Torna al sommario

Teatro: femminile plurale
di Maria Dolores Pesce

Inizia, con l'intervista a Ermanna Montanari, un mio percorso che incontra, o meglio vuole intercettare ed attraversare, il teatro al femminile. Può sembrare, questo, in un certo senso anancronistico, o fuori tempo massimo, nel momento in cui l'immaginario sia maschile che femminile è dominato da paradigmi regressivi che, sintetizzabili nella relazione massmediale dominante della velina e del calciatore, ben poco hanno a che fare con le tensioni di revisione e ribaltamento che negli anni 60 e 70 ci hanno, a volte con punte forse eccessive, intensamente occupato. D'altra parte proprio l'emergere involutivo ed egemonico di tale più recente immaginario, impone uno sforzo ulteriore e più consapevole di approfondimento che vada a riguardare l'immagine che uomini e donne hanno di sé stessi e, conseguentemente, quella che l'una ha dell'altro e viceversa. Anche perchè, all'interno di quella, pare di assistere alla traslocazione parodica e farsesca (come uso della storia che si ripete) di quella rimozione del femminile come elemento di dissonanza e liberazione, ed il suo imprigionamento nelle forme misogene e mascherate della femme fatale, della lotta dei sessi e della perversione del principio amore e morte che ha caratterizzato molta della cultura, anche la più innovativa, del novecento, alla luce della messa in discussione, sociale ma anche interiorizzata fin nei recessi dell'inconscio emergente con Freud, del principio di predominanza maschile. Ma volendo e dovendo restare nell'ambito dlla drammaturgia questa intenzionalità è una intenzionalità che, pur in quel quadro più ampio, si articolerà in via prevalente nella curiosità verso quelle forme eccentriche che spesso il teatro declinato dalle donne assume sia dal punto di vista recitativo che da quello narrativo o specificatamente drammaturgico, anche 'oltre' i più facili riferimenti contenutistici inerenti il ruolo e la condizione di genere. Programmaticamente, poi, la stessa assume le forme di un incontro con alcune importanti soggettività del teatro italiano contemporaneo, attive non solo come attrici, registe o drammaturghe ma altresì come operatrici in senso più lato nel e del teatro, come ad esempio tecniche o addette stampa. Inizio, come detto, con una conversazione con un'attrice e drammaturga che, come il Teatro delle Albe, ha ben poco bisogno di presentazione, Ermanna Montanari, conversazione incentrata sulla sua ultima fatica, come protagonista in scena e come drammaturga, quella Rosvita in cui l'elemento creativo della medioevale monaca tedesca, “la squillante voce di Gandherseim” come si autodefinisce, appare in sé portatore di una problematica di ribaltamento ed eversione, che, come sottolinea la stessa Ermanna, va oltre il “genere” per significare una più ampia riscoperta e significazione esistenziale e culturale. Ermanna, che con questo testo ha meritatamente ricevuto il premio UBU, evidenzia come il principio femminile costituisca non solo e non tanto elemento di diversità e contrapposizione, ma piuttosto un fecondo 'lievito' di senso per l'espressione, non solo artistica e drammaturgica, molto più universale di quanto si voglia riconoscere. Non a caso il suo prossimo impegno, che quasi rammemora analoghe prove di grandi attrici del secolo scorso, è una recitazione 'en travesti' quale protagonista dell'Avaro di Molière.

Ermanna, con “Rosvita” tu hai ri-portato alla ribalta la sapienza e l'esperienza di quella che è considerata, in un certo senso, la prima drammaturga europea. In questa tua scelta quanto ha inciso l'interesse per l'esperienza letteraria e quanto quello per la sapienza femminile?

"Non riesco a distinguere tra le due cose. Non posso. Come separare in Dante la sapienza poetica dall'arditezza della visione teologica? Il costruttore di terzine dall'innamorato della verità? La poesia non è mai applicata al nulla, non è mai astrattamente pura, si impasta sempre con le ossessioni, il fango di una vita. Di Rosvita mi commuove il suo ragionare sul mondo, lucida e entusiasta, il suo svelare la crudeltà del potere, l'innocenza delle vittime. "

Nel medioevo il soggetto religioso spesso serviva per giustificare, per rendere possibile il teatro, pur considerato immorale. Rosvita realizza consapevolmente un tale progetto che in un certo senso è esplicitato nella lettera ai saggi che precede i suoi scritti. Per te questa lettera è un segno di forza oppure un esercizio di ipocrisia e quindi di debolezza?

"Nessuna ipocrisia o debolezza, se si pensa che Rosvita in quella lettera si autodefinisce "la squillante voce di Gandersheim". Semmai c'è l'astuzia di chi si sa sottomessa, e nello stesso tempo capace di parlare ai superiori rivelando loro cose che loro non vedono, non possono o vogliono vedere. Brecht parlava della "lingua degli schiavi", in grado di aggirare il potere e i suoi muri."

A partire dai testi Terenziani, molto materialistici o fisici, Rosvita sembra indugiare, oltre lo schermo del percorso mistico e di salvazione, con una certa insistenza nella descrizione di torture e sofferenza fisiche, tanto da meritarsi l'interesse di Antonin Artaud. Pensi anche tu che in quel procedimento drammaturgico si nascondesse già la necessità o l'idea di un teatro di verità e quindi “crudele”?

"Credo proprio di sì. Così come in Aristofane già si trova tutta la concezione irridente e patafisica di Alfred Jarry. Aristofane non enuncia la patafisica, Aristofane semplicemente è patafisica. C'è sempre bisogno di rinominare le "cose", questo fanno gli artisti-teorici e soprattutto nel Novecento, quando l'urgenza di trasformare la visione artistica non si incarna solo nell'opera, ma abbisogna di un nuovo armamentario di concetti e di idee. E poi, rispetto a Rosvita, quale teatro di verità più necessario per lei di una scena che evochi la Verità con la maiuscola, l'ombra del Sole divino?

Nel tuo travestimeno letterario e drammaturgico, in effetti, sembri prediligere, in una sintassi dall'equilibrio classico, un linguaggio piuttosto piano, una sorta di Koinè priva di retorica, che avvicina e attualizza l'espressione. Cosa c'è alla base di una tale scelta?

"Volevo incuneare il più possibile le sue tensioni spirituali alla nostra condizione. Non tradirla, ma tradurla. Rosvita è un fantasma che continua a parlarci. E il teatro in questi casi è anche commercio di fantasmi."

Invece nella tua trascrizione scenica privilegi, come di consueto, una raffinata scenografia sonora che ha al centro una sorta di peripezia della tua voce fino ad occupare ogni spazio e a trasfiguare quasi la stessa lingua letteraria. Penso che ci sia un rapporto tra ciò ed il senso più intimo del teatro della 'crudeltà'. Tu condividi un tale approccio?

"La voce, la voce, la voce. Niente di più crudele, di più esigente. Un abisso. Com'era la voce di Rosvita? Quella delle sue "sorelle", che insieme a lei recitavano i suoi drammetti? Com'erano le voci dei superiori, gravi e legnosi, grassocci e sorridenti, che magari una volta all'anno stavano ad ascoltarle? E la voce dell'imperatore Ottone, che anche lui sicuramente le avrà parlato, visto che Rosvita viveva in un monastero legato alla corte? Tutte quelle voci, perdute nei secoli, all'interno di quelle mura, mi risuonano dentro e non sono poi così diverse da quelle di oggi. Non sono io a ricrearle, sono loro che mi attraversano, che chiedono di uscire allo scoperto."

Anche in Rosvita mi sembra che la tua recitazione punti al disvelamento in scena dei significati nascosti nel testo e nella stessa regia, utilizzando gli elementi che quello e questa mettono a tua disposizione. Non ti sembra che Rosvita abbia compiuto, utilizzando i testi di Terenzio, un'analogo intervento rispetto agli unici temi che allora poteva manipolare, quello dell'ascesi e della purificazione?

"Rosvita si vergogna di Terenzio, oppure se ne impossessa. Anch'io ho sempre provato un misterioso sentimento di vergogna nell'andare in scena, eppure mi ci ficco ogni volta."

Ovviamente le protagoniste di questo viaggio verso la purezza, sono in Rosvita tutte al femminile, quasi che solo loro dovessero purificarsi in quanto portatrici e custodi del peccato. Questo aspetto ha inciso nella tua scelta iniziale e nella successiva tua trasformazione del testo ovvero nelle modalità della trasposizione nello spazio scenico?

"Non credo che la questione stia nel maschile o nel femminile. La questione è la vittima, il sopruso, la figura crucis. Sulla croce può starci un bambino, un vecchio, un asino, una prostituta. Cristo, il Dioniso sofferente, è in tutti, salva tutti."

A mio modo di vedere una grande attrice del passato come Eleonora Duse ha compiuto, non so quanto inconsapevolmente, una operazione di questo genere quando attraverso la sua recitazione intuiva e approfondiva il senso di oppressione e sofferenza incorporato in molti dei personaggi femminili del teatro 'borghese', ribaltandoli e così liberandoli in scena. Una operazione che mi appare di 'sincerità' e 'crudeltà' insieme. A questo riguardo pensi che per te e per l'attore in genere sussista ancora uno spazio di autonomia e scoperta nel e del personaggio, al di là del testo e della stessa regia?.

"Io vivo in quello spazio. Se non esistesse, non mi considererei un'attrice. Un'attrice è per me una creatrice, sullo stesso piano di dignità e di forza di un drammaturgo e di un regista. Quello che può dare al mondo il gesto, la carne di un attore, non c'è testo o regia che possa sostituirlo."