutamente nessun realismo. Quello che mi interessava era, in definitiva, conseguire il dramma, tant’è che alla fine ho dovuto chiedere consiglio al professor William Shakespeare. I drammi storici sono la base di un lavoro come quello che mi ero proposto di eseguire. Non a caso Shakespeare seguiva le analisi di alcuni storici . E’ una bella propedeutica: da una parte puoi seguire le cronache storiche, dall’altra ci si può mantenere liberi intrecciando altre storie alla storia principale. Si ha il vantaggio di disporre di energie maggiori. In Materiali poi sono riuscito a trovare una grande libertà di linguaggio. Ci vogliono grandi storie, storie che a te sembrano grandi, ci vogliono perché ti esaltano, ti portano a dare corpo a personaggi e situazioni, a utilizzare un linguaggio inedito, assolutamente al di fuori della realtà. Poi ci sono gli stilemi: il potere, il capo, i tradimenti, i giovani che si pongono come un contropotere. TF E’ un questione vecchia come il mondo: le generazioni dei giovani si contrappongono ai potenti. AT Se pensi alla Raf, erano tutti borghesi, almeno i leader: da Ulrike Meinhof ad Andreas Baader a Gudrun Ensslin, erano tutti figli dell’alta borghesia. Questa loro condizione sociale, a contatto con i fermenti del tempo, li proiettava immediatamente nella condizione dei capi, cosa che non sarebbe stata possibile per i proletari. Il proletario semmai attende l’ordine, la direttiva. TF Quindi in quegli anni il non porsi limiti alla possibilità di eseguire un atto violento era anche collegato allo status sociale. L’appartenenza all’alta borghesia, quindi il godere di possibilità materiali, e il possesso del tempo per macerare certe questioni li ha condotti ad eseguire un atto politico violento. Mi viene in mente, qualche anno prima, un romanzo come La noia di Moravia, dove il protagonista borghese si ritrova una esistenza completamente bloccata, oppure anche più nello specifico dello sfogo violento, Il figlio dell’Imperatore di Kenzaburo Oe . AT Quei giovani, quella generazione, soprattutto in Germania, aveva degli strumenti, godeva di una posizione che li portava ad avere la presunzione indispensabile per poter pensare addirittura di uccidere. Questo coraggio, questa sfrontatezza è il motore di qualsiasi avanguardia, di tutti i conati rivoluzionari. Anche le rivoluzioni in Russia sono state guidate da uno stato maggiore composto da individui di alto livello, di grandi qualità, di persone che sono abituate a chiedere molto a sé stessi e agli altri. Soprattutto quando la partita diventa dura e pericolosa non si tirano indietro, sanno fare l’affondo giusto, non si spaventano, non hanno pausa. Il proletario al contrario è timido, fa parte della truppa, sa di non godere di protezione, sa di poter essere confuso facilmente. L’appartenenza all’alta borghesia è quindi, direi, un processo naturale. TF Legandoci a questo carattere d’appartenza, come hai detto tu, alla truppa. Tutti i tuoi personaggi, soprattutto nella Tetralogia, sono fuori anche da questa truppa. In Passione secondo Giovanni, il doppio personaggio IO / LUI pone una domanda che è centrale: Chi sono chi sono? chi sono / neh chi sono chi sono / sono io neh che sono io / neh neh neh che sono io? AT Emerge la patologia, l’insistenza a interrogarsi, il personaggio deve riconoscersi in una identità, posizionarsi in un contesto. Dentro di lui c’è sempre una domanda che affiora con prepotenza: ma io chi sono? Cosa ci sto a fare? Esiste una esigenza di collocarsi da qualche parte, trattandosi di un soggetto con patologie psichiche piuttosto gravi, e non potendo dire di sé stesso io sono questo io sono quello, finisce per paragonarsi a Gesù Cristo. E’ un modo di pensare molto diffuso, nelle persone colpite da handicap mentale, cercano di guadagnare posizioni, cercano di andare oltre ogni tipo di giudizio ritenendosi di volta in volta Gesù Cristo, la Maria Vergine, o Dio in persona. Nella gente anche non colpita da forme patologiche simili, gente del tutto normale, quando scendono in confidenza piano piano giungono a vantare ascendenze nobili. L’ho potuto constatare in decine e decine di casi, anche in persone molto lucide. Allora esibiscono diplomi, non gli basta la propria condizione sociale, hanno bisogno di un riconoscimento. L’uomo non basta mai a sé stesso. C’è un bisogno di affermazione. Tale bisogno si manifesta, ad esempio, anche nei concorsi di poesia: se organizzi un concorso di poesia ti arrivano un milione di poesie. Se poi vai a vedere le vendite dei libri di poesia se ne vendono cinquanta. Pur non leggendo poesia si cerca il riscatto attraverso un possibile riconoscimento. Si cercano alti riconoscimenti ufficiali, che lo siano agli occhi dei familiari o degli amici. Il protagonista di Passione secondo Giovanni cerca una via di uscita attraverso la ricerca di un alto statuto patologico. E perché Gesù Cristo? Perché è conosciuto da tutti, è l’uomo più giusto, più buono, che si è sacrificato. Questo carattere di bontà è importante per l’IO / LUI, essendo vissuto per tutta la vita in una struttura chiusa non conosce l’animo umano. Sono la crudeltà ed il perbenismo a far scorgere l’uomo. La sua è una bontà disarmata. Emergono anche elementi di crudeltà ma sono rivolti più verso sé stesso, sono atti di autolesionismo, forme di autocompassione. E la privazione sessuale è un altro elemento che ha un peso importante nel suo dolore. TF Gli ultimi due testi che hai scritto, La casa di Ramallah e Pace, pongono al centro della tua elaborazione drammatica, il conflitto arabo-israeliano. Cosa ti ha spinto a questa scelta? AT Un preambolo. Ho frequentato la casa di una persona che passa tutto il tempo davanti alla televisione. Ho fatto così una scorpacciata di televisione e di telegiornali. Allora era un momento di scontro molto violento fra israeliani e palestinesi, mi sono imbottito di immagini di case sfondate, di carri armati, di elicotteri che lanciano dei missili, di gente che urla, di gente che piange, di cadaveri, persone che si fanno esplodere. Ho assorbito tutte queste immagini. Va considerato il fatto che negli anni Ottanta patteggiavo per i palestinesi. E se vai a vedere è facile: sono poveri, sono conculcati, gli altri sono ricchi, armatissimi, dietro hanno stati potenti, gli Stati Uniti. Per me era una scelta naturale stare dalla parte dei palestinesi, anche se poi in verità cerco di mantenere un certo equilibrio fra le cose. Ci sono atteggiamenti, atti, interventi che non sono assolutamente condivisibili, come quello di andare a farsi esplodere al mercato, sul pulman. Tale legge del taglione praticata con mezzi rudimentali, ovvero attraverso il sacrificio di una peronsa giovane che probabilmente è obbligata non mi sembra la più nobile delle risposte alla forza e alla prepotenza di Israele. Sono andato in biblioteca, ho preso un paio di libri, uno era Nascita dello Stato di Israele, molto bello, di uno storico abbastanza imparziale, e ho capito che la nascita di Israele è stato un atto di volontà antistorico, è un progetto nato a tavolino. Tale idea si è rafforzata in me quando poi ho letto la biografia del fondatore del sionismo, un giornalista tedesco di grande cultura, era anche drammaturgo, Theodoro Herzl . Che poi il sionismo era di fatti nato anni prima in Russia, ma fu lui a dargli un progetto politico serio. Mi ha colpito la pervicacia con cui Herzl ha perseguito il suo piano al di là di ogni ostacolo. E’ riuscito a parlare con il Kaiser, con la massima autorità turca, è andato in Inghilterra. Ha parlato con mezzo mondo esponendo la propria convinzione che lo stato di Israele sarebbe potuto sorgere soltanto nella terra biblica. Molti altri avevano pensato al Sudafrica, altri all’Argentina. In fondo sarebbe stata la stessa cosa. TF Lo straniamento, il nuovo sradicamento sarebbe stato lo stesso. AT Il problema era quello di dare una patria a color che avevano subito i pogrom in quei paesi che venivano chiamati stetl, quei villaggi abitati da ebrei dove improvvisamente si abbatteva su di loro la furia omicida dei russi, degli ucraini eccetera, dovunque si trovassero. L’obiettivo era quello di sottrarre gli ebrei alla ferocia, e anche ai pregiudizi che si aveva contro di loro, o contro le attività a cui erano stati legati. TF Il prestito di denari, l’usura. AT Costringi uno a fare l’usura, non gli fai fare niente, e costruisci un usuraio. Poi è inutile che lo odi. Se tu di un negro fai un negro questo poi si comporta da negro. Lo stato ebraico però poteva nascere altrove, con esiti più felici. Invece oramai la questione è praticamente insolubile. Gli arabi hanno visto tutte le manovre che sono state fatte, l’acquisto dei territori, le terre e le fattorie da parte dei banchieri libanesi, e poi la durezza di quel grande condottiero che fu David Ben Gurion, un uomo di ferro, molto duro, il quale disse chiaramente che non voleva costruire un certo tipo di Israele, se ne fregava di quelle ondate di ebrei che arrivavano nella nuova patria magari dopo la rivoluzione russa portando il verbo comunista. Li ha emarginati subito, non era quello che voleva. Sussisteva anche una connotazione classista: la donna di servizio guadagnava due sterline al mese, Ben Gurion ed il suo enturage guadagnavano centosessanta sterline al mese. Era un uomo molto forte. E’ da ricordare che lui sapeva quello che stava accadendo in Germania sotto il nazismo. Dopo i patti del ghetto di Varsavia disse: salvare un ragazzo polacco sicuramente è una causa nobile, ma dobbiamo tenere distinte le due cose, noi vogliamo fondare lo Stato di Israele. Sapeva quello che succedeva, ma il suo impegno era altrove. Voleva raggiungere un obiettivo e l’ha ottenuto, ad ogni mezzo, anche con pratiche di terrorismo. Sebbene Ben Gurion troncò gli atti di terrorismo sul nascere: stroncò subito la possibilita di un esercito parallelo e terrorista, ci si ricorda dell’attentato fatto in quell’albergo dove morirono centotrenta inglesi. Non voleva trovarsi un governo ombra, l’armata incontrollabile. Cosa che invece è accaduta fra i palestinesi. Arafat non è stato capace di fermarlo. TF O non l’ha voluto. AT O non l’ha voluto, forse. Per quanto concerne la costruzione drammaturgica di La casa di Ramallah mi sono affidato alla cartina geografica, ho costruito un percorso molto poco aderente alla realtà, dove c’è una voluta imprecisione spaziale, i paesi e i percorsi non sono esatti, e c’è anche una deriva temporale, si parla di città scomparse da tempo. La follia di percorso è una mimesi della difficoltà dei personaggi di capire bene il mondo. I personaggi sono ingabbiati in una pena, danno i figli per la causa palestinese. Un personaggio femminile viene condizionata anche sessualmente, ed infine viene avviata al martirio. Lei vorrebbe togliersi ma il meccanismo è talmente avanzato che si farà esplodere. TF Viene in mente la condizione del terrorismo nordirlandese. I figli o i familiari di coloro che sono stati uccisi venivano spinti dal dolore, dal desiderio di vendetta, o da apparati politici e paramilitari al massacro, al sacrificio per la causa. Un crimine giustificabile, o meglio, in qualche maniera comprensibile. AT In senso lato è giustificabile. Quando si entra in quei meccanismi non se ne può più uscire, l’unica soluzione è la morte. Vuoi in un modo, dignitoso, agli occhi dei parenti, che è quello di sacrificarti, vuoi in un altro con il disonore, l’emarginazione. Il potere di persuasione è molto forte: i parenti e gli amici stessi della vittima sono ricattabili. Ne La casa di Ramallah i personaggi sono una specie di meridionali italiani: il loro modo di viaggiare in treno portandosi dietro il cibo, tutti quegli eccessi. Non sei ancora uscito dalla stazione che già i bambini hanno i panini in mano. Che poi non è che io mi ponga dalla parte dei palestinesi a spada tratta… comunque, ritornando a Stabat Mater o a Passione secondo Giovanni, una delle mie preoccupazione non è tanto quella di piombare sul linguaggio, di guardare della gente che appartiene al mio mondo, come l’entomologo guarda agli insetti, bensì è quella di dare dignità ad una lingua che di sé per sé non ne ha alcuna. E’ una lingua stracciona, che si arrovella attorno a casi, a accidenti. TF La Elena De Angelis ne parla in maniera puntuale nell’introduzione ai Quattro atti profani (apro il volume, pagina 17): alfabeta per analfabeta, nobile per nubile, barbale per verbale, la perdita del prefisso in, flessibile per inflessibile, censurato per incensurato. E poi perle come “va’ de retro jacula”. AT Sono incontri. L’altro giorno ho sentito uno che non diceva mappamondo, diceva pappamondo: Ho in casa un pappamondo. Era convinto. C’è una sprecisione nel linguaggio povero, non si cerca la corrispondenza fra il termine e la cosa che viene indicata. Si va a orecchio, la cosa che assomiglia, che risulta famigliare: è una parola che si appoggia a qualcosa che conosci, e di cui puoi dare conto. Una volta ho incontrato una signora sul treno, abbiamo parlato, e aveva il marito in cassa integrazione. Mi diceva: Me omo è à ca’ integration. Per lei questo aveva un significato, dire cassa integrazione le suonava strano, non dava conto della sua situazione. Invece ca’ integration perché suo marito se lo ritrovava a casa, sulle palle, tutto il giorno. Dava perfettamente l’idea. TF Il tuo rapporto con la messa in scena. Il regista che ha portato in scena i tuoi testi è stato Cherif: in generale qual è il rapporto che instauri durante le prove, pretendi fedeltà al testo oppure lasci libertà al regista e agli attori? AT Ho sempre lasciato la massima libertà. Cherif in Stabat Mater ha tagliato alcune cose. Ed è uscito anche bene. Io mi sono affidato a lui, d’altro canto avevo pochissima esperienza di teatro. La nostra collaborazione è stata sempre “telefonata”. TF Discreta. AT Sì, ho spedito qualche lettera. Piera degli Esposti mi fece una lunga telefonata, mi fece diverse domande. Io vidi poi lo spettacolo a Bagnacavallo, con la scenografia di Pomodoro, le musiche di Paolo Terni. Insomma era già uno spettacolo fatto. Ho lasciato la più grande libertà, il processo mentale che ti porta a scrivere il testo teatrale è completamente diverso rispetto all’approccio pratico, tattico del teatrante, è un approccio che suscita allarmi di diversa natura. Secondo me Cherif ha sempre fatto bene, seppure fra mille difficoltà. Per esempio le difficoltà per la realizzazine de I Materiali. E glielo dissi, secondo me aveva sbagliato a legare ciò che avevo presentato come dei quadri separati. Sarebbe stato più interessante se Cherif avesse utilizzato dei nucli drammaturgici di una certa lunghezza, invece ha costruito un continuum mentre era opportuno misurarsi con nucli autonomi attraverso le frazioni. Doveva lasciare i nuclei isolati, lo spettatore così poteva ipotizzare un buco temporale di un anno, di un giorno o di un tempo infinito. Il secondo tempo invece era davvero splendido. Certo poi c’era una difficoltà pratica, era impensabile fare una tirata di nove ore, era indispensabile fare delle scelte. Scelte che farà anche Werner Waas, in una lettura dei Materiali che farà durante l’attuale stagione teatrale a Napoli. TF In che teatro? AT Non lo so, è nell’ambito del progetto Petrolio di Mario Martone. TF Allora sarà al Mercadante. AT Mi sembra. La cosa che però in questi anni mi ha fatto più soffrire è che io non vedo i miei testi in un teatro, li vedo in spazi alternativi, avrebbero un’altra resa. Quello che mi è piaciuto più di tutti è stato Lustrini perché era uno spazio particolare, il Teatro La Comunità di Roma, meno convenzionale. Non dico di farlo sotto un cavalcavia dell’autostrada, però in un’area dismessa, dove il pubblico venga realmente coinvolto, dove non ci sia quel distacco. Non sopporto il Carignano, non sopporto il Valle, non sopporto il teatro all’italiana, non ci farei niente. Oltre tutto quei teatri portano sfiga… bisognerebbe imparare a farlo negli ospedali psichiatrici dismessi, nelle fabbriche dismesse. Altri spazi ancora. Sembra vi sia un’opportunità di fare nell’immediato futuro La casa di Ramallah, cercheremo uno spazio fortemente connotato da alterità. Per carità poi i teatri hanno una loro ragione ed una propria funzionalità, però rispetto al mio percorso… comunque d’ora in avanti spero di poter instaurare una collaborazione più stretta con gli attori ed il regista, senza dire fate bene o fate male, si discute per venire a capo degli inghippi. TF Rispetto alla drammaturgia contemporanea, a quella novecentesca, ci sono autori con i quali percepisci delle affinità elettive? AT Io non sono un grande lettore di drammaturgia contemporanea. Sicuramente ho letto con grande piacere Koltès, molti anni fa, mi aveva colpito, Quai ouest, Solitudine … Genet invece no, non sono mai riuscito ad entrare bene nel suo spirito, forse dovrei fare uno sforzo e leggerlo in francese. Magari leggerlo anche in maniera sommaria. Poi ho letto Pinter… TF E’ molto lontano da te. AT E’ lontano da me. Beckett. Con Beckett succede una cosa straordinaria: dopo aver letto dieci righe devo chiudere il libro. Non riesco più ad andare avanti, immediatamente ti porta a pensare il teatro, è il teatro allo stato puro. TF Un grande potere immaginifico. AT Sì, dopo poche righe puoi chiudere, hai capito benissimo. Beckett è il teatro totale, assoluto. Altri autori italiani non li ho letti. Forse perché non voglio restare influenzato. Non ho una cultura teatrale particolarmente vasta: ho letto Shakespeare, che mi è piaciuto molto, Moliere invece non lo conosco, ho letto gli antichi, Aristofane. Mi è piaciuto Seneca, con la sua grande retorica. Va beh Pasolini, Testori. Testori era un letterato, ha operato per cercare di trasformare in letteratura una lingua finto povera… TF Una fanta lingua. AT Sì, e forse il teatro di Testori era più legato al “teatro” rispetto a Pasolini. Per Pasolini era più una sfida, anche se la sua capacità e la sua cultura hanno reso possibile una incursione ben riuscita. TF Negli anni Sessanta gli scrittori si misuravano con le diverse forme di scritture, è il caso di Jean Paul Sartre, di Marguerite Duras. AT Però Moravia ad esempio non è mai riuscito a scrivere dei buoni testi per il teatro. Molti scrittori hanno cercato di scrivere a trecentosessanta gradi: poesia, narrativa, e teatro. Cercavano di dimostrare d’essere uno scrittore completo. I risultati sono stati spesso mediocri. A Pasolini invece riuscì bene, quasi tutte le cose che faceva le faceva bene, con energia. Penso che Testori volesse sinceramente bene al teatro, per lui non era soltanto una palestra per misurare le qualità. Testori era un uomo di teatro, di fatti ha portato in scena anche i suoi testi, sentiva il palcoscenico. Il teatro è quella roba lì, come fa Moscato: si va in scena, si fa un po’ di regia, fa le sue canzoni, recita, balla, canta, stride, urla. TF Nei nostri precedenti incontri abbiamo avuto modo di parlare delle nuove leve del etatro e della drammaturgia. Cosa ne pensi? AT E’ un bene che ci siano dei giovani che siano usciti con forza, può darsi che ne usciranno altri. Ci sono realtà che hanno fatto molto per il teatro, per la drammaturgia: il Premio Riccione, il Premio Candoni. C’è tutta una leva di giovani che prende di mira il teatro. Penso che una delle cose peggiori che possa fare un giovane da un punto di vista delle risorse materiali sia scegliere il teatro, però ti può dare grandi soddisfazioni morali. TF Oltre alla lingua, c’è un aspetto che ti ha attratto al teatro? AT Una delle cose meravigliose del teatro è che uno può anche non interessarsi alla storia, quello che però mi colpisce è poter seguire i giochi di luce, come si muovono gli attori, seguire i vizi dell’attore. Quando gli attori riescono a disporsi in scena e ad acquisire un’indipendenza nei confronti del testo allora diventano loro l’opera d’arte. Un po’ come Carmelo Bene era lui l’opera d’arte. Se tu hai una persona in scena, che conosci, a cui vuoi bene, il teatro allora assume una forza che nessun film può eguagliare, c’è… TF Una compresenza… AT Una compresenza, esatto. Allora consigliamo agli spettatori… TF Di perseguitare gli attori! AT Perseguitate gli attori, anche di notte, con telefonate fiori lettere! Un'altra cosa importantissima è la prima parola, l’attacco. Quello è un momento terribile, drammatico. E’ la prima parola che sia mai stata pronunciata, è il primo suono. La responsabilità che ha un attore è molto forte. Una volta stavo leggendo il De Bello Gallico di Giulio Cesare, ad un certo punto si introduce per la prima volta la città di Parigi. A piè di pagina c’era una nota che diceva: questa è la prima volta che Parigi entra nella storia. Io ho provato una grande emozione. Prima di allora non se ne aveva notizia. TF La figura che in Italia negli ultimi dieci anni ha svolto un ruolo decisivo di scopritore e che ha creduto con caparbietà in alcuni degli autori italiani di maggiore spessore – e cito autori pubblicati nella sua casa editrice quali Scaldati, Moscato, Scimone, in ultimo Paravidino, o che ha sostenuto essendo poi seguito da altri critici, portati in scena, conosciuti da un pubblico, come Ruggero Cappuccio e Letizia Russo – è stato Franco Quadri. Quadri ha avuto un ruolo essenziale anche in quello che probabilmente è stato il caso teatrale più emblematico degli anni Novanta, in Italia: il caso Tarantino. Che tipo di rapporto si è creato nel tempo fra voi due, intendo oltre gli specifici interessi lavorativi? AT Un rapporto di grande amicizia. Quadri che non è affatto – come spesso lo si dipinge – una persona che si muova col coltello fra i denti. Trovo che sia una persona molto semplice nel privato, anche dolce, un uomo sensibile all’amicizia con le persone con le quali riesce a stabilire un rapporto. Che dire? Lui è stato il mio scopritore, la persona che ha creduto in me, colui che ha reso possibile la prima messa in scena. Una delle cose più frustranti per chi scrive testi teatrali è ricevere un premio e poi constatare che tutto termina lì. Avvenimento frequante prima che arrivasse Quadri al Riccione, ti davano il premio ma poi non succedeva niente. Crede molto nelle proprie scelte, se crede in una persona lo fa a ragion veduta, secondo i suoi criteri di giudizio. Lui ha fatto molto per me ed io gli sono grato. Certo è una persona possessiva, si muove con un certo rigore, traccia il percorso, bisogna seguirlo senza contraddirlo, senza ripensamenti, senza devianze. Io invece sono un po’ così, certe volte seguo, certe volte non seguo, certe volte ci sono, certe volte non ci sono. Penso che abbia dovuto faticare un po’ con me. Ma insomma, i nostri continuano ad essere rapporti di amicizia, così come con Cherif, che poi è stato lui che ha voluto portarmi in scena, a Franco dopotutto sarebbe bastata la pubblicazione. Per anni c’è stato questo sodalizio fra me, Quadri, Cherif, la De Angelis, questa banda dei quattro. Ho avuto anche l’appoggio di Luca Ronconi… TF Rispetto a Ronconi, si vocifera che quando Materiali andò in prova e quindi in scena al Piccolo Teatro di Milano, mise diversi bastoni fra le ruote a Cherif… AT Non saprei dire con precisione, certo Cherif lavorò fra mille difficoltà. Io non vado molto a fondo in queste cose, voglio mantenere una certa distanza, e non voglio intervenire negli attriti che si creano fra persone che fanno lo stesso lavoro, che fanno la stessa arte. Con Franco il rapporto è d’amicizia, certo negli ultimi tempi ci siamo un po’ allargati, in precedenza era molto più stretto, lo chiamavo, ci scrivevamo lettere. Oggi le cose sono un po’ cambiate, ma è anche fatale che accada così. Anch’io sento l’esigenza di avere un regista nuovo, diverso, per esempio mi sarebbe piaciuto lavorare con la Cristina Pezzoli. Può darsi che Quadri abbia recepito questa mia esigenza come un tradimento, ma poi me l’ha anche detto: In fondo io non vanto nessun diritto su di te, se una cosa mi piace te la pubblico altrimenti non te la pubblico. E’ un’amicizia che è cambiata, c’è più distanza ma forse adesso è anche più sincera. Ricordo una volta che sono andato a casa sua a fare una polenta alla valdostana… con Cherif, abbiamo trascorso un natale assieme. In fondo Franco Quadri è un uomo solo, Cherif è un uomo solo… io sono un uomo solo, ci siamo trovati a fare la polenta concia. E’ un ricordo che fa parte della curiosità che spinge a conoscersi. E poi ora Franco segue altri registi, altri autori. Io ho ricevuto molto ma penso anche di aver dato qualcosa: soprattutto penso di aver lanciato un segnale agli autori italiani: guardate che si può, osate, non siate timidi. Spero di aver spinto qualche giovane all’emulazione. TF Io ritengo che tu sia stato un esempio perché in Italia molti critici reputano la drammaturgia testuale come una forma sorpassata di teatro, mentre al contrario tu sei un autore puro . AT Certo il teatro sono gli attori, inesorabilmente. Tu stesso come autore sei attore, lo sei dentro di te, lo sei d’istinto sebbene non hai mai frequentato una scuola d’arte drammatica. Io spero di fare qualcosa in scena, spero di fare questa esperienza, il teatro dopottuttto è un luogo fisico. TF Come procedi nella scrittura dei tuoi testi? Hai un percorso che si ripete ogni volta? O si tratta di un processo casuale? AT Io non sono un uomo quieto e tranquillo. A me le cose escono in blocco. Il giorno prima di scrivere La casa di Ramallah non sapevo che il giorno dopo l’avrei scritta. L’ho scritta in dieci giorni, tutta d’un fiato. Ovviamente la prima stesura era quasi illeggibile. Tranne Materiali, in cui però ciascuna parte veniva fuori tutta insieme, ed andava poi rivista. Il mio modo di scrivere è questo, improvviso. TF Stranieri, il testo che ti è stato commissionato per il Candoni nel 2000, da cosa ti è stato ispirato? AT Il personaggio centrale, l’uomo anziano, è vagamente un personaggio che io ho conosciuto, viveva qua dietro, era sfigato, viveva malamente. Gli altri due personaggi, la moglie ed il figlio, sono un controcanto. Quando sei in condizione di scrivere, tutto diventa trasfigurazione: vedi una cosa ed entra nel testo, ascolti musica ed entra nel testo. E c’è un certo grado di invenzione, i personaggi te li inventi in base ad un criterio di probabilità. Per me c’è un asse drammaturgico attorno al quale si muovono i personaggi di contorno, quelli secondari. TF Quindi quando scrivi un testo poi in realtà ti fai sorprendere, i personaggi prendono loro la guida. AT Sì sì, sono loro che conducono altrimenti non è possibile scrivere un testo, a meno che non sia un testo letterario, una pièce bien faite, affidata più alla tecnica, ma questo è tutto un altro discorso. Nei primi tempi scrissi tre testi di fila: Stabat Mater, Passione secondo Giovanni, Vespro della Beata Vergine. Poi c’è stato un momento in cui non riuscivo a scrivere, ero entrato in crisi. Non c’era più gente che parlava dentro di me, allora mi dicevo: ho capito, è finita. Poi ho incontrato una persona come dire maieutica, pian piano mi reso conto d’essere uno che deve aspettare, non devo scrivere per forza. TF Una curiosità: quanto ci hai messo a scrivere la prima versione di Materiali? AT L’ho scritto lentamente. E’ stata una cosa piacevole, volevo fare degli esperimenti, per le prime cento pagine è stata un’esperienza leggera, non mi sentivo impegnato nei confronti di nessuno. Il mio rapporto con Materiali è diventata drammatico quando ho dovuto stringere, incombeva il Premio Riccione del Cinquatenario . Dovevo assolutamente concludere, quindi ho dovuto chiedere aiuto a Shakespeare. Se non avessi avuto questa scadenza avrei sicuramente scritto un testo sulle cinquecento pagine, con un respiro molto più ampio. Meritava. Oggi purtroppo non ho più per le mani una storia così, che mi abbia colpito tanto a fondo. Vorrei trovare una storia per tornare ad un tipo di lavoro del genere. TF Ultima domanda: c’è un messaggio ultimo che cerchi di esprimere, di veicolare attraverso il tuo percorso? Un nucleo che ritorna in tutti i tuoi testi, nei tuoi personaggi principali? AT C’è una spinta emotiva che mi porta ad urtare le parole, a scansarle dalla loro sede portandole ad uscire: è un sentimento di compassione, di amore, di pietà per la condizione dell’uomo. L’uomo si fraintende in modo così clamoroso. E’ una sorta di solidarietà attraverso la quale vorrei salvare parte della mia vita, parte delle mie esperienze, e salvare la vita di questi personaggi, non consegnarli all’oscurità, all’oblio, direi un sentimento fraterno, tutto sommato. Non sono una persona che riesce ad odiare, ne ho passate talmente tante che mi sembra una perdita di tempo, uno spreco. Anche se mi rendo conto che l’odio in scrittura può essere molto produttivo. E poi sento una forte simpatia per le persone che non ce la fanno, la sconfitta mi rattrista ma allo stesso tempo mi avvicina a queste persone. A me la logica dei vincenti non mi interessa tanto, è una visione sportiva, una visione hobbesiana della vita, quando Hobbes usa quella metafora della vita come corsa. TF Il darwinismo sociale. AT Il darwinismo sociale che impera ancora oggi. Forse può anche servire ma io vengo da altri mondi. Che poi non credo che l’uomo sia un animale buono, l’uomo è capace di qualsiasi nefandezza e di qualsiasi crudeltà. E’ proprio questo che genera una pena in me, forse è una nostalgia per un paradiso perduto. Breve nota biografica: Antonio Tarantino nasce a Bolzano nel 1938. Si trasferisce a Torino nel 1950. Nei primi anni Cinquanta frequenta l’atelier del pittore Raffaele Pontecorvo. Di seguito sprirà un proprio atelier, partecipando a diverse mostre. Negli anni Sessanta aderirà a gruppi di politica extraparlamentare. Nel 1992 inizia a scrivere per il teatro, ottenendo in breve tempo consensi, i maggiori riconoscimenti italiani di drammaturgia come il Premio Riccione Teatro (nel 1993 e nel 1997), il Premio Ubu, il Candoni Arta Terme (nel 2000). I suoi testi sono stati portati in scena dal regista Cherif, con l’interpretazione di Piera degli Esposti, Emilio Bonucci, Antonio Piovanelli, Lino Banfi, Paolo Bonacelli, Massimo Foschi, la scenografia di Arnaldo Pomodoro. Suoi testi sono stati letti anche in Germania, mentre Stabat Mater è andato in scena nel 1997 al Théâtre Gérard Philipe de Saint-Denis, per la regia di Ludovic Michel e l’interpretazione di Ann-Gisel Glass. Testi pubblicati: Quattro atti profani, a cura di Elena De Angelis, Ubulibri, Milano, 1997. Materiali per una tragedia tedesca, Ubulibri, Milano, 2002. Stranieri, Centro Servizi e Spettacoli, Udine, 2001. In francese: Stabat Mater, trad. di Michèle Fabien, Editions Les Solitaires Intempestifs, Paris, 1997. Testi non pubblicati: Piccola Antigone (2002) La casa di Ramallah (2002) Pace (2003) |