Così come lo ha costruito la regia di Antonio Capuano, Flusso di coscienza dell’intellettuale Giana in atto di fellatio -spettacolo messo in scena a Galleria Toledo e interpretato, con raffinata sapienza, da Teresa Saponangelo- sembra inverare i due principi fondamentali della teoria analitica di Jacques Lacan, e cioè: “L’inconscio è un sapere strutturato come un linguaggio” e “Non c’è rapporto sessuale”.
La protagonista Giana (Saponangelo), infatti, da qui vita ad un monologo che si svolge lungo due ben precise direttrici: la prima si svolge all’interno della sfera sessuale; la seconda all’interno di quella della parola. Due sfere che, se all’apparenza possono sembrare distinte, sono, in realtà, estremamente contigue e anzi si confondono l’una nell’altra. E ciò perché, come ci dice appunto Lacan, «l’essere umano, in quanto essere parlante, rifiuta di godere, non può e non vuol godere», trovando il proprio godimento proprio nel Logos.
Come appunto Giana, la quale non riesce a provare alcun piacere –piacere sessuale distinto da godimento- nell’atto della fellatio in quanto, non appena si accinga a praticarla, ne viene distolta dai suoi pensieri -dunque dal Logos- che la invadono. Logos, qui inteso sia come manifestazione del pensiero, e quindi phonè, sia –in senso heideggeriano- come s-velamento dei contenuti inconsci, che poi corrisponde, si suppone, al flusso di coscienza del titolo.
È facile dunque comprendere, a questo punto, che Giana è una donna intimamente lacerata, posta al centro di quella dicotomia, propria della filosofia occidentale, tra corpo e mente. In lei, la sessualità rimanda al pensiero/parola e il pensiero/parola al sesso, in un continuo ribaltamento dove tutto, dalla politica al pacifismo, dalle multinazionali al neo-liberismo, dalla TV alle pratiche sessuali più piccanti, si mescola, sospeso tra una paradossale vena satirica e un drammatico sentimento di lacerazione e di denuncia, con una Saponangelo che riesce a dare spessore all’insieme come meglio non si potrebbe.
Giana, dunque, “intellettuale organica” di gramsciana memoria, coscientemente in adesione ad un ideale politico-sociale di giustizia, viene invece, sul versante inconscio, presa dal desiderio di sovvertire il suo ordine di valori, per ridefinirsi in una dimensione esistenziale meno utopistica e, potremmo dire, più umanamente vera.
Una dimensione in cui il piacere sessuale giunga finalmente al suo culmine, e dove il fallo, nella maestà della sua erezione -simbolicamente rappresentata sulla scena- diventi, per dirla ancora con Lacan, la statua dell’io. Un io più vero, reale, e meno ideale.
Tutto, nello spettacolo, viene ovviamente rappresentato attraverso una dimensione simbolica, che trova nella pertica posta al centro della scena il suo fulcro. Un enorme simbolo fallico cui, l’intelligente regia di Capuano, attribuisce il logico valore –per quanto fin qui detto- di significante politico-sociale-esistenziale e lungo il quale la Saponangelo articola la sua faticosa e straordinaria performance ginnico-recitativa.
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