Elettra
Un insolito percorso sulle orme del mito di Elettra è stato offerto al pubblico romano , durante la serata di lunedì 25 ottobre, presso la sala barocca di Pietro da Cortona, a Palazzo Barberini. Secondo appuntamento del progetto “Il Mito e la donna”, curato di Massimiliano Finazzer Flory, questa performance si proponeva di rappresentare l’evoluzione e la fortuna del personaggio di Elettra durante differenti epoche e culture, in modo da rendere percepibile la poliedrica valenza di significato del mito. Il ricorso alla lettura di brani d’autore lontani nel tempo, nello spazio, negli stili e nei generi si è rivelato, in tal senso, una scelta geniale, in virtù dell’ulteriore accorgimento di circoscrivere le narrazioni ad un unico episodio. Non solo poiché si trattava dell’emblematico momento in cui Elettra si ritrova con il fratello Oreste, dopo un distacco almeno settennale, ma anche per effetto della contiguità emotiva dei diversi brani, proposti in lettura ravvicinata. Questo espediente ha consentito di cogliere il senso del mito quasi musicalmente, secondo una sequenza tematica sempre più plausibile ed emozionante . Un omaggio alla teoria di Levy Strauss che vuole musica e mito entrambi derivati dal linguaggio, tanto da poter leggere il mito come una partitura orchestrale? Certo che la figura dell’ eroina viene sbalzata come a colpi di scalpello dal sedimento di una memoria granitica, a misura della capacità percettiva delle narrazioni poste a confronto. Sono chiamati in causa autori giganteschi: i “padri fondatori” della tragedia attica, Sofocle ed Euripide, come i più moderni e non meno capiscuola Hofmannshtal e Yourcenar. In ognuno di questi brani Elettra ed il fratello Oreste si incontrano e riconoscono, parlando con l’unica voce di Patrizia Zappa Mulas. Un’ interpretazione convincente e bella in cui l’attrice, con raffinata semplicità, ha dato prova di vibratile talento, rispetto alle sfumature emotive dei personaggi nel tratto dei diversi autori e nel modo di rappresentarli nella sua persona: la grazia di una icona preraffaellita in chiave moderna. Fa da sfondo a questa rappresentazione un dipinto esteticamente intonato al contesto narrativo e suggestivo per i molti rimandi simbolici, nel quale è ben intuibile l’incontro di Oreste ed Elettra: opera di sapore (questo sì, davvero) preraffaellita, di Federic Leighton, pittore della schiera di Edward Burne Jones e William Morris, che offre l’opportunità di fare cenno brevemente alle tendenze artistiche a cavallo di secolo, introducendo l’argomento riservato per fine serata.
Intanto, ci viene dimostrato di lettura in lettura, come Elettra, nel tempo, acquisti sempre più spazio e cresca, da creatura indifesa che coadiuva Oreste (Eschilo) a protagonista disperata ed esasperata (Sofocle ed Euripide), fino ad un insospettato exploit divulgativo nel XVII secolo; come con Euripide la si trovi con lo sguardo rivolto al cielo, ma con Hofmannsthal il cielo sembra invasarle la testa, in un delirio di follia. Che Yourcenar guarda a Euripide e alla sua modernità, quasi i due fratelli fossero due giovani partigiani, mentre Hofmannsthal è in sintonia con Sofocle, il silenzio degli dei e le profezie che si avverano per caso o necessità, come del resto Freud in quegli anni insegnava. In questo senso, ci viene proposto un filmato tratto dalla “Elektra” di Richard Strauss (libretto appunto di Hofmannsthal e su commissione), che più esplicito non potrebbe essere rispetto a questa tesi e rispetto alle capacità innovative del musicista tedesco. Più noto come irriducibile e discutibile emulo wagneriano, riscopriamo in quest’occasione uno Strauss sapientissimo, attento alla psicanalisi e, benchè allontanatosi da Schoemberg, assai consapevole, se non precursore, degli sviluppi della musica atonale, alla quale splendidamente ricorre qui, per illustare musicalmente le allucinazioni della follia di Elettra. Complessivamente un percorso curiosissimo e fedele, molto interessante: tra le sorprese, gli scarti improvvisi, le aspettative spiazzate, Claudio Strinati che ( come studioso disvelatore degli aspetti artistici più segreti) interviene stavolta in campo musicale. E’ al suo apporto di estimatore di Richard Strauss che si deve, infatti, la percezione esatta delle intenzioni del musicista, dello scrittore e dell’intera compagine culturale alla quale appartengono questi grandi della “Austria felix” in declino.
Il prossimo appuntamento è per lunedì 8 novembre, ore 18,30 con il tema “la forza di Medea”, a seguire la conclusione per il 15 novembre con “La bellezza di Elena”. Il primo, ahimè trascorso, ospitava il fascino di Cleopatra. Da sottolineare: gli incontri sono gratuiti e la sala gremita: chi volesse, vada in tempo.
MEDEA
Fedele alla formula che riunisce più generi artistici attorno ad un'unica figura mitologica femminile, (stavolta Medea), lunedì 8 novembre ha avuto luogo la terza serata della rassegna ideata e condotta da Massimiliano Finazzer Flory sul mito e la donna.
Quella di affidare Medea (nei testi di Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro), alla grazia accigliata di Ottavia Piccolo si è rivelata una scelta indovinata. Infatti in virtù dell’aspetto delicato e della recitazione impercettibilmente straniata, l’attrice ha reso umanamente accessibili lo spaesamento e la fragilità della maga, più che l’impeto vendicativo e feroce di memoria leggendaria. Del tutto in linea con l’evolversi della drammaturgia sull’ argomento che alleggerisce nel tempo la colpa di Medea, fino a rivalutarne l’istanza emancipativa negli anni ‘90 con il famoso studio di Christa Wolf.
In chiave pittorica è Ludovico Carracci a consentire un ‘interpretazione affascinante delle doti magiche di Medea nella descrizione di Maria Grazia Bernardini, curatrice degli eventi per parte del Polo Museale Romano, mentre
l’apporto critico dell’antropologa Alessandra Fagioli ha reso possibile ricordare lo straordinario momento cinematografico in cui Maria Callas interpretò Medea per la regia di Pasolini. L’incipit è affidato alla Medea di Euripide, alla sua sensibilità femminista e antipatriarcale anzitempo (471 a.C.), che ci restituice una maga dal cuore sanguinario, eppure incapace di usare un’arma. Una Medea così pericolosamente emblema di pubblico trauma, per aver tradito il padre e il fratello, da essere tenuta in isolamento perfino in Colchide, terra straniera che ne ha accolto regalmente lo sposo e i figli, ma riserva a lei distanze a misura di persona “barbara” e indesiderata. La troviamo sola, nella sua dimora. Restano indelebili alcune espressioni sul destino delle donne, migranti o no: “Costrette a comprarci un marito a peso d’oro…” “Dobbiamo scegliere tra il buono e il cattivo: rifiutare è impossibile tra usanze diverse” e un Coro incondizionatamente a favore..”Giusto”.
Invece, la Medea di Seneca usa un linguaggio che colpisce per i modi risolutivi, benché parli alla anziana nutrice: “Mai il mio furore si stancherà di chiedere vendetta”;oppure: “Resta un solo giorno per i due figli“; come anche: “Aggredirò gli Dei”. Sono proprio le parole che pronuncia a mettere in evidenza, indirettamente, quanto Medea possa essere destabilizzante per l’ordine sociale ed è in questo testo che la condanna del drammaturgo si fa inequivocabile e senza appello. Sebbene Seneca non trascuri di restituirci tutta la “ubris” di Giasone o la sua arroganza.
E’ invece una donna innamorata la protagonista della tragedia in 5 atti di Grillparzer: una donna che per amore rinuncia alla sua identità e accetta un ruolo di “diversa” dal quale non le verrà mai più consentito di prescindere. Il testo, austriaco, è del 1821: è il momento in cui le popolazioni esterne premono ai confini dell’Impero austroungarico e chiedono riconoscimenti: l’appartenenza ad altre culture è un tema di attualità. E se il ricorso alla memoria e all’immaginazione è un nodo cruciale dell’ottocento romantico, più borghesemente questa Medea si appella ai ricordi per fermare lo sposo traditore. Nel dialogo rappresentato tra i due (“Restituiscimi Giasone..”-”E chi mai potrà ridare a me Medea”) si avverte una condanna assoluta per entrambi
e l’annuncio di una vita di rimorsi per le vicende troppo estreme tracciate dal loro destino. E’ vero, però, che nel tempo la colpa di Medea si va alleggerendo. Se nel 1990 Christa Wolf arriverà a rileggerne la responsabilità complessiva , già Corrado Alvaro (1949) si contrapponeva alla piatta logica populista che avrebbe giustiziati Medea e i suoi figli per vendicare la morte del re Creonte, facendo dell’eroina una madre costretta a sacrificare i suoi figli per salvarli da una sorte atroce . Dal suo “La lunga notte di Medea” (1949) è tratto un brano che la vede in compagnia della nutrice Nosside e dei figli. Tra le donne passa uno sguardo ammonitore, i ragazzi sono silenziosi. Medea non tradisce la minima emozione. Intanto prepara i figli per la festa di nozze di Giasone e li rassicura teneramente dicendosi contenta del fortunato evento. Apre uno scrigno con i doni e insegna alle sue creature, come in un gioco nuovo, il cerimoniale al quale attenersi, quando saranno a palazzo
… Su questre vibrazioni sembra allinearsi il film di Pasolini: Medea è il quarto lavoro cinematografico sul mito, dopo Edipo re, Porcile e Teorema tutti concentrati di modernità, arcaicismo e barbarie in cui il regista concepisce l’uomo come creatura razionale e la donna no. Si spiega dunque, l’importanza del ruolo di Medea come maga visionaria e quello di Giasone, dalla mentalità già borghese, che la irride esasperandone la potenza negativa. La Callas influì, racconta Alessandra Fagioli, sulle scelte di Pasolini, inizialmente dirette alla rappresentazione di una figura femminile violenta e carica di pathos; ne spogliò a sua immagine il personaggio eliminando ogni gesto che alludesse a rimorso, rancore, odio, vestendo le cose di distacco, incomprensione, non accettazione. L’esito è di un affresco tutto congelato e rarefatto a misura di una icona stilizzata, lontana anni luce dai ruoli teatrali di grande agonismo fisico e coinvolgimento psicofisico come la Medea della Melato. Il film girato in Turchia e Siria vuole restituire l’ambientazione in un luogo che appaia incolto e incivile. Dove sia più facile intuire una relazione fondata su legami e conflitti etnici e primitivi. In questa atmosfera di profonda arcaicità si assiste alla lenta preparazione di un rito funebre denso di spessore materno, in cui la vendetta è atto d’amore e i figli sono i frutti impuri e carnali con nulla di divino e magico. Se è Giasone a dominare, nulla è più possibile ormai e almeno il trapasso è dolce.
E inopinatamente assai delicato appare anche l’affresco di Ludovico Carracci, meno famoso dei cugini Agostino e Annibale, ma importantissimo come figura teorica. Dipinge un ciclo di 18 scene su Giasone e Medea a Palazzo Fava di Bologna ispirandosi alle Metamorfosi di Ovidio, tornato ad avere grande diffusione in quegli anni. Il ciclo racconta più Giasone che Medea e ce li rappresenta come un eroe greco ed una principessa che potremmo definire “extracomunitaria”. Due scene si fanno notare fra le altre: una ritrae l’incontro di Giasone e Medea, con Venere che invia Cupido a colpire la Maga, lasciando presagire la vendetta atroce. L’altra, del 1584, raffigura Medea nel suo ruolo di incantatrice, nell’episodio minore in cui si accinge a restituire la giovinezza al padre di Giasone (Ov. Met. L.VII) Quest’ultima scena è emblematica sul piano degli studi storici dell’arte: Ludovico Carracci pur essendo ancora manierista conduce la sua ricerca ricorrendo alla natura e ai classici volendo, come del resto Caravaggio e i suoi, trovare nuove formule. Ripercorre pertanto la maniera lombarda, più realista e fedele alla natura, delicatissima nei colori. Bologna sta vivendo un momento speciale: il Papa è bolognese e i cambiamenti della Controriforma, che spingono verso una maggior semplicità rappresentativa, si recepiscono più velocemente proprio a Roma e Bologna.
ELENA
Quello che doveva essere l’ultimo appuntamento del ciclo “Il Mito e la donna” inizia con una inattesa novità: è previsto, a grande richiesta, per il 22 novembre ancora un incontro con Massimiliano Finazzer Flory e Maria Grazia Bernardini, i quali inviteranno attori e critici ad affrontare il tema di Antigone. La serata dedicata al ritratto di Elena inizia dunque con questa premessa e con una rapida ricognizione su quella che fu la leggendaria genesi dell’eroina, a cui è intitolata la serata. Elena, figlia di Leda e Tindaro, sovrani di Sparta, si dice avesse per padre “vero” proprio quello Zeus in forma di cigno, che alberga nell’ immmaginario artistico di tutti i tempi. Elena pertanto, come si conviene ad una semi-dea, nasce quanto meno principessa e sorella dei Dioscuri e Clitennestra. Precisazione che ci viene da Eva Cantarella, la nota studiosa di diritto greco antico dell’Università di Milano, ospite della serata insieme all’attrice Laura Marinoni. Ancora una sorpresa per chi s’aspettasse di veder comparire, (come da plausibile cliché, considerata la mole e densità dei suoi studi, un’anziana insegnante miopissima), poiché la studiosa è una signora molto attraente, bionda e alta , piuttosto in tono, rappresentativamente, con il personaggio di cui si parla. Si continua a esplorare pianamente la fama Elena: si è sempre saputo che fosse bellissima e, com’è ovvio, desiderata assai dai tutti giovani aspiranti eroi dell’Attica, tanto che, per riuscire a farla sposare senza troppi guai, c’è voluta l’astuzia di Ulisse. Il principe della brulla Itaca aspirava infatti, senza eccessive speranze, alla mano di Penelope, che di Tindaro era la nipote: essendogli nota l’angoscia del re di Sparta per l’aggressività che si sarebbe scatenata fra i bellicosi giovanotti greci, qualora avesse seguito il suo desiderio di concedere Elena in sposa a Menelao, Ulisse suggerì a Tindaro di far stipulare un patto fra tutti i giovani pretendenti, che li legasse solidarmente al prescelto, qualora Elena venisse a quello, in qualsiasi modo, portata via. Risolta così, abilmente, la situazione critica di Tindaro, Ulisse osò avanzare la sua richiesta, che venne accolta per riguardo alle non comuni doti diplomatiche e di intelligenza dimostrate, nonostante le non cospicue ricchezze.
Rapido passaggio sul versante artistico e l’attenzione si sposta verso un dipinto di Guido Reni in cui Elena e Paride avanzano circondati da una piccola corte, nei pressi del mare. Maria Grazia Bernardini fa notare che se entrambi si muovono ancora, piuttosto disinvoltamente, sotto il controllo degli istinti, la simbologia indica gli avvenimenti che accadranno successivamente per volontà divina: a terra la freccia di Cupido segnala l’intervento di Afrodite, mentre i due piccoli animali raffigurati nella tela, il cane e la scimmia, simboleggiano l’uno l’amore fedele e disinteressato (lo vediamo in basso, ma in primo piano) e l’altra l’imprevedibilità capricciosa (in alto e leggermente sul retro). Si indovinano sullo sfondo alcune navi che lasciano presagire l’imminenza di un viaggio, insieme a un frammento archeologico e una fiaccola spenta, che preannunciano la rovina imminente e un amore che finirà.
Esponente della scuola bolognese che ha impostato la riforma pittorica, Reni è l’allievo più importante dei Carracci, (a Ludovico Carracci si è già fatto cenno per un ritratto di Medea). Lasciando Roma nel 1614 Reni ritorna all’idea del bello raffigurato in naturale, ma depurato dai difetti e illuminato da una struttura classica e armoniosa. Dunque è un ‘esaltazione della bellezza dal punto di vista tecnico e fisico che ritroviamo in questa Elena dall’ovale perfetto, la carnagione perlacea, l’ atteggiamento armonioso e pacato, avvolta in un clima fiabesco. Qui il fascino misurato di Elena sembra derivare dall’Encomio di Gorgia, ci dice Eva Cantarella, trattato in cui le viene attribuito un potere seduttivo analogo a quello della parola e della persuasione. Ed è importante notare che Gorgia sviluppa un tema già presente nel passo dell’Iliade in cui Elena, colpevolizzata da un sistema di valori che la stigmatizza, si dà della cagna, mentre Priamo la consola premuroso, attribuendo la responsabilità delle sue vicende agli Dei. Si può essere causa non responsabile, sostiene confortandola e ne elenca le ragioni: la volontà divina, certe costrizioni dovute a necessità, la forza di eros, oppure “logos peizà” (per l’appunto, la persuasione).
E se nell’antica Grecia, e maggiormente a Sparta, più di tutto viene apprezzata la valenza fisica, già conta enormemente la capacità di persuadere in assemblea (Omero). Eppure questa capacità, continua Eva Cantarella, è per le donne pericolosissima e generalmente interdetta. Ad esempio, quando la incontriamo nell’Odissea, tornata nella sua reggia di Sparta con Menelao, Elena racconta a Telemaco dell’incontro avuto con Ulisse a Troia, mostrandosi pentita della fuga di un tempo e solidale con Ulisse. Invece Menelao, astioso e ferito, la descrive come se si fosse comportata in modo ingannevole con gli Argivi, girando attorno al cavallo e ricorrendo all’uso della voce per imitare, come ispirata, le voci delle spose degli Achei, rimaste in patria.. (Questo passaggio controverso ha dato sempre adito a dubbi: vale forse la pena ricordare qui che Elena a Sparta, come principessa, era tenuta a funzioni sacerdotali, che presumono una particolare educazione e ispirazione ed un preciso contegno. Esattamente il contegno tenuto da Elena secondo Omero, mentre attraversa Troia, portando alta una torcia e seguita da un corteo femminile, la notte in cui si verificò l’episodio del cavallo…) Dunque se nell’antica Grecia la parola alle donne è interdetta, (le donne devono tacere, poiché le donne non sanno) ecco che questa dote di parola e di persuasione di Elena viene ostacolata da Menelao, che la mette in cattiva luce, nella speranza di avere finalmente il controllo su tanta sposa. ( Del resto non sembra che Elena abbia tradito nè i Troiani nè gli Achei, ma piuttosto che sia rimasta fedele ad entrambi gli schieramenti, lasciando che ognuno seguisse il suo destino: e si direbbe un agire corretto. C’è un’analogia tra il comportamento di Elena e quello che Virgilio attribuisce a Giunone nel libro VI dell’ Eneide. Giunone è decisa a contrastare Giove ad ogni costo, poiché lui non tiene minimamente conto del volere di lei, e si esprime così: “Si nequeo superos, Acheronta movebo”, come dire: nell’impossibilità di trovare alleati sull’Olimpo, scatenerò una guerra nelle viscere della terra. Il che lascia pensare che in quel tempo la facoltà del femminile, divino o terreno, investisse come sua specificità “il non dicibile”).
La lettura di brani omerici, interpretati da Laura Marinoni, ci riporta a Elena macerata dal dubbio, a Elena cui si dà poco conto, a Elena che segue Paride di malavoglia e non può tirarsi indietro: sono ritratti, tutti plausibili, di una principessa che sopporta con regale dignità un amaro destino di esule, per giunta adombrato da una antica colpa.
Anche la Elena di Euripide e che sta in Egitto teme la sua reputazione ed esclude la fuga a Troia. Marinoni: “Non me, ma una bambola d’aria. Ermes mi ha nascosta in una nuvola a casa di Proteo”. I poemi omerici sono una memoria fondamentale per Euripide, che li riprende in termini ironici e leggeri e si diverte a fare la critica degli dei attraverso questo tipo di discorsi.
Di tono completamente diverso il dipinto, in stile neoclassico, che ci viene illustrato per secondo : l’opera è di David, pittore ufficiale di Napoleone, per il quale Roma, Parigi e l’Inghilterra erano veri luoghi di elaborazione, con un programma ben preciso di rivisitazione dell’arte classica. Forse la causa di queste rielaborazioni fu la scoperta di Ercolano e Pompei nel ’700, da cui deriva un grande filone archeologico che fece rivivere il mondo classico. Ne deriva una volontà di cambiamento con una sincera aspirazione ad aderire ai canoni e valori classici: è di David il manifesto del neoclassicismo che rappresenta il giuramento dei Curiazi.
In questo dipinto in cui rappresenta Elena raffigura il tempio dell’acropoli di Atene, ma campeggia sullo sfondo un letto egizio ( citazione dell’altra residenza di Elena e residuo al contempo di una moda scaturita dalle campagne napoleoniche in Egitto, da cui derivarono studi e ricerche). Paride ricorda l’Apollo di Raffaello, ma non c’è discussione sulla volontà di Elena: il tema è la rivisitazione dell’arte e il mito è fioco.
Nella nostra epoca ,invece, osservano Finazzer Flory e Cantarella, c’è una chiara rivisitazione e partecipazione di quei valori, tanto che questa riflessione investe, oggi, massivamente, lo spettacolo: se Troy è il caso limite di un colossal su una vicenda che non c’è nel mondo classico e Omero è stravolto in modo, diciamo, “eccentrico”, Baricco ne ha fatto un mondo senza dei. (Nota di chi scrive: sia pur entro certi limiti, poiché quegli Dei non parlano in prima persona, ma il loro intervento viene riferito dai protagonisti selezionati da Baricco, con molta precisione e rispetto dei poemi omerici). “Il mito è vita perché varia, si ricrea, è in continuo movimento ed è continuamente oggetto di ermeneutica ed interpretazione. Baricco è Baricco: la presenza degli Dei è fondamentale: ma si tratta di un modo nuovo di comunicare l’antico, con un minimo di fedeltà” precisa Finazzer Flory, mentre Eva Cantarella, profonda conoscitrice del mondo greco, alla quale dobbiamo un ulteriore e recente saggio sull’omosessualità ai tempi degli eroi in questione, non può non chiarire che: “ Patroclo non è il cuginetto di Achille, senza omosessualità il mondo greco è frainteso”.
(Chi scrive, a sua volta, non può non notare che se tutto ciò è assolutamente vero, il distinguo interessante e delicato offerto da Baricco è un ‘altro: facendo il punto su Achille, Baricco sottolinea che si tratta di un ragazzino che ha 15 o 16 anni e Patroclo tutt’al più 18. Dunque Patroclo non è il “prestante concubino preferito” di un supermacho grande e grosso, ma l’idolo (ragazzo) di un ragazzino: aitante e guerriero, quanto vogliamo, ma ragazzino.
Recuperando così tutto un patrimonio di tenerezza e modellizzazione adolescenziale, riguardo alla vicenda, in genere oscurato. E come Baricco fa, occorre rileggere l’episodio di Briseide, per capire la freschezza di sentimenti di Achille e la meravigliosa portata di tanta maestria guerriera in un fanciullo bellissimo e diverso. Tanto che la stessa Ariane Mnuchkine, nello spettacolo superbo che è stato la sua “Ifigenia”- giocando maliziosamente sulla contiguità sonora tra la parola “ascelle” e il nome Achille, in francese “Ascìlo” - con una levità di cui solo i francesi hanno la chiave - ha costruito l’immagine di uno splendido e roboante quarantenne, minato da un tic impercettibile che lo spinge ad annusare narcisisticamente la - pur maschia - zona ascellare).
Tornando a Elena e alla sua capacità di persuasione e conoscenza, viene detto che Hoffenbach nel 1864 scrive per Rossini un’opera che è un’orgia di parole, dove la bellezza è inquietudine. Che anche il Faust di Goethe vuole amare Elena come conoscenza: c’è un’ afflato verso la cultura, anche se il verso dichiara: “donna stupenda, non disprezzare la tua sorte”. Per la verità la lettura di Goethe è antistorica, si precisa: per i Romantici il bello è il sublime ma il mito è altro. La serata si conclude con un bellissimo inciso di Eva Cantarella: “Ciò che il mito consente è questa “doppia cornice”, che non è altro che “entrare e uscire dal quadro”. La cornice è tutto il sedimento di esperienza, a supporto dell’interpretazione.. Qui si fanno i conti con la storia e l’Occidente”.
Antigone
Il peso della paternità. (M.G.BERNARDINI)
“Dà da riflettere che proprio Antigone, creatura purissima e di così grande capacità di sentimenti, abbia come padre Edipo, la cui vita è un coacervo di misfatti. Ed è così pesante questa paternità che le immagini d’ogni tempo ce la rappresentano sempre mentre accompagna il vecchio padre accecato e scacciato da Tebe.
Pressocchè mai, invece, Antigone è raffigurata quando dà sepoltura al fratello Polinice: ed è quest’ultimo episodio, poi, a costarle la vita e a fare sì che la sua figura assuma una grandezza tragica”.
Inizia con questa considerazione di Maria Grazia Bernardini, del Polo Museale Romano, l’ultima e inattesa serata del ciclo “ Il Mito e la donna”. Insieme a lei, a condurre la serata ci sono Massimiliano Finazzer Flory che ha curato il progetto, Alessandra Fagioli, antropologa, in veste di critica cinematografica insieme a Riccardo Dottori, docente di Filosofia teoretica all’Universita’ di Roma Tre, chiamato a illustrare l’orizzonte di Antigone sotto il profilo della storia delle idee.
Premesse e storia di Antigone (D.P.)
La complessa vicenda di questa figura segna l’epilogo tragico della intera famiglia di Edipo. Sappiamo come, al momento della nascita, Edipo fu abbandonato dal padre Laio e dalla madre Giocasta, sovrani di Tebe, a causa di un oracolo che lo predestinava a farsi uccisore di suo padre; come, salvato e adottato dal re di Corinto, finisse in viaggio sulla via di Delfi, dove incontrò ed effettivamente uccise Laio; come risolse l’enigma della Sfinge che funestava Tebe, meritando così le nozze con la regina Giocasta, sua madre, da cui ebbe due figli, Eteocle e Polinice e due figlie , Antigone e Ismene. Come, volendo scongiurare una pestilenza, dovesse, per volere di Apollo, allontanare dalla città di Tebe chi fosse assassino del padre e sposo della madre, scoprendo, in seguito alle indagini, di essere (lui in persona) il ricercato e sprofondando in un abisso di disperazione e vergogna. Come, infine, accecatosi da sé stesso, si mettesse in cammino sulla strada dell’esilio in compagnia della caritatevole Antigone, lasciando alle sue spalle Giocasta suicida e un futuro di conflitti per i figli maschi eredi al trono, da lui maledetti per non averlo difeso. Edipo morirà, infine, in un bosco dedicato alle Eumenidi, nei pressi di Colono, dove Antigone lo ha accompagnato, prima di tornare a Tebe.
Quasi non bastassero simili premesse a riscattarla da un destino di sventura, anche il ritorno a Tebe sarà per Antigone così irrimediabilmente tragico, da lasciare traccia sia in Eschilo (”I sette contro Tebe”) che in Euripide (“Le Fenicie”), oltre naturalmente alle opere di Sofocle, che qui ci interessano: “Edipo re”, “Edipo a Colono” e “Antigone”.
Le toccherà di assistere alla guerra che Polinice porterà contro il fratello Eteocle (colpevole di aver violato il loro patto di alternanza al trono di Tebe) e vedrà morire entrambi i fratelli; trovandosi poi costretta a dover infrangere irresistibilmente, per ragioni di sensibilità, la legge emanata dallo zio Creonte per impedire la sepoltura di Polinice, colpevole di aver aggredito la sua patria. E mentre Antigone segue in ciò, con sacro istinto, una legge imposta dagli Dei e non scritta dagli uomini, l’ implacabile zio la condanna, comunque, ad essere murata viva, segnando in tal modo, anche la fine della sua stirpe: giacchè nella sua scelta di uccidersi l’eroina verrà seguita dal fidanzato Emone, figlio di Creonte, che non vuole sopravviverle, dopo averla inutilmente difesa.
Questi fatti ci tramandano Creonte in preda alla sua volontà di potenza, irrigidito nell’applicazione di leggi astratte, separate da ogni rapporto con la società: e così è “rimasto, nelle moderne rivisitazioni del mito, da Anouilh alle rielaborazioni sofoclee di Artaud” e di Brecht.
Il punto I : Interdizione alla sepoltura e conflitto stato - famiglia (M.FINAZZER FLORY) :
Dunque il nodo nevralgico è visibilmente nell’interdizione a seppellire Polinice, sottolinea Finazzer Flory e se nell’ ’800-‘900 il pensiero nuovo unilaterale si riconosce in Antigone, è pur vero che le forze conflittuali in campo sono davvero tante: uomo/donna; singolo/società; vecchiaia/giovinezza.
Le idee I: Holderlin, Kierkegaard, Nietzsche, Schopenauer (R.DOTTORI)
L’ intervento di Riccardo Dottori ci consente a questo punto una certa densità di visione sullo sviluppo del pensiero sottostante al mito in questione, ricordando una serie di concomitanze: nel 1804 il poeta-filosofo Holderlin, uno dei più interessanti traduttori di Antigone, misura la distanza tra uomini e dei con la poesia, interprete del sentimento divino, di cui esalta la perfettibilità nella storia; Kierkegaard si interroga sul senso etico dei concetti di “scelta e possibilità”, fondamentali nel mito in questione. Savinio nel ‘900 si lascia ispirare da un (mondo che è rappresentazione e volontà sull’onda di) Nietzsche e Schopenauer e dunque tutto si tiene: tranne la verità. Sembra mancare Montale, continua Dottori, la sua attenzione al mito e alla storia.
Il punto II: Non linearità della storia e letteratura come saggezza (M.FINAZZER FLORY)
La storia non si snoda: non e fatta dagli anelli di una catena (che non si tengono): la storia non è neppure di chi la fa o di chi la pensa. La storia, dice, gratta il fondo come la rete: è un pesce che sfugge, un ectoplasma dello scampato. ( Si allude, senza citarlo, anche Benjamin, abbiamo l’impressione, e alla sua visione non lineare della storia delle idee. E forse si accenna, tacitamente anche Arendt e alla banalità del male, allorché si richiama Bonnefoy, (intellettuale originalissimo per il quale l’unico accesso alla verità dell’esistente è l’impalpabile immaginario) per dirci, con lui, che il bene è fragile....) Vero è che da Eschilo ad Euripide ad oggi è stato scritto un repertorio drammatico sterminato e ci lavoriamo ancora: la letteratura è l’estrema saggezza occidentale.
Le idee II : Ermeneutica e interpretazione: Gadamer (R.DOTTORI)
E se per Nietzsche non ci sono interpretazioni ma solo fatti. ecco qua che secondo Goethe tutto è già stato pensato. Ciò di cui abbiamo bisogno, allora, è un’interpretazione che guardi al fondo e sia mediazione fra Dei e uomini, poichè ( l’idea è di Gadamer) se interpretiamo un testo leggiamo ciò che è altro da noi: diverso per epoca, ambiente, coscienza e orizzonte storico. Dunque tradurre da orizzonte a orizzonte e raggiungere una fusione di orizzonti non restituisce né l’orizzonte primario né il nostro: produce, però, storie. Storie che ci sono necessarie per oltrepassare lo sguardo, come Nietzsche dice dell’arte. Dunque, ermeneutica. Curioso che Gadamer fosse convinto che ermeneutica derivasse dal nome del dio Ermes, e ne avesse grande dolore quando fu informato che ermenéuein non viene da lì, (ma da eiro che significa parlare. La radice resta nell’area del linguaggio). Ermes però rientra dalla finestra poiché nella mitologia è colui che ha il compito della lettura e conosce le lingue degli Dei e degli uomini.
Sotto il profilo iconografico.. (M.G.BERNARDINI)
Ritornando con Maria Grazia Bernardini alla componente artistica del nostro discorso, ci viene mostrato un dipinto di Ille Macher della metà dell’’800 (nome confermato dalla relatrice e meno noto, evidentemente) : Antigone accompagna, premurosamente, il padre lontano da Tebe, colpita dall’epidemia di peste. Le figure sono in luce, sullo sfondo la città. Si diceva come di Antigone sia introvabile una rappresentazione che la raffiguri nel momento della sepoltura di Polinice: ma addirittura quasi scompare dalle figurazioni mitologiche del ‘400 e ‘600, durante lo studio appassionato delle fonti grecoromane : è giusto del 1487 la traduzione in volgare delle Metamorfosi di Ovidio, che diventa repertorio iconografico inesauribile. Forse il motivo è che la Pietas, sentimento che Antigone incarna, è un sentire fortemente connotato di cristianità e come tale raffigurato più spesso da pie donne.
E sotto quello dello spettacolo…(A.FAGIOLI)
Spostando l’attenzione sul piano dello spettacolo, la ricerca di Alessandra Fagioli ci chiarisce in che misura l’impianto della tragedia greca sia strutturale alla rappresentazione teatrale, più che a quella cinematografica, giacchè un’escalation di sequenze che ripetono tutte lo stesso modulo, (azione di contrari, talvolta con l’aggiunta di quel terzo personaggio che distingue Sofocle da Eschilo) è una “orchestrazione a climax” canonica in teatro, ma terribilmente penalizzante per la dinamicità del mezzo cinematografico. Dunque la visione filmata di una Antigone di Sofocle rappresentata dal Teatro degli Incamminati, con Franco Branciaroli ed Elisabetta Pozzi, ci propone una sequenza tragica in crescendo, che vede in campo il Tiranno e Antigone, il Tiranno e il figlio Emone (razionalità e mediazione), il Tiranno e l’indovino Tiresia (che vuole indurlo alla ragione poiché Creonte esercita il potere in un modo perverso e alla fine sacrilego), il Tiranno e la Corifea (che commenta le sue azioni sul piano etico volendo significare che non è sacrilego chi è andato contro la patria se va incontro ad un’altissima rovina). A vincere è senz’altro un potere fondatore.
Lettura I (ANOUILH, 1942. L. MARINONI)
Ciò introduce abilmente una formidabile selezione sulle dinamiche della tragedia che Laura Marinoni sceglie tra le pagine di Anouilh :” Quando la tragedia è bella carica è pronta per scaricarsi da sola: è una cosa comoda per la tragedia, una cosa da nulla. E’ pulita la tragedia, è riposante. Nel Dramma morire è spaventoso come un incidente, ma con la tragedia si è tra noi, tutti innocenti. Si può gridare a piena voce ciò che si aveva da dire”.
Il punto III: A vincere è un potere fondatore (M.FINAZZER FLORY)
Siamo nel 1942: Francia è alle prese col Governo di Vichy e Anouilh sembra non dare ragione a nessuno. A chi gli chiede perché scelga di rappresentare Antigone l’autore risponde ” per me”, come fa Antigone nel testo, a chi le chieda il perché del suo sacrificio. I francesi si identificano in Antigone, i tedeschi in Creonte e a vincere, non va dimenticato, è un potere fondatore.
Le idee III: Holderlin, Hegel.(R.DOTTORI)
Riccardo Dottori, di nuovo, ci fornisce dettagli di grande significato, pur avendo l’aria di tracciare, con levità, una narrazione puramente aneddotica: racconta Holderlin di dovere a Hegel la conoscenza della tragedia attica su Antigone, poiché il filosofo aveva tradotto a 15-16 anni il testo di Sofocle, restandone fortemente impressionato. Infatti sebbene Hegel riconosca che la tragedia è prima di tutto un fatto estetico (Fenomenologia dello spirito, 1807) è pur vero che la filosofia, indicando diritto naturale e diritto positivo, gli consenta di vedere in Antigone lo spirito della famiglia, l’interiorità contro le leggi dello stato: per lui il rapporto più alto è proprio quello tra fratello e sorella: un rapporto che è puro, di rispecchiamento. Forse fu segnato da una tragedia personale, poiché era legatissimo a una sorella che morì suicida. Dottori ricorda argutamente che questo delicato sentire non lo salvò dall’irritazione di una studiosa femminista, autrice di un saggio dal bellicoso titolo : “Sputiamo su Hegel”.
(Vero è che nel tempo l’antropologia, grazie agli studi sulle relazioni parentali di Levi- Strauss, Malinowski e Héritier, tanto per fare qualche nome, si è un po’ allontanata dalle elaborazioni Hegeliane).
Il significato estetico della colpa (DOTTORI-BERNARDINI)
La dimensione estetica della tragedia si esplica, per Kierkegaard, nel significato della colpa, poichè la pena che ne deriva è più grande del dolore. Va notato che tale colpa non è soggettiva come nella tragedia contemporanea. La colpa, (in questo caso di Antigone, ma in genere di tutti i protagonisti nella tragedia attica ) è soffrire di un destino che gli Dei hanno imposto: Dei che sono la personificazione dei profondi contrasti dell’animo umano.
Questa colpa perciò è più forte della soggettività.
Le idee IV: Gadamer: esperienza e assoluzione (R.DOTTORI)
Qui c’è l’origine della cultura mediterranea e occidentale: tutti sconfitti e tutti vincitori, perché hanno sperimentato sé stessi.
Interiorizzando i nostri conflitti, soffrendo, sappiamo di avere sbagliato.
Gadamer si rifà a questo: soffrendo si impara ciò che si ama: ma all’inizio dell’”agone” c’è una responsabilità senza colpa e una colpa senza responsabilità: come già in Edipo.
L’ultimo richiamo artistico è un’opera di Savinio del 1929 in cui ancora Antigone accompagna il padre. In quel momento la mitologia è un tema dei surrealisti e lo sfondo è senz’altro una citazione di quella corrente, ma è un’arte malinconica ridotta all’essenziale, come di distacco dalle cose per vedere dietro alle cose.
Il punto IV: La solitudine dell’eroe (M. FINAZZER FLORY)
Negli anni ’40-50: la rilettura di Antigone la vede afflitta da un dolore da cui non vuole liberarsi. E’ erede di una colpa originaria (nata da incesto) che è riflessa nel fratello e il suo sacrificio si traduce in una forma di riscatto.
Ma qui non c’è solo l’eredità della colpa ( come già in Eschilo e nelle vicende degli Atridi), qui troviamo un profondo elemento in più: la solitudine dell’eroe. Antigone sprofonda da sola, incompresa.
LETTURA II (ANTIGONE di Anouilh, 1942 –Laura Marinoni)
Dal testo di Anouilh del 1942, la voce di Antigone, nell’interpretazione di Laura Marinoni: “Comprendere sempre comprendere, io non voglio comprendere, comprenderò quando sarò vecchia.
Se ho voglia di vivere? Ma chi si alzava per prima e andava a dormire più tardi?”
LETTURA III (BRECHT, 1947. L.MARINONI)
A seguire uno stralcio dall’Antigone di Brecht del 1947: “ Non ci sono più madre e padre. Non mi è dato rifiorire di fratelli. Non ho un uomo, festa di nozze, figli. Sono un relitto. Quale norma di potenti ho scavalcato?
Il punto V: Minor responsabilità nella colpa originaria (M.FINAZZER FLORY- BERNARDINI)
“ E’Jacques Lacan in questo caso a precisare (nota Finazzer Flory) che l’ amore di Antigone per suo fratello trova forza nel significato simbolico. Perso un fratello, non puoi averne un altro. E’ una privazione che entra nel linguaggio, costringendo a fare un distinguo sui legami di sangue. Si possono riavere uno sposo e dei figli, ma padre, madre, fratelli, no. Questo legame riguarda qualcosa di ”originario”- come appunto la colpa- che non si può riavere: appartiene al passato e chiede giustizia perché è perduto per sempre”. Ma c’è un altro livello di senso, viene fatto notare: c’è come una minore intensità di colpa, giacchè questo mito tragico si chiude con una sequela di suicidi. Antigone si uccide e con lei Emone e con Emone sua madre…Prima di ciò la tragedia di Edipo e degli Atridi è stata, invece, tutta una spirale di omicidi. La colpa invade la casta di Emone perchè Creonte non intuisce questa differenza e non sostiene Antigone, ma la condanna all’isolamento: tanto che la stessa Antigone lo farà notare in una battuta: “ Dite a chi chiede di Antigone “L’abbiamo vista fuggire nella
tomba”. Riccardo Dottori chiude il ciclo ricordando la metafora di Bergson sulla collana: “C’è un filo che tiene su molte perle”.
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