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Teatro a Corte
di Maria Dolores Pesce

È iniziato venerdì 10 luglio questo interessante festival teatrale, ambientato tra Torino città e le residenze sabaude del suo, ancora poco conosciuto, hinterland, e si concluderà domenica 26. Festival in un certo senso eccentrico in quanto costruito come una rete che coinvolge e rende dialettici teatro e territorio, drammaturgie e pubblico in una sorta di gioco di specchi che dilatano sensazioni e significati e per questo definirlo peripezia non appare audace, poiché il muoversi nel territorio diventa simbolo del muoversi della mente e dello spirito tra le suggestioni delle drammaturgie. Scelta e compito non agevoli quelli assunti, dunque, dagli organizzatori che però alle difficoltà hanno risposto, credo con successo, privilegiando e curando il rapporto con il pubblico attraverso un dialogo fitto ed una presenza continua. Va dato merito, del risultato, della buona organizzazione e del livello artistico generalmente apprezzabile al Direttore Artistico Beppe Novello ed al suo staff. Altro elemento rimarchevole riguarda il fatto che il respiro internazionale del Festival, comunque assicurato da presenze di rilievo del panorama contemporaneo europeo, non ha soffocato la ricerca e la valorizzazione di fermenti nuovi nella drammaturgia italiana, purtroppo non ricchissima di energie nel momento attuale. Ne è testimonianza, in particolare, il progetto “Nuove sensibilità” che, frutto della collaborazione tra vari teatri stabili con il concorso dell'ETI, ha selezionato e presentato sette 'progetti' selezionati, sei vincitori ed uno segnalato, tra trenta partecipanti. Gli spettacoli hanno costituito una sezione speciale del festival “Teatro a Corte” che ha avuto il rimarchevole intento di offrire una vetrina internazionale a questi nuovi fermenti, di cui più avanti ci occuperemo specificamente. È il momento, però di parlare delle drammaturgie ospiti.

LA BONNE VOIE/LE BANQUET

Ha affrontato una vera tempesta, venerdì 17 luglio a Pollenzo in Piazza Vittorio Veneto, questo spettacolo della compagnia francese “Ilotipie” ma l'ha superata con successo e con essa il pubblico. Più di una performance in senso tradizionale questo spettacolo 'culinario' vuole forzare i limiti dei sensi, le forzate settorializzazioni che ne confinano le potenzialità in stanche ripetizioni. Davanti a trecento spettatori, dunque, attori acrobati mescolano sapientemente vista e gusto, olfatto e tatto distribuendo piroette e pietanze, tra l'altro ottime, a volte quasi strappate al loro corpo. Abilità da circo e senso della drammaturgia nel suo farsi scenico concorrono a modificare lo spazio e a sconvolgerne i tradizionali riferimenti, trasportando il pubblico oltre l'apparente limite di un palcoscenico-scena ribaltato.
Ringrazio Renzo Francabandera che ci ha messo cortesemente a disposizione tre delle sue belle illustrazioni realizzate nel corso dello spettacolo.

POST ENGAGEMENT. DIPTYCH. PART I/II
Tatiana Baganova, con la sua compagnia “Provincial Dances”, ha presentato sabato 18 in prima italiana questo suo lavoro, premiato a Mosca con il prestigioso “Golden Mask”. L'affascinante Castello di Agliè con la fontana dei Quattro Fiumi nel suo giardino all'italiana ha fatto da sfondo a questo altrettanto affascinante lavoro. Sapiente fusione tra controllati movimenti classici e slanci 'atletici' della nuova danza americana, lo spettacolo riesce anche a trasfigurare la tradizione per così dire narrativa, evidente soprattutto nella sua prima parte, del balletto russo e, insieme le sue radici popolari, in danza figurativa ove i movimenti fisici appaiono utilizzati come tratti di pennello per disegnare in scena astratte composizioni. La sapienza tecnica dei bravissimi ballerini in scena, anche da sola sufficiente a dare spessore allo spettacolo, è dunque man mano liberata dalla scrittura coreografica della Baganova in pura energia che coinvolge, senza però mai perdere la distanza critica, verso rivelazioni di senso. Il termine teatro-danza appare dunque del tutto coerente con l'arte di Tatiana Baganova che trasforma i movimenti coerografici in veri e propri elementi di scrittura drammaturgica.

CAVOUR VS RESTO DEL MONDO
Con questa drammaturgia, prodotta dalla Fondazione Teatro Piemonte Europa, la nostra peripezia si trasferisce, in un certo senso, dallo spazio/territorio al tempo della storia riavvicinando nella lettura di protagonisti di quell'allora solo apparentemente lontano, le radici della contemporaneità, radici e sorgenti che, più che sconosciute, appaiono distrattamente e forse colpevolmente relegate nella nostra indifferenza. Al Castello Cavour di Santena, domenica 19 luglio, Anna Galliena si è in effetti fatta tramite, drammatizzandole, di pagine importanti della nostra vicenda fondativa, recuperate nelle parole e negli scritti di Cavour, Costantino Nigra, della Contessa di Castiglione e di Caroline Marsh, prima ambasciatrice statunitense in Italia e, per questo, testimone della simpatia intercorsa tra due vicende che apparivano di liberazione. Sul palco insieme a lei due sindaci importanti nella più recente storia di Torino, Castellano e Novelli, a rappresentare i lasciti che quella storia risorgimentale ha comunque lasciato nel senso dello stato e della amministrazione, nel rispetto dell'etica e della buona politica anche in questi giorni quantomeno 'confusi'. Forse, appunto, ricordare quegli sforzi di unità e rinnovamento, quegli uomini e quelle donne ancora 'convinti' che sapevano discriminare in base a valori i propri atti, può quantomeno aiutarci a riflettere rispetto alla prevalenza attuale di egoismi soggettivi e territoriali, che sembrano minare quella creatura di cui l'anno prossimo si festeggeranno i 150 anni di vita. Uno spazio di teatro civile e politico , anzi comunitario, nella accezione più nobile di questo termine.

Venendo ora alla sezione “Nuove Sensibilità”, ospitata alla Cavallerizza Reale di Torino, cui acennavo in premessa, va detto subito che è stata l'occasione per verificare i fermenti che agitano oggi il mondo teatrale più giovane e anche di tirare, per così dire, un consuntivo di ciò che sembra accumunare questi fermenti, comunque lodevoli e ricchi. A questo riguardo, quasi tutte le compagnie presenti nella sezione hanno dimostrato a mio avviso, e confermato una certa difficoltà ad articolare un rapporto fecondo, anche quando critico, con il testo drammatico, con la parola letteraria, quasi sempre visto come uno spunto, se non a volte addiruttura un ostacolo, per un processo di autorappresentazione che vuole vedere l'attore come protagonista principale di una sorta di ricerca identitaria, che qualche volta sconfina oltre la propria rappresentazione verso narrazioni generazionali. È emersa dunque in genere una tendenza più alla performance corporea che alla rappresentazione e alla sintassi scenica e recitativa, con risultati in buona parte apprezzabili ma a volte ripetitivi e tendenti alla prolissicità. La parola, non solo quella letteraria, è stata dunque spesso piegata a questa esigenza, a questa ricerca di identità, anche se altrettanto spesso espressivamente contaminata con dialettismi o, tout court, con l'immissione di lingue straniere. Ne sono state conferma anche le considerazioni degli stessi drammaturghi nel corso degli incontri, utili ed interessanti, tenuti ogni mattina con la stampa. In fondo è emersa una sorta di amarezza, di crisi nella percezione del mondo, di pessimismo, insito anche nella scelta delle diverse fabule, cui è corrisposta quasi la necessità di rispondere con durezza, di colpire il pubblico affinchè si risvegli da un torpore che tutto sembra coprire.

L'OPERAZIONE (17/7)
La drammaturgia di Rosario Lima, che esemplarmente si autodefinisce “commedia di disperazione in 5 quadri”, vede in scena, oltre al drammaturgo, Andrea Nicolini, Andrea Narsi, Ugo Giacomazzi e Franco Sangermano. La pièce tenta un interessante operazione di 'teatro nel teatro' rappresentando e ragionando delle difficoltà di un giovane gruppo di portare in scena una drammaturgia sulle Brigate Rosse ed insieme dei compromessi, anche intimi, che le regole di quel mondo, tra sponsor e raccomandazioni impongono. L'aspetto più efficace di questa operazione è, d'altra parte, la progressiva 'confusione' tra le due realtà, quella del teatro e quella della vita, che porta gli attori a compiere il rapimento, in stile appunto BR, dell'importante critico che dovrebbe promuovere lo spettacolo, rapimento che si sviluppa con esiti anche esilaranti. Amara riflessione sulle fatiche dei giovani teatranti ha il limite di un finale sospeso, più che aperto, che in parte si involve su sè stesso.

BRUGOLE(17/7)
Lavoro della compagnia “Lisa Nur Sultan e Emilio Masala”, scritto dalla stessa Lisa Nur Sultan ed interpretato da Elisa Lucarelli, Leonardo Maddalena e Emiliano Masala, è la prima riflessione proposta nella sezione sui rapporti interpersonali e di coppia. Efficace, a questo proposito, l'idea drammaturgica di sviluppare il discorso sul farsi delle relazioni attraverso la metafora del fai da te, delle 'brugole' appunto, che riporta nel concreto dello spazio di un palcoscenico percorsi di cui spesso, nella vita, si perde effettivamente il filo. Sono legami in continui 'lavori in corso' che sconfinano nell'ossessività per l'assenza di un obiettivo credibile, di un approdo. Ispirato a “L'angelo Sterminatore” sostituisce la cupezza della dimensione costrittiva del mondo bunueliano con la precarietà di esistenze contemporanee, apparentemente libere, che infatti non sono impedite a scegliere ma, ed è forse peggio, non hanno niente tra cui scegliere.

BIOS UNLIMITED (18/7)
Drammaturgia del gruppo OHT, è diretta da Filippo Andreatta. Spettacolo di buona forza figurativa a partire dalla scenografie di piccole case, casette o cabine accalcate in uno spazio angusto e rese mobili e trasfiguranti da giochi di luci e proiezioni di immagini che ampliano lo spazio ed il tempo annullandone i confini. Giocato per questo su registri tra l'onirico ed il favolistico, sembra rappresentare lo spazio interiore animato da sogni dai contorni incerti e nebbiosi. Si perde peraltro un po', in questo spazio, l'efficacia della narrazione che appare anch'essa quasi assente, priva come è di efficaci confini sintattici, anche se le sue sonorità si mescolano bene con l'atmosfera complessiva della drammaturgia.

IF I WAS MADONNA(18/7)
Alessandro Sciarroni scrive e dirige questo lavoro, che vede in scena Chiara Bersani, Angela Cecchitelli, Ettore Lombardi, Greta Oliveri Pennesi, Davide Passaretti, Matteo Ramponi, Laura Sciabarrà e lo stesso Sciarroni. È drammaturgia che, saltando in pratica ogni mediazione linguistica, vuole rappresentare direttamente il corpo fisico come luogo di identità ed insieme di confine, un confine labile continuamente oltrepassato da identità virtuali ma prepotenti e spesso preponderanti. Vive la scena, luogo di rappresentazione principe, come possibilità di incorporare, di possedere anche se per pochi momenti, queste identità virtuali sempre più prevalenti. Ispirato nella sintassi scenica alle forme più attuali del teatro corporeo, mostra però un limite nella eccessiva concenttualizzazione delle metafore che privano a volte la drammaturgia dell'immediatezza e dell'efficacia propria ed insita nella presenza fisica e concreta dei corpi e dei loro movimenti.

VERY CONTEMPORARY MAN(19/7)
Damiano Madia presenta questo lavoro scritto a sei mani con Yuri Ferrero e Fabio Padovan e dai medesimi interpretato. Pièce quasi di autocoscienza o della ricerca di identità personale e intergenerazionale, mescola con abilità e coerenza una parola meticciata di dialetto con performance di teatro danza, su una trama musicale che vuole essere evocativa ed insieme narrativa. La storia di tre giovani uomini si confonde e mescola anche fisicamente, tra di loro e con quella dei padri, generazione precedente ammirata forse ma certamente non capita o condivisa. Le parole e anche i fonemi di questa narrazione sono fornite da quel vocabolario, in fondo limitato ma ricco di suggestioni e transiti, fornito loro dalla televisione. Idea e realizzazione interessante, un po' prolissa e ripetiva a scapito della comunque buona efficacia complessiva.

KVETCH (Piagnistei)
Tiziano Panici ha proposto e diretto questa che è l'unica drammaturgia della sezione che più direttamente si confronta, quasi combattendovi, con un testo drammatico forte. In scena Ivan Zerbinati, Laura Bussani, Jacopo Bicocchi e Simone Luglio. Il dramma di Steven Berkoff è un testo duro, arrabbiato come nella migliore tradizione della drammaturgia europea contemporanea, e racconta di vite incapaci di comunicare, di confondersi e legarsi una con l'altra e forse per questo destinate alla perenne sconfitta e alla solitudine. La pièce elimina ogni riferimento naturalistico ed utilizza il testo come metafora di una condizione metafisica, che trasforma le esistenze in ruoli che ripetono coattivamente le proprie pulsioni senza elaborarle. Marito, moglie, suocera 'imbarazzante', collega e datore di lavoro si ripropongono continuamente come monadi all'interno delle quali l'altro giunge come eco di un sogno perennemente coltivato. È una situazione senza uscita espressione di un pessimismo profondo che il drammaturgo utiliza ed esibisce con violenza quasi a colpire e scuotere lo spettatore. La riscrittura scenica del testo drammatico peraltro si arrichisce di meticciamenti linguistici che tentano di dare concretezza ed identità ad esistenze altrimenti anonime, lasciando intravvedere nella rappresentazione un tentativo, la ricerca di una via di uscita.

CRONACHE DI UN TEMPO ISTERICO
Con questo lavoro viene riproposta la difficoltà, fino quasi all'impossibilità, del rapporto di coppia. Scritto e diretto Armando Pirozzi vede in scena Giovanna Giuliani e Tony Laudario. Commedia anche questa della precarietà, che dall'esistenza si ribalta direttamente sull'identità, si articola su un curioso tentativo di un uomo ed una donna, in forzato prepensionamento, di rintracciare un terreno comune rivisitando con pervicacia l'elenco delle loro passioni e delle loro discipline. La catalogazione dunque come sostitutivo della passione, del sogno e soprattutto della creatività. Tentativo apparentemente fallimentare inaspettatamente riscattato dai legami che lo spazio condiviso ha comunque costruito tra i due protagonisti. Lo spazio, i luoghi dunque (forse la scena ne è efficace metafora) intesi come corroborante di identità altrimenti incerte e fuggevoli, come sostitutivo anche nell'immaginario di una interiorità altrimenti inafferrabile, e comunque in grado di recuperare seppur surrettiziamente una stabilità perduta in un mondo incomprensibile.

II parte

Si è avviato a conclusione il festival delle Corti Sabaude di Torino, con gli ultimi spettacoli di questo fine settimana. È stata occasione assai interessante per approfondire le dinamiche contemporanee del teatro europeo, nel suo oscillare tra drammaturgia, testo e perfomances sceniche, in una dinamica relazionale tra parola e danza, e alla ricerca di orizzonti di senso rinnovato e soprattutto, credo, di un nuovo e più fecondo rapporto con il pubblico, con gli spazi della comunità e con il tempo della sua dialettica evoluzione.
L'ultima parte, dunque, ha proposto, all'interno di questa che mi sembra la dinamica complessiva della rassegna, alcuni spettacoli affascinanti che, insieme, sono risultati, in un certo senso, sottolineare proprio gli elementi più innovativi del teatro europeo di questi ultimi anni, tra la riscoperta dell'arte circense del nuovo contesto francese e l'articolazione eversiva della parola drammaturgica della scena tedesca e austriaca.

UNTITLED #1
Performance creata e realizzata dal francese Jérome Thomas, è stata ospitata nel museo di arte contemporanea all'interno del Castello di Rivoli, in particolare nella sala ove è collocata una installazione di Olafur Eliasson. L'artista francese utilizza i gesti, le tecniche e le modalità del giocoliere circense per articolare lo spazio attorno al suo corpo, così da creare una trama di significazioni. Il confine che virtualmente ne limita, come una gabbia di vetro che non c'è, i movimenti costituisce dunque una sorta di riferimento che, dando misura allo spazio, può dar misura anche al nostro giudizio esistenziale. Lungi dal costituire un ostacolo tale confine virtuale diventa così il tramite ineludibile per comunicare.

SPORT. UNA PIECE – II STUDIO
Drammaturgia del premio nobel 2004, l'austriaca Elfriede Jelinek, è presentata nella traduzione di Roberta Cortese che ne è anche unica protagonista in scena. La regia è di Lorenzo Fontana che con la Cortese, Valentina Diana ed Elena Pugliese ha fondato la “Associazione 15febbraio” che produce lo spettacolo. L'approccio seguito dal gruppo nell'affrontare questo camaleontica e pluristratificata drammaturgia è quello della sottrazione, della selezione di specifici livelli linguistici e rappresentativi, quasi a tentare di concentrare in un'unica ed insieme plurima soggettività i numerosi livelli di senso e le articolazioni che la Jelinek proietta invece, a partire dalla narrazione di sé, della propria soggettività e memoria, come trama di comprensione e critica, invitabilmente amara, della società e non solo di quella austrica. È una pièce che fa dello sport metafora di guerra, guerra che è nella contrapposizione sociale, e costruisce, nella confusione di mito e attuale religione del corpo sportivo, una specie di metafisica della contemporaneità. Il gruppo, dunque, attua una sorta di percorso a ritroso che concentra sull'unico personaggio in scena, nel contesto spoglio di un muro bianco con foto di eroi dello sport, la pluralità delle suggestioni e delle sensibilità di un intero contesto sociale eteroguidato. L'effetto cercato ed ottenuto è forse quello di riportare nella vicinanza tra attore e spettatore la significazione, il giudizio critico, ma ad esempio l'eliminazione del coro, simbolo della sottomissione della individualità contemporanea, e e la limitazione degli spazi e della sintassi scenica rispetto ad una scrittura letteraria che fa della sovrapposizione continua dei livelli significativi, la propria forza e su questa, con modalità quasi sanguinetiane, fonda la forza della propria parola può attenuare l'impatto eversivo della ribellione drammaturgica della Jelineck. D'altra parte il lavoro è concepito come un percorso a capitoli, una sorta di studio su una drammaturgia che è complessa ma anche indiscutibilmente potente.

SLIPPING
Spettacolo ideato e diretto da Carmen Blanco Principal, per la compagnia belga da lei fondata “Furiosas”, piega la danza ad una sorta di trama sintattica narrativa di cui i movimenti coreografici, assai meticciati con acrobazie circensi, costituiscono la grammatica figurativa. All'interno di una gabbia per leoni i bravissimi Cille Lansade e Pierre-Yves de Jonge articolano dunque, con forza ed incredibile agilità tra muri e sbarre, una storia d'amore e sentimento tratta da un romanzo dell'elvetico Robert Walzer. Danza, a mio parere, dai caratteri espressionistici, porta alla luce emozioni e sentimenti del testo letterario per parteciparli al pubblico che ne condivide il senso. Forse l'introduzione, non prevista, di un terzo personaggio in funzione quasi di traduttore letterario del senso dello spettacolo, rischia di spezzare la trama di questa condivisione, appesantendo la dialettica figurativa e, appunto, espressionistica dell'intera pièce.

FLUX
Presentato dal gruppo francese “Theatre du Centaure” è una sorta di creazione collettiva che, come sottolinea il foglio di scena, viene quasi a rappresentare lo spirito del festival nei suoi due aspetti rilevanti. Da una parte nel suo significato di peripezia nei luoghi e nella storia delle comunità, come organismi semplici ma modulabili in un contesto progressivamente sempre più 'europeo', ed in effetti Flux è un percorso che racconta 10 città europee, fluviali e portuali a significare scambio e meticciamento culturale. Comunità dunque intesa come momento di apertura e non di chiusura egoistica. D'allaltra nel suo significare l'ambiguità del fare teatrale, oscillante come detto tra testo e performance, tra sintassi letteraria e transito fisico, ambiguità ben rappresentata nel mito del centauro e nelle modalità drammaturgiche, da questo derivanti, scelte dal gruppo ed articolate nella relazione in continuo movimento ed in reciproco condizionamento tra attore uomo ed attore cavallo che consente di dilatare lo spazio oltre i limiti della stessa drammaturgia. Il rapporto con i testi di Fabrice Melquiot, peraltro, non è per nulla pregiudicato ma anzi, articolato in più funzioni, dalla parola, al suono, alla prossemica scenica, risulta irrobustito. La soggettività di attore e spettatore è così ricostruita nel rapporto vissuto nello spazio della rappresentazione e recuperato nella geografia e nella storia dei luoghi, in una sorta di flusso significante integrato da una suggestiva scenografia sonora e musicale. Vi è dunque da parte della compagnia la ricerca di una continua interazione con il pubblico, interazione che è in fondo un tentativo rinnovato di integrazione con il pubblico stesso, all'interno della cui trama ritrovare e ricostruire un senso esistenziale e culturale, un flusso anche affettivo, a soggettività e comunità in reciproca relazione.

SHORTRIP
Ideata e rappresentata da Paolo Cipriano e Valentina Mitola, i “Supershock”, e prodotto da “MusicarTeatro”, questa performance costituisce un efficace tentativo di integrazione tra sensazioni e significazioni visive, sonore e figurative, dunque oltre la semplice sovrapposizione e semplice mescolanza tra cinema, teatro e musica. In effetti i musicisti, a partire dalla creazione o arrangiamento di musiche originali ispirate a capolavori del cinema muto, da Méliès di “Voyage dans la lune” a Renè Clair e a Watson e Webber, in un ruolo che recupera quello dell'antico pianista delle sale del primo novecento, puntano ad un reciproco e dialettico condizionamento tra le diverse modalità espressive che così vengono in un certo senso piegate a significati rinnovati. La mescolanza feconda tra i vari livelli creativi produce dunque un nuovo oggetto scenico, autonomo e rinnovato nel suo significato e nella sua valenza artistica e drammaturgica.

Un'ultima notazione, prima di dare un appuntamento a questo festival per il prossimo anno, merita l'installazione figurativa “ALL THE PEOPLE I DIDN'T MEET” dell'artista olandese Judith Nab che ha, come dire, accompagnato il festival in tutta la sua durata. La singolarità di questa creazione è che si tratta non di un'opera chiusa da apprezzare, interpretare od elaborare, ma di un vero e proprio luogo di “creazione” che nella interazione dialettica con i visitatori/pubblico si integra, si modifica, si evolve in tutto il tempo della sua apertura, per una specie di significazione aperta in perenne farsi. In effetti è un percorso attraverso il quale il rapporto con lo spazio fisico produce una dialettica creativa nella relazione tra spettatori, e tra questi e il luogo. Immagini si dilatano così oltre ogni confine nel padiglione riempito di nebbia, mentre volti e figure sugli schermi inviano segnali e chiedono risposte. L'onere ed il piacere della performance viene pertanto, naturalmente e senza sforzo, ribaltato sul pubblico come parte essenziale della creazione stessa, e quest'ultimo può ritrovare un percorso di conoscenza ed identità anche soggettiva ed esistenziale, percorso che, attraverso l'esperienza artistica, è come 'ritracciato' oltre i condizionamenti e le convenzionalità.