Scrivere
per il teatro 2005 di Daniela Pandolfi |
Presso lo storico palazzo Malvezzi di Bologna si è tenuto, ancora una volta più che fecondamente, il quinto convegno sulla drammaturgia contemporanea, curato dal Teatro Nuova Edizione/Moline di Bologna in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura della Provincia.
Studiosi, autori, attori e critici sono tornati ad affrontare le problematiche che annualmente emergono dalle ricerche sulla scrittura drammatica e dallo sviluppo della scena, quest’anno anche europea: punto focale di questa edizione “Chi sia a parlare nel teatro di narrazione, l’ attore o il drammaturgo (e nel romanzo in prima persona)”.
Questione tutt’altro che semplice e molto intrigante, stando alla finezza percettiva e allo spessore delle riflessioni confluite a convegno.
Organicamente introdotte stavolta da una pubblicazione connessa a questo argomentare: l’ “Almanacco 2005 - Il teatro del racconto” curato da Gabriella Bosco e Giovanni Cerruti, sotto la direzione di Luigi Gozzi, per l’ editore Portofranco. Effetto collaterale, questo, della rete di relazioni formatasi durante i precedenti convegni, che non poteva non assumere valenza concreta, considerata l’empatia in circolo.
(1) Il convegno, come il libro del resto, si è articolato attraverso una sequenza di interventi disciplinari e critici, in alternanza con la lettura di passi drammaturgici anche inediti ( Gabrielli , Gruber, Garcia), e la conduzione agile e attenta di Marinella MANICARDI, codirettrice del Teatro Nuova Edizione, ha conferito alla rassegna un qualità forte di impegno e duttilità insieme. Un incontro di studiosi di teatro e persone di teatro possiede un’aura forte. C’è testa, c’è passione, c’e senso acuto dei tempi del dire e dei vuoti del discorso, apertura alle emozioni e alla creatività. Ma occorre saper declinare e valorizzare queste potenzialità : è così che al ben noto piacere del testo si aggiunge il più raro piacere del convegno e con quello, maggiormente, del teatro. Va da sé che il tema sia stato posto con metodologia sapiente: sul tappeto anzitutto procedure, scelte, priorità: il testo deve esserci prima della messa in scena o si va componendo durante il lavoro scenico? Esperienza ed elaborazione sono a confronto. Abbandonare del tutto Aristotele e le precettistiche? E quale il criterio di autenticità? Emerge, nel dibattito, quel concetto di “valore testimoniale” che Gerardo Guccini ha elaborato a proposito del narratore, nella relazione che apre l’ “Almanacco 2005”, dal titolo “Auctore in fabula Percorsi e poetiche del teatro di narrazione” . Stando a significare che il teatro di narrazione, incardinato sull’identità biografica dell’attore, non rappresenta, ma è se stesso, come la musica. E più che messa in scena è messa in contatto con una rete di esperienze, prodotte dall’attore, “che si dipana a partire dall’argomento narrato e includenti lo spettatore nella loro evocazione comunitaria”. In analogia con il testimone che coinvolge nel suo racconto il giurato, in questo caso impotente di fronte “alla ormai incorreggibile traiettoria dei fatti”. Emerge ancora, con forza, (stavolta in risonanza con l’altro saggio in Almanacco, “Traslazione e transazione” di Luigi Gozzi), il criterio di ridenominazione. Si tratta di un principio di compensazione che non accetta l’estinzione di quanto è esistito e riattiva continuamente i fatti, in cerca di un risarcimento comunitario che è la ridefinizione degli eventi: quasi una transazione, attraverso la traslazione e la metalessi che opera contemporaneamente più di un trasferimento di significato, in direzione della ricomposizione del conflitto sottostante. RELATORI Luigi GOZZI (“Che ce ne facciamo di Beckett?”) . Se Claudio Longhi nel suo saggio "La drammaturgia del novecento, Pacini 1999" parla di romanzizzazione, (ricordando il mitico brano di Ejsenstein dove quattro moduli qualsiasi, diversamente accostati, delineano formule compositive di diverso significato ed una conseguente nuova visione ) vorrei sottolineare come questo rinvii ad una mozione più ampia, ma non difforme, che è di montaggio. Il montaggio è pastiche, come già in Jonesco o Vitrac, ma è a Beckett che oggi guarda la drammaturgia contemporanea. (2) Pirandello e Sanguineti affrontano il conflitto tra il personaggio e il presente; Brecht e Beckett sconvolgono le coordinate temporali influenzando pesantemente la drammaturgia degli anni ’60 e oggi il loro erede è Botho Strauss, ma in questo momento l’istanza che emerge con forza è quella di Beckett, opposto e contrario di Brecht. E’ con Beckett che le regole sostituiscono le trame. Il “gioco” si sostituisce alle trame con la strutturazione di personaggi complementari, con la costruzione antifonaria, con l’importanza fondamentale riconosciuta al silenzio, come Eduardo e la musica di Cage. Di questa ritualità consumata è rimedio il senso del gioco. La dialogicità di Beckett è fortemente definita dalla retroazione e dalla complementarità relazionale. Si arriva ad una catena indissolubile, secondo un certo schema. Si va (per così dire) dal dialogo al “trilogo” ( o discorso ipotetico, o supposizione, o sciopero bianco delle parole) che tende a far retroagire la complementarità reazionale : ma non è vero. C’è un interferire in presenza, nel teatro di narrazione contemporaneo, e forse la scena è anche un luogo in cui si apprende a parlare. Pensiamo al gran bugiardo che è Fo: il suo teatro di narrazione restituisce il ruolo attivo all’attore come interprete al massimo grado. Certo si assiste alla messa in crisi del personaggio e alla destrutturazione del testo drammatico, ma tutto ciò va al di là del problema di raffigurazione del teatro. Claudio MELDOLESI (“Alla fine della forma dramma e non ancora al dopo-dramma”). Siamo in tempo di passaggi. Dopo la drammaturgia registica (Ronconi:” Il dramma è un argomento tra gli altri”) il tempo del “teatro delle possibilità” è il teatro degli attori. Perseguitato e sempre in piedi, più del teatro di regia , più del teatro del testo. Sembra configurarsi un equilibrio tra queste forme, in un teatro spesso fatto da attori che si fanno autori e registi. E’ il luogo degli uomini che amano il nuovo teatro, dell’uomo di teatro che elimina le qualifiche e scrive per sé e non solo per gli altri: come Moliere. La narrativa di Paolini, la poetica di Marco Baliani, l’espressionismo di Ascanio Celestini. Ma la poesia definisce a basso livello e la narrativa è superabile dalle differenze. Il teatro delle aperture, degli spettacoli mentali di Bene e di Fo ha rinunciato alla dimensione superomistica. Ma non è tutto. Questo non è il teatro dei monologhi (vecchia storia): Sandro Lombardi che interpreta Testori va ben oltre. Sono costruzioni di uomini di teatro che devono uscire dalla logica del monologo, che è autoritario. Siamo alla fine della forma dramma ma non è vero che siamo al dopo-dramma. Il discorso è più aperto. Questa è un ‘epoca di sospensione, cominciata con Beckett e tuttora in corso: questo è quanto è detto dalla individualizzazione della scrittura drammatica. La scrittura per la scena è un rapporto individuale dell’autore con gli attori. Dialoghi e personaggi da soli non funzionano più. Siamo ad una forma di scrittura alta che implica la collaborazione con gli interpreti. “Tu, autore, ti prendi la responsabilità di una forma dramma tutta tua” che elimina i personaggi e dialoghi a tutto tondo di un tempo. In Beckett parlano personaggi? No, i personaggi prendono la parola alternativamente senza un vero dialogo e sono tutti uguali. Assistiamo ad una radicale individualizzazione del codice: tanti codici quanti sono gli autori. Potrebbe essere un conato di avanguardia storica, una fenomenologia per il teatro ancora irrisolta in questo Paese. Verso il 2000 qualcosa di nuovo ha cominciato a muoversi: metashow, drammi del sarcasmo. Si sta cercando di emarginare ciò che è vecchio. La vita teatrale che amiamo si porta appresso la tradizione: se riuscissimo a fare una pulizia ecologica dei prolungamenti dell’800 potremo proiettare questa energia nella scrittura per la scena. Rita Maffei La letteratura è il contrario della parola detta, un parlare fra chi non sa vivere. Colui che parla è colui che indica, come gli angeli nelle tele del Quattrocento o il coro nel testi classici. Anche se non è in scena è il portatore di una visione, il tramite fra due mondi. Il passeur nei riti. Rodrigo Garcia: questo esattamente voglio fare nel mio teatro, cancellare la linea tracciata. Io faccio un teatro molto diretto, a volte molto crudo. Mi piace portare in teatro bambini e animali e il cibo. Ultimamente animali soprattutto. Non tutti hanno apprezzato questa scelta, in Italia ad esempio. Sono argentino, ho lavorato in Spagna e a Parigi. In Spagna non amano molto il teatro d’avanguardia e non lo sostengono. Mi piace fare il regista e ho l’impressione che non sia importante disporre di buoni attori. Ciò che conta è l’empatia e la visione ideologica del mondo, che fa da collante. Antonio Syxsty Ma questo dramma chi l’ha sospeso e perché? Dov’è la coscienza della forma dramma, l’identità drammatica? Stiamo parlando di Io narrante: “giudizio, testimonianza” sono termini forti. E che differenza c’è tra testimonial e testimone? Gerardo GUCCINi ( “Trarre elementi di identità trasversale dal vissuto”) Parlare di Soggetto nel teatro di narrazione e nel romanzo dell’io significa parlare di due argomenti: primo romanzo dell’io e secondo teatro del racconto. La dialettica fra questi poli sta avendo in Europa una risonanza fortissima. Il racconto si trova tra forma e differenza (scrittura più atto performativo). La dimensione è privata, non possiede un valore politico trasversale, un particolare inquadramento nel teatro del sociale. (3) Si vede l’altra faccia dell’artista di teatro attorno ad un privato identitario e affermativo non intimistico nel tentativo di costruire un principio identitario forte. Problemi di carattere redazionale emergono nelle opere che si articolano per voci, per conflitto e per difficoltà di dibattito. E’ un genere di performance epica che si afferma in Italia, Spagna, Francia, Inghilterra. Fare riferimento a sé riporta al lavoro su sé stesso di Stanislavskij, con la conseguenza del rischio di un indebolimento dialettico, di una crisi della cultura del relazionale. Ciò che dobbiamo trarre dal vissuto sono elementi di identità trasversale (4) Massimo Marino. ..E chi parla in Thomas Bernhard? Un finto narratore. Si assiste alla polverizzazione dell’io e un continuo bisogno di riaffermarlo. C’è costante la presenza della drammaturgia tedesca e la revisione di tutte le categorie: Aristotele, la quarta parete, l’intreccio, il destino tragico, la rivelazione. Dopo la seconda guerra mondiale Friedrich Durrenmatt nega la tragedia e l’unico elemento identitario diventa, con l’insufficienza linguistica, la difficoltà di comunicare. (5) Philippe FOREST (“L’io sulla scena e sulla pagina si sdoppia e parla a nome di un ‘altra favola che dev’essere comunicata: è un faccia a faccia con il possibile”) In Francia , nel linguaggio degli uomini di teatro si dice leggere à l’italienne per indicare il modo in cui, prima ancora di chiedersi come metterlo in scena, un attore legge un testo per la prima volta e, senza preoccuparsi ancora del suo significato, della sua struttura, prende ad esplorarlo un po’ come viene. Un simile esercizio possiede anche un valore critico. “Le pensée se fait dans la bouche” diceva Tzara. Leggere senza comprendere del tutto è già riflettere, mettere i pensieri in movimento. Ho letto un po’ à l’italienne i testi inseriti nel nuovo numero dell ’ “Almanacco”, senza conoscere assolutamente gli spettacoli a cui si riferivano, nell’ignoranza pressocchè totale del lavoro drammatico di cui erano parte, sperando , malgrado tutto, che l’esercizio di lettura estemporanea favorisse il nascere di qualche idea. E’ questa la scommessa che vorrei fare con voi e di fronte a voi. Che, d’altronde, mi sembra assomigli alla scommessa su cui poggia il “teatro del racconto” (il teatro narrativo). Come autore di romanzi parlerò tenendo conto del dialogo instaurato tra l’evoluzione del romanzo e quella del teatro moderno. Contro un certo realismo che dà luogo alla falsa immagine del mondo, all’inganno di una rappresentazione sicura di se stessa e della sua soggettività, scrittori e drammaturghi hanno elaborato una pratica diversa del testo: una pratica critica di se stessa, inquieta, a tratti aporetica, che sollecita l’opera a interrogarsi e a far posto allo spazio aperto di una domanda senza fine. Conosciamo le fasi di questo processo di messa in discussione radicale. Ci sono stati Proust e Joyce, Artaud e Beckett, tutta la congerie delle grandi avanguardie europee. Contrariamente a quello che ogni tanto ci capita di leggere, questa storia arriva fino ai nostri giorni. Stéphane Mallarmé sognò tutta la vita di lasciarci un libro che non avrebbe scritto e del quale ha preferito lasciarci solo il rimpianto: un libro del quale ci resta solo qualche frammento, qualche traccia di quello che sarebbe stato : poesia, ma nel quale la poesia si sarebbe espressa come un’opera di teatro, permettendo alle letteratura moderna di tornare alle sue origini. Mentre scriveva “ Paradis”, ( certamente uno dei tre grandi libri della letteratura contemporanea), Philippe Sollers affermava: ”Finalmente la letteratura è assai meglio pensabile- come ha detto Mallarmè, ma come Joyce non dubitava a proposito di Shakespeare, e come Artaud o Céline non hanno mai smesso di sostenere vigorosamente- in termini di teatro”. Nel testo che serve di presentazione al nuovo numero dell’ “Almanacco”, Jean-Pierre Ryngaert definisce così il nuovo teatro: “Si tratta di uno spettacolo quasi astratto della parola in movimento”. E richiamando in particolare il teatro di Nathalie Sarraute, Ryngaert ricorda certe opere drammatiche dove i personaggi scompaiono e “Il gioco delle voci, in assensa di fonti umane chiaramente identificabili dal testo, viene assunto interamente dagli attori”. Da dove viene questa parola in movimento che diventa spettacolo astratto? Da nessuna parte. E l’opera di Beckett lo ha fatto intendere chiaramente. E’ il debutto assoluto dell’indicibile: “Allora dove? Allora quando? Allora chi?” Quando l’opera rinuncia al simulacro della rappresentazione realistica, si leva una voce da cui non si intende nient’altro che un certo modo di dire “Io”. Nel bel testo che apre l’ “Almanacco” e al quale soprattutto mi riferirò poiché ricapitola con grande chiarezza queste problematiche, (Auctore in fabula”), Gerardo Guccini mette in luce le analogie a proposito del movimento, che caratterizzano le forme nuove del teatro narrativo. In particolare scrive: “Il discorso non simula la presenza di un referente drammatico (l’azione, i personaggi), ma li fa vivere attraverso il narratore il quale, a sua volta, non assume una funzione teatrale (come i personaggi), ma una identità biografica (come persona dell’autore). La vera questione posta concerne la natura di questo narratore inedito, questo “soggetto” nuovo che fa comprendere l’opera, questo soggetto che non dice mai “io” ma che, Beckett distingue chiaramente, non è “me” e dove la nuda voce restituisce comunque il mondo, e ci restituisce al mondo. Quando “io” non è “me”, c’è fra l’uno e l’altro uno scarto che apre l’intervallo nel quale appare “lo spettacolo quasi astratto della parola in movimento” e alcune opere, poiché ci appaiono più lontane, più straniere ce lo fanno comprendere meglio. L’antologia che costituisce l’”Almanacco” presenta non a caso due opere che ci vengono dall’Estremo-Oriente (la Cina, il Giappone) e non a caso scritte entrambe da autori eccellenti: poeta uno e romanziere l’altro. L’”Osiris, dio di pietra” di Gozo Yoshimasu richiama nel titolo l’Arcane 17 di Breton e nella forma i Canti di Ezra Pound: un scrittore si interroga sulla sua identità e la risposta è un paradosso . Nell’opera del poeta cinese Gao Xingjian “Il questuante della morte” la ricerca dell’identità è tanto volatile da provocare una paura invincibile. Perché esiste una concezione più mobile, più inquieta del soggetto, che sfugge al nostro etnocentrismo. La questione testimoniale è poi decisiva. Per noi risponde Primo Levi nel suo “I sommersi e i salvati”, dove, come sappiamo, il testimone vero è naufragato, sopraffatto dall’orrore, ed è sopravvissuto il finto testimone, indegno ma necessario. Il gesto angelico cui si accennava non è affatto angelico, ma colpevole. L’io sulla scena e sulla pagina si sdoppia e parla a nome di un ‘altra favola che dev’essere comunicata: è un faccia a faccia con il possibile. Il ritorno alla narrazione in Europa, allora,non è una restaurazione del realismo, ma un’aporia che giustifica l’atto della scrittura Antonio Syxsty Ma chi parla? L’attore o il drammaturgo? Fatico a credere che sia il narratore: siamo tutti narrati. Banalmente l’io narrante potrebbe essere deciso dai mercati: ci arrivano messaggi da ogni cosa. Io faccio il regista: in televisione, in teatro, nel cinema. Non vedo grandi differenze tra il reality televisivo e il teatro di narrazione. Renata MOLINARI (“Si vuole costruire una relazione che è forma. E forma è un paricolare atto di conoscenza, non retorica”) Sono stati messi in campo molti temi: so bene quali termini siano proposti poichè io stessa nel mio lavoro di dramaturg mi trovo a proporli. L’Io è il fantasma di un personaggio che funziona da ponte tra attore e storia. Il personaggio si nutre di corpo e memoria e attore: l’attore opera un travaso di queste energie. C’entra con sudore, voce, memoria. Forse, per fare ordine fra l’ambiguità nella narrazione e fra teatro e genere imposto dall’autore,occorre riflettere sul tempo della prova. Il tempo della prova viene speso diversamente con accorgimenti in cui si manifesta il teatro che ha nostalgia di quelle apparizioni: qualcosa che accade, che non può essere oggettivamente ripetuto. E’ lì che si manifesta il teatro: quel surplus di sapere del teatro fatto di esperienza e relazioni. E’ in questo tempo esperienziale che incontriamo la competenza testimoniale dl teatro: il “Vajont” che propone Paolini è l’esperienza-prova di chi costruisce i fatti. La testimonianza è autobiografia costruita in relazione all’oggetto: di questa costruzione si rende testimonianza: fatti concreti che diano ragione del nostro movimento. “La testa pensa dove posa il piede”. Le prove avvengono per lo più in cammino e lasciano impronte: si va a suscitare la memoria dei luoghi, non a ricordare lì. C’è una relazione intima tra l’attore e il suo partner regista-scrittore. Essere in due: costruire una distanza in cui lasciare spazio all’azione. Mi piace la possibilità della narrazione che approfondisce unità minime dell’azione. Così è la situazione teatrale, avendo presente la funzione ineliminabile dello spettatore. Thierry Salmon ha sempre fatto dello spettatore un personaggio in modo segreto ma evidente: nella narrazione la quarta parete non c’è. C’è invece una vitalità estrema, una estrema vigilanza. L’esperienza è condizionata dalla relazione. Ciò che si vuole è costruire una relazione che è forma. E forma è un particolare atto di conoscenza, non retorica. E’ la lotta tra la visione e la forma che impone di rinunciare a ciò che è il privato: è l’impronta che stiamo per lasciare la possibilità ideale di compiere quel passo. Il testimone è colpevole e necessario, vero e falso, ma niente paura: ha visto, c’era, è garante di verità giuridica ed esperienziale, non riducibile a norma. Il soggetto che tanto più si sforza di rispondere, tanto piùè irriducibile alla logica dell’interrogante. Il testimone è testimone di una guerra: il giudice interroga secondo categorie giuridiche e il testimone narra della verità: è la tensione tra questi due poli che alimenta il teatro di narrazione. Bisogna prenderne atto senza rinunciare a trasformare la realtà. (6) Andrea CALZOLARI (“Letteratura al quadrato: si fa il pieno del vuoto per lasciar parlare ciò che non si può dire”) La verità è fantasma. Sono scettico. Per Forest l’illusione va ricostruita, ma non racconta qualcosa che ritiene più vero; per Levi la testimonianza è falsa e necessaria: chi l’ha conosciuta non parla più. C’è un doppio vincolo. Un testimone falso perché quello vero ha fallito: per distrazione, mancanza di volontà, incapacità di parlare. Diderot scive “Jacques il fatalista” un lunghissimo dialogo. 28 storie che si accavallano in modo paradigmatico e sintagmatico tra i diversi livelli di narrazione. Allo stesso livello,invece, ( e a proposito di viaggi), Jacques interrompe il padrone e il padrone Jacques. Un romanzo che trova il metalinguaggio nella continua narrazione. Decostruzione: se Forest accenna a Derrida e alla ricerca dell’indicibile, Jacques lascia sempre nell’idecidibilità. Questa è letteratura al quadrato: si fa il pieno del vuoto per riuscire a far parlare ciò che non si può dire. Non sempre si manca: bisogna fermare l’attenzione non sul testo ma sulla resa. NOTE (1) Un altro effetto collaterale del convegno è stato l’affermarsi di questo sito (dramma.it) che anche grazie a questi appuntamenti annuali ha preso forza e diffusione come punto di riferimento per chi fa o s’interessa di teatro. (2) Proprio in questi giorni la Biennale di Venezia dedica a Beckett uno spazio espositivo all’Arsenale, con “Respiro” un’opera breve e sconosciuta in cui, sulla scena vuota compaiono solo rifiuti. Con la regia di N.Navridis: “Grido fioco, inspirazione, silenzio, espirazione: si odono e svaniscono al crescere e decrescere della luce”. In effetti, parte della mostra curata da Rosa Martinez (“Sempre un pò più lontano”) è giocata su una delle chiavi drammaturgiche di Beckett, ricordata qui da Luigi Gozzi: le regole e il gioco sulle regole, che si sostituiscono alle trame”. (3) “Gli Stati Uniti del futuro saranno un Paese sempre più violento, all’interno e all’esterno. Il regime della seconda era Bush lo ha certificato. Io ho cercato di raccontarlo a teatro, in uno spettacolo che ha fatto fin troppo rumore (The god of hell). Il teatro è per le idee, ma il cinema è per le emozioni, il sogno e lì non voglio parlare di politica”. Sam Shepard, Intervista di Arianna Finos, Venerdì di Repubbica del 24 giugno 2005 (4) “La fiducia degli Italiani non è mai stata così bassa. Non manca solo l’aspettativa per il futuro, ma la possibilità di fare previsioni. In mancanza di qualsiasi punto di riferimento si ragiona da soli al mondo. ..E c’è una solitudine non soggettiva ma di sistema”. Giuseppe Roma, direttore generale del Censis. Intervista di Attilio Giordano, ibidem. (5) “E’ un secolo in perpetuo movimento e, allo stesso modo il teatro troverà in questo costante rinnovamento la sua forma” A proposito di Georges Banu, comunicato della Soffitta di Bologna marzo 2001. Vedi inoltre la nota seguente a proposito del “tempo uscito di carreggiata” (6) “La realtà è la verità che ha fatto i conti con le forze in campo” Dalle parti di Benjamin o Gadamer, non ricordo esattamente, mi è sempre sembrato chiarissimo, ma in questo contesto di più. Inoltre P.A. Florenskij , “Amleto”, Bompiani, nota 19, pag.23: “La verità è un giudizio autocontraddittorio. Tesi e antitesi costituiscono insieme l’espressione della verità. L’antinomicità viene dal frazionamento dell’essere stesso e il raziocinio fa parte dell’essere”. E sta parlando di Amleto, un essere che vive un tempo che “è uscito di carreggiata”. Curricula dei Relatori Gabriella Bosco, nata a Torino nel 1960 è docente di Lingua e Letteratura Francese classica e rinascimentale presso l’Università di Torino. Andrea Calzolari (Parma 1940) laureatosi in filosofia con Anceschi, settecentista, si è dedicato all’illuminismo francese, ai rapporti tra rappresentazione scientifico-filosofica e rappresentazione estetica del mondo di Diderot. Diverse le pubblicazioni. Philippe Forest (Parigi 1952) insegna Letteratura comparata all’Università di Nantes e collabora alla rivista “Art Press” e “L’Infini”. Tre noti romanzi, tutti con Gallimard. Rodrigo Garcia. Autore, scenografo, regista. Nato a Buenos Aires, dal 1986 vive e lavora a Madrid. Luigi Gozzi vive a Bologna dove è nato nel 1935. Drammaturgo, regista, docente di Metodologia e critica dello spettacolo al DAMS di Bologna, ha fatto parte del Gruppo ’63. Nel ’68 fonda la Compagnia “Nuova Edizione” al “Teatro delle Moline”. Tiene laboratori di scrittura scenica e per la casa editrice Clueb cura la collana di drammaturgia italiana Simulazioni. Gerardo Guccini è docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Bologna. Membro dell’ISTA, cura la rivista “Prove di drammaturgia. Riviste di inchieste teatrali.” Rita Maffei è attrice, regista e autrice, vicepresidente e codirettore artistico del CSS di Udine. Massimo Marino è drammaturgo, librettista, saggista, critico teatrale dell’Unità. Claudio Meldolesi (Roma 1942) è docente di Storia del teatro e dello spettacolo al DAMS di Bologna. Tra le sue pubblicazioni: Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi. Fra totò e Gadda. Brecht regista. Ha fondato “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali” Renata Molinari è docente di Drammaturgia applicata presso la scuola di specializzazione in Comunicazioni sociali presso l’Università Cattolica di Milano. Alla civica scuola “Paolo Grassi” insegna Drammaturgia. Maurizio Pirro è germanista presso l’Università di Bari. Ha pubblicato “Anime floreali e utopia regressiva” sull’idillio nel settecento tedesco. Antonio Sixsty è autore e regista di teatro e di cinema formatosi al Piccolo di Milano. E’ codirettore artistico del Teatro Litta di Milano. |