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Le intuizioni che, sorprendentemente, prendono corpo
di Angela Demattè

Una lunga testimonianza dell'autrice che, con il testo "Avevo un pallone rosso", ha vinto l'ultima edizione del Premio Riccione per il teatro.

IX scena
26 luglio 1969, giorno della laurea
Sera. Prima di cena. Appena tornati dalla laurea. Margherita sta riguardando la sua tesi, sta mettendo via delle cose. Il Padre entra, ha bevuto un po’, è su di giri. Ha in mano un calice.

Padre: ‘Sa fat po’? No pòdet far doman ste robe chì…? (si siede, beve)
Margherita: No hat bevù en po’ de masa?
P.: Sì ben… forsi… tra che son content… tra che m’è vegnù n’agitazion… Cosa t’elo vegnù en ment de far quei gesti davanti ala comision (gesto pugno chiuso)…
Lì per lì m’è vegnù paura che no i te desa la laurea. Ma la mama la m’ha spiegà che ‘na volta che i te dà el voto basta, l’ei fata… (beve) Che facia che i ha fat! Specialmente quel en mez, che el par en po’ da l’altra banda …
M.: Alberoni
P.: Sì eco… èlo de l’altra sponda quel lì?
M.: Anzi, papà, al contrario…
P.: Sarà la maniera de vestirse?
M.: L’è en po’ particolare…
P.: Ben ensoma, l’ha fat ‘na facia…
M.: Endò s’ela fermada la mama?
P.: No set contenta?
M.:… (continua a riporre le cose…)
P.: Te me pari en po’ sversa.
M.: Son straca.
P.: Enmagino ben (pausa) Me son empresionà proprio.
M.: Madonega papà! Ho capì che l’è en po’ strano el profesor…
P.: Disevo che me son empresionà de ti! De la parlantina che te g’avevi con quei profesori…
M.: Avevo studià papà.
P.: Sì ma, ‘nsoma, bisòn anca eser portadi, g’aver en talento…
M.: Pù che altro ho studià tant…
P.: Mi digo che stavolta te sei stada proprio brava!
M.: (pausa) Grazie papà.
P.: (silenzio)
M.: (silenzio)
P.: E adesso?
M.: Adesso spetàn che ariva la mama e dopo naren a magnar…
P.: Ma no, digo adeso dopo…
M.: …po’, tra qualche dì, pensaven de nar al santuario de san Romedio
P.: Come mai?
M.: Così…
P.: (pausa) Ven anca el Renato stasera…?
M.: La mama la m’ha dit de envidarlo.
P.: Credo ben. Ghe mancherìa. (fa per andare) Alora vago a veder se bisòn far…
M.: Me domandavo se te podevi vegnir anca ti a san Romedio.
P.: A far che po’?
M.: A portarme a l’altar.
P.: (pausa) No ho capì.
M.: Digo se te me compagneresi a l’altar.
P.: (pausa) No ho capì.
M.: Digo che aven deciso de sposarne papà.
P.: (silenzio)
M.: Alora?
P.: La mama ‘sa dìsela?
M.: L’ei contenta.
P.: Ah
M.: Alora?
P.: ‘Sa vot che te diga?
M.: … Se te sei d’acordo.
P.: No.
M.: Ah
P.: E anca se te digo de no?...
M.: Me dispias…
P.: … Cambiet idea?
M.: No.
P.: Alora?
M.: Me dispias che no te sei content.
P.: Cosa t’importa se no son content… Tanto avé fat tut da soli…
M.: Se te l’avesa dit prima t’averesi dit de sì?
P.: (pausa) No so.
M.: Alora?
P.: Alora t’hai zà deciso, no?
M.: Sì.
P.: (pausa) Avè zà sistemà tut?
M.: Sì. El primo de agosto ale zinque e meza.
P.: De matina?
M.: Sì.
P.: E perché si presto?
M.: Voleven ‘na roba tranquilla… e riservata.
P.: Perché i vòsi “compagni” no i se nascorza masa …
M.: Varda che aven pensà anca a voialtri quando aven deciso de sposarne en cesa…
P.: Perché gh’era anca el dubio de farlo en de n’altra maniera?
M.: …ma zerto che anca mi ghe tegnivo… ma el Renato l’è stà bravo… perché fusa stà per elo…
P.: Alora ringrazia tant el Renato per el sforz.

(silenzio)

P.: E dopo? Digo dopo che aven fat ‘sta paiazada a san Romedio?
M.: Va ben, se alora te la meti così… (fa per andare)
P.: (duro) Sta chì e ascolta matelota.
M.: Ma se no te tòi sul serio gnanca el mé matrimonio, ‘sa vot che te diga del rest?
P.: (silenzio)
M.: (silenzio)
P.: Endò pensà de nar?
M.: A Milan.
P.: Subito?
M.: Pensaven de far en viazo al mare e po’ de nar a trovar la mama del Renato a Londra… dopo g’aven qualche amico che ne procurerìa n’alogio a Milan.
P.: Già tutto organizzato.
M.: Più o meno.
P.: E come pénselo de mantegnìrve el Renato…
M.: G’aven zà qualche contatto per dei lavori…
P.:… co le lotte operaie?
M.: No preocuparte che no vegnirén a domandarte i soldi a ti.
P.: Ma cosa c’entra Margherita! Poderò ben preocuparme del futuro de me fiola! O sonte masa borghese!...
M.: Ma perché no te te fidi!
P.: … sònte masa borghese se no voi che me fiòla la faga ‘na vita da fam per nar drìo a chissà cosa… a chissà chi…
M.: Papà, fidete de mì per ‘na volta!
P.: (pausa) Ma coreva far le robe sì ‘mpresa? G’avevet si vòia de scampar?
M.: (pausa, con una certa aria superiore, buffa involontaria) Bisòn che nénte , papà.
P.: (la guarda, non val più la pena di parlare) Sì sì, è ora di partire

(in questo silenzio non c’è più dialogo, i due punti di vista non riescono più ad entrare in contatto, il Padre comincia a canticchiare una canzone degli alpini- “Bersagliere ha cento penne”- chissà per quale ricordo…)

M.: (lo ascolta, fa per andare)
P.: (interrompe per un attimo la canzone, la ferma) El pret l’avé trovà?
M.: Sì
P.: Dighe a la mama che g’ho bisòn de en vestì novo .
M.: Bon
P.: (riattacca a cantare)
M.: Grazie papà (và)

Questa era la IX scena di “Avevo un bel pallone rosso”, l’ultima parte del testo che si svolge a Trento, in casa Cagol. Poi l’azione si sposta a Milano e altrove. I personaggi di questa scena sono gli stessi di tutta l’opera: Margherita Cagol e suo padre.
“Avevo un bel pallone rosso” è l’inizio di una filastrocca per bambini che dice così:

“Avevo un bel pallone rosso e blu, che era la gioia e la delizia mia.
Si è rotto il filo ed è scappato via, in alto in alto su sempre più su.
Son fortunati in cielo i bimbi buoni, volan tutti lassù quei bei palloni”.

Ho appena finito di scrivere “cielo” e mi viene in mente che so che si scrive “cielo” e non “celo” perché alle scuole elementari la maestra ci diceva che “cielo” è quello azzurro con le nuvole mentre “celo” è quello per portare il latte. Nel mio dialetto secchio si dice “cèlo”.
Tante altre parole nel mio dialetto sono diverse dall’italiano. E perciò le cose, per me, hanno avuto nomi diversi quando ero piccola. La mia lingua materna è il dialetto. La mia lingua materna e paterna. Poi la maestra mi ha insegnato l’italiano. La maestra e mia sorella maggiore, che non voleva che a scuola facessi brutta figura.

Io mi chiamo Angela Dematté, ho 29 anni e vivo a Milano. Mi è stato chiesto di parlare di me e delle ragioni che mi hanno portato a scrivere questo testo. Cerco di farlo nel modo più semplice, interessante e simpatico possibile. Spero che uno di questi tre aggettivi si addica a quanto sto per dire.

Ma torniamo alla filastrocca.
Questa filastrocca Margherita Cagol l’aveva scritta su un foglio per regalarla a suo padre. L’ho vista con i miei occhi. La conserva ancora sua sorella Milena, nella casa dove abita, a Transacqua, una frazione di Fiera di Primiero. Quando l’ho vista mi sono commossa. Ero convinta che l’avesse inventata lei. Poi Paravidino (proprio lui, Fausto Paravidino) il giorno della consegna del Premio Riccione mi ha detto che sua madre, che era trentina, gliela cantava sempre. Mi è un po’ dispiaciuto perché mi avrebbe fatto piacere che Margherita avesse scritto di suo pugno una filastrocca per il suo babbo. Soprattutto perché è il titolo del mio testo e io non ne avevo l’esclusiva. D’altra parte di poche cose si ha l’esclusiva. Si vorrebbe sempre essere originali. Nostro malgrado.

Ma torniamo alle ragioni che mi hanno portato a scrivere il mio testo.
Essendo il mio primo testo devo prima andare alle ragioni che mi hanno portato a scrivere.
Perciò tralascerò il mio curriculum ufficiale d’attrice e andrò ai primordi, all’infanzia, al non detto.
Mi è sempre piaciuto il teatro. Veramente all’asilo volevo fare la pittrice. Ero bravina nel disegno. Ma un giorno feci un disegno per un’amica di mia madre e lei mi disse che era brutto. Ci rimasi talmente male che cominciai a pensare di non essere capace di disegnare. Meglio così. Sarei stata una pittrice fallita.
Il guaio è che ero timida. Patologicamente timida. E piangevo sempre. Mia sorella gemella era estremamente spigliata e simpatica. E io la frenavo. Ero una bambina insopportabile, credo. Perciò assolutamente non capisco come mi potesse piacere un posto dove bisognava mettersi in mostra. Neanche gli altri lo capivano. Alcuni se lo chiedono anche ora. Eppure letteralmente impazzivo per il teatro. Mi innamorai a 6 anni. Del teatro. Ho chiaro il momento preciso. Il primo spettacolo che vidi. Uno spettacolo di clownerie. Un clown era sceso dal palcoscenico con un attaccapanni e passava tra il pubblico. Lo ricordo come fosse adesso. Non mi ricordo perché. Qual’era lo spettacolo. Mi ricordo una magia. Qualcosa di nuovo. Da quel momento è partito l’innamoramento. Qualcosa di nuovo nella realtà. L’innamoramento. Poi li ho conosciuti questi clown, li ho tampinati a lungo ed è grazie a Bano Ferrari ( quel clown con l’attaccapanni) che mi sono trasferita a Milano etc. etc. Ma questo fa già parte del buon vecchio curriculum d’attrice.
Questi clown li aveva portati nel mio paese il nostro parroco, don Guido Zendron (che adesso è in Brasile ed è diventato vescovo). Ogni anno organizzava un piccolo festival di teatro per ragazzi e così vedevamo, ogni estate, cinque o sei spettacoli di compagnie che venivano da tutta Italia. Per me questo era il teatro. Il teatro “vero” l’ho conosciuto molto tempo dopo. Mi vergogno a dire che conobbi l’importanza di Strehler la notte in cui morì (avevo già 17 anni), perché rimasi tutta la notte davanti alla tv a guardare i suoi spettacoli.
Eppure, ugualmente, posso dire che conobbi cos’era il teatro. Qualcosa che fa parte della realtà ma che introduce qualcosa di speciale. Degli uomini e degli oggetti che diventano speciali. In quel momento.
Ma io il teatro volevo anche farlo. Mi vergognavo a morte ma volevo farlo. Mi vergognavo perché non mi ritenevo all’altezza. Però ero tanto innamorata! Perciò cominciai a scrivere delle “scenette” per me e le mie amiche. Ma poche di queste andavano in scena…
Senz’altro i giochi legati al teatro erano i nostri preferiti. Più di nascondino o strega comanda colore. Ci sedevamo sulla panchina e ognuno doveva mettere in scena una barzelletta.
Il problema, sempre, è che io ero timida. L’improvvisazione non mi riusciva bene. Nell’improvvisazione non si può essere perfetti. Nella scrittura era più semplice arrivare ad un risultato preciso. Perciò quando scrivevo ero più tranquilla. Ma, alla fine, da sola, non ero felice. A fare le cose da sola non ero felice. Ma con gli altri ero timida. Perciò la mia vita era piuttosto complicata. Pensavo troppo e dicevo poco. E mi incasinavo.
Quando finalmente ho capito che era più importante essere felici che perfetti allora ho cominciato a fare veramente l’attrice e a scrivere con gusto. Ma questo è successo molti molti anni dopo.

Alle superiori entrai nella filodrammatica del mio paese. Il mio paese si chiama Vigolo Vattaro, ha circa 2000 abitanti ed è la città natale della prima santa brasiliana. Mio padre è il fabbro-idraulico del paese e la nostra famiglia ha il soprannome di Colombi. Ciò vuol dire che nel mio paese io sono “la fiòla del Colombo”. Così come gli altri miei sei fratelli.
Ho fatto parte della Filodrammatica e ho suonato la tromba nella banda per cinque anni. Finché non mi sono trasferita nella grigia Milano, che adoro. Da lì il lavoro e poi l’Accademia e poi il teatro quello vero e gli incontri significativi, quelli che cambiano la prospettiva: Piera Degli Esposti, Lucilla Morlacchi e Peter Clogh etc etc…
Penso sempre che il nostro mestiere è come la vita all’ennesima potenza. Perciò anche gli incontri. L’importante è costruire una casa sulla roccia in modo da non farla spazzare via dal vento. Allora si può assorbire ed essere cambiati dagli incontri, senza perdersi. Ma questo l’ho imparato col tempo. Ed ora mi vergogno molto meno.
Ora faccio l’attrice e ho ricominciato a scrivere, come facevo da piccola.
Quando fantasticavo sogni magnifici di messinscena. Ora, però, alcuni si concretizzano su un quadernino. Alcuni sulla scena. E c’è un gusto eccezionale nel vedere come le intuizioni prendono corpo e trovano corrispondenza negli altri.

Da ciò, da quanto ho raccontato, forse, è nata la fissazione per Margherita Cagol. E per il rapporto tra Padre e figlia.
Inizialmente avevo l’idea di fare un parallelo tra Margherita da Trento ( la compagna di Fra Dolcino, eretico del trecento, torturata e morta con lui) e Margherita Cagol.
Mi sembrava estremamente “originale”che in Trentino fossero nate due Margherite, entrambe “fuggite”con il proprio compagno per fare una rivoluzione.
Per fortuna ho capito presto che era un’idea veramente troppo epica e che aveva molto di “originale” e poco d’ interessante. Perciò ho sacrificato tutto il materiale di studio su fra Dolcino etc. etc. e mi sono concentrata su Mara Cagol etc. etc.
Questa fissazione è partita qualche anno fa. Ma l’idea di mettermi lì, davanti ad un foglio o ad un computer, mi faceva paura. È difficile scrivere per il teatro. Perché quello che si scrive deve essere recitato. Tanto più se la parte di Margherita la volevo recitare io.
Poi ho cominciato a leggere la drammaturgia spagnola grazie ad un corso organizzato all’Accademia dei Filodrammatici. A parte Sinisterra e tutti i catalani (Sergi Belbel etc..), devo dire che chi mi ha colpito è stato Juan Mayorga. Un drammaturgo eccezionale. Ho riletto tre volte “Siete hombres buenos” (che pure è uno dei suoi testi più vecchi…). Ma tralascerei una cosa importante se non parlassi anche de “La festa” di Spiro Scimone, che avevamo messo in scena all’Ensatt di Lione con la regia di Bruno Fornasari.
Questi autori mi avevano fatto venire la voglia di scrivere. Di stare nelle situazioni con l’occhio di scrittrice. Non so come dirlo in altra maniera. Drammaturghi che rispondono alla struttura del dialogo del nostro mondo (spesso sconnesso, frammentato) ma che riescono a portarne l’essenza sul palcoscenico. E, in più, riescono a restituirci quella “parola agita”, che noi attori desideriamo più di ogni altra cosa.
Questo, dal punto di vista drammaturgico, quanto mi prefiggevo nella scrittura.

Dal punto di vista del contenuto ( che è quanto più ci interessa) le domande da cui partivo erano:
“Come mai una donna, cresciuta in ambiente cattolico e con una grande fede cristiana arriva a fondare le Brigate Rosse?” e “ Le Brigate Rosse hanno perseguito coerentemente l’ideologia comunista o sono stata una sua deriva?”, infine (pensando ad Eliot) “Com’è stato possibile, nel ’68, pensare di creare un sistema ‘talmente perfetto in cui non sia necessario essere buoni’?”.
Queste erano le domande da cui partivo e a cui ho cercato di dare risposta. Per questo ho letto molto e soprattutto ho incontrato persone che quel periodo l’avevano fatto con le posizioni più diverse: innanzitutto Renato Curcio, con cui mi dispiace di aver un po’ barato non dichiarandogli apertamente il mio interesse specifico per Margherita; Aldo Brandirali, che con occhi di cattolico mi raccontava il suo passato maoista; don Roberto Marchesoni, che ha vissuto drammaticamente quel periodo, da sacerdote trentino legato alla tradizione e non al comunismo. E poi tanti altri, che mi spiegavano la concretezza di quell’ “utopia”, così lontana (ma così vicina!) dalla mia generazione e dal nostro periodo storico. E mi raccontavano di quel “parlare solo dicendo “noi” e mai “io”. Dell’inganno del comunismo che ha portato al nostro estremo individualismo…”.

Per il resto (e credo sia la parte più interessante del testo perché è maggiormente universale) volevo mettere in scena un rapporto tra un padre ed una figlia. Un rapporto fatto di cose concrete, di silenzi, di comprensioni non dette e di incomprensioni esplicitate. Volevo che fosse in dialetto perché il dialetto è una lingua che non mente e che limita il linguaggio alle cose essenziali. Soprattutto un dialetto come quello trentino. Volevo far sentire come il linguaggio ideologico fosse stridente rispetto alla concretezza del dialetto. Per questo, nella seconda parte del testo, Margherita parla solo italiano.
Volevo, forse, semplicemente esplorare un momento storico che conoscevo poco e dal quale la mia generazione proviene. Si dice che bisogna conoscere gli errori del passato per combatterli. Ma credo sia utile farlo per cambiare qualcosa di se stessi. Altrimenti è un’operazione estremamente noiosa.

Che bel lavoro il nostro. Esplorare gli uomini e i loro rapporti per inventarne di nuovi.
Poi c’è la “costruzione” artigianale della struttura e dei dialoghi. Il lavoro col martello e poi col cesello. Da fare pian piano. Con pazienza.

Ho scoperto da poco che la mia famiglia lavora col ferro da 400 anni. Sogno di essere un artigiano altrettanto abile.