Era il 1967. Eduardo stava preparando, al vecchio San Ferdinando, Il figlio di Pulcinella, una commedia di Scarpetta nella quale avrebbe debuttato il figlio Luca che, per l’occasione, si sarebbe chiamato Luca Della Porta. Eduardo voleva gente esperta, attori professionisti che potessero sostenere ed aiutare Luca in questo battesimo teatrale. Accanto a Giustino Durano, Linda Sini, Annamaria Ackermann, Gianni Crosio e Anna Walter, fu quindi chiamato un altro attore napoletano di provata esperienza e di autentica qualità artistica, Gino Maringola, che ancor oggi, a ottantasette anni e dopo una vita artistica brillante e ricca di successi, ricorda il primo incontro con il grande Eduardo lasciando che l’emozione invada la memoria e che il ricordo gli restituisca la trepidazione del cuore provata trentasette anni fa: «fui chiamato da Carlo Argeri, amministratore della compagnia Il Teatro di Eduardo, il quale mi disse che il Direttore voleva vedermi e mi chiese se mi sarei potuto recare, l’indomani, al San Ferdinando. Ovviamente dissi di si, e il giorno dopo andai all’appuntamento con il cuore in gola. Eduardo mi accolse con amabilità e il regista Gennaro Magliulo, che era li con lui, mi spiegò di cosa si trattava. Accettai». Gino Maringola -di cui i più ricorderanno, soprattutto grazie alle registrazioni RAI, la splendida interpretazione offerta, in “Natale in casa Cupiello”, nel ruolo di zio Pasquale, fratello nevrotico e parassita del protagonista, Luca Cupiello– è uno degli ultimi testimoni di quella genia di attori la cui cultura teatrale si fondava, innanzitutto, su una tecnica consolidata -che permetteva loro di spaziare, dal comico al drammatico, senza grandi difficoltà e di affrontare diversi stili recitativi- cui si accompagnava, nel caso del genere comico, uno straordinario senso dell’improvvisazione e della battuta immediata, capace di dar vita ai lazzi più vertiginosi, mai però gratuiti o lasciati al caso. Un senso dell’improvvisazione che traeva diretta ispirazione dall’antica tradizione della Commedia dell’Arte. Facevano parte di quella stirpe attori come Raffaele Viviani, i De Filippo, Salvatore De Muto, Luigi De Martino, Nello Ascoli, e ancora Ugo D’Alessio, Tecla Scarano, Luisella Viviani.
Maringola, nato il 17 Novembre del 1917 «ma dichiarato all’anagrafe il 13, per bilanciare le eventuali disgrazie», come racconta egli stesso, ha dedicato l’intera vita al teatro. Dopo i primi passi nel mondo dello spettacolo, mossi nel 1936, passò al Teatro Apollo come cantante, e soltanto l’incontro con Eugenio Fumo, che aveva una compagnia dove si formarono molti attori importanti dell’epoca, ne fece un attore. Gli anni difficili del dopoguerra vennero ricompensati, più tardi, dai successi ottenuti nelle compagnie di Nino Taranto e, come detto, di Eduardo. E proprio del suo rapporto con il grande drammaturgo, accanto al quale ha lavorato per quindici anni, ma anche di Eduardo come uomo, come capocomico, di aneddoti sul periodo della sua permanenza nella compagnia del grande attore, abbiamo chiesto di parlarci.
Dopo l’esperienza di Il figlio di Pulcinella, che vide il debutto di Luca De Filippo, quali furono i suoi rapporti con Eduardo?
Dopo quella commedia, Eduardo mi fece chiamare da Gennaro Magliulo per propormi di andare con lui in tournée a Leningrado. Io, però, ero già impegnato, stando lavorando con Nino Taranto ne “Lo Sposalizio” di Viviani. Quindi, pur a malincuore, dovetti rinunciare.
E come la prese Eduardo, che certo non doveva essere abituato a sentirsi rispondere con un rifiuto?
Dopo qualche anno, per la precisione nel ’72, Eduardo mi fece telefonare da Carlo Agnesi. Voleva che io andassi al San Ferdinando perché doveva parlarmi. Fu un momento indimenticabile. Finalmente mi voleva nella sua compagnia stabilmente. Io, a dire la verità, conoscendo la sua suscettibilità, un po’ in mala fede avevo pensato che si fosse dimenticato di me, a causa del mio precedente rifiuto. Invece, voleva affidarmi il ruolo del dottor Fabio Della Ragione in “Il Sindaco di Rione Sanità”, un personaggio molto importante e molto difficile, come sottolineò lui stesso.
E come andò?
Debuttammo al Teatro La Pergola di Firenze e fu un trionfo. Nonostante le voci sul suo conto fossero poco confortanti –si diceva che mortificasse gli attori– in un primo tempo tutto andò bene ed era addirittura prodigo di consigli. Poi le cose mutarono bruscamente. A Firenze, il pubblico ha l’abitudine di recarsi nei camerini per chiedere fotografie e autografi agli attori. Il mio camerino era meta di troppe richieste che furono la mia rovina.
Perché cosa successe?
Cominciò per me un vero e proprio calvario. Se, durante i primi quindici giorni, Eduardo non mi aveva mai rimproverato per un errore anche minimo, da quel momento non ci fu sera che non mi chiamasse nel suo camerino per dirmi qualcosa di spiacevole. Non ebbi più pace. Una sera, poi, le cose precipitarono. Sul finire del terzo atto, Antonio Barracano –il personaggio di Eduardo– ferito a morte da una coltellata, parla ai guappi presenti ad una tavolata per spiegare che la sua è stata una missione. Ad un tratto, io che sedevo vicino ad Eduardo, alzo gli occhi verso di lui e vedo i suoi fissarmi in modo strano. Sempre fissandomi, Eduardo prende un piatto dalla tavola e lo scaglia a terra. Fu come se l’avesse rotto sulla mia faccia. Quando dietro le quinte chiesi spiegazioni, mi rispose “Voi in scena mi avete detto un Don Antonio in più”. Era fatto così, bastava una battuta fori copione per contrariarlo.
E lei come visse quel periodo, non si ribellò mai?
Ovviamente lo vissi malissimo, ma lo ascoltavo sempre perché lui era un grandissimo direttore. Comunque, io non accettavo di essere trattato così, quindi decisi di tirare avanti finché non fosse finita la stagione e poi di andarmene. Infatti, per l’anno successivo, non rinnovai il contratto e tornai con la compagnia di Nino Taranto, con cui mettemmo in scena “Mestiere di padre” di Raffaele Viviani, una commedia per la quale ebbi due ruoli. Con Taranto mi sono sempre trovato molto bene.
Come avvenne il suo ritorno nella compagnia di Eduardo?
Nel ’74 lavoravo per la RAI di Napoli. Li, mi chiamò al telefono e mi propose di interpretare la parte del Maggiore Cannone in “Na Santarella”. Obiettai che quello era un ruolo che era stato sempre sostenuto da un attore con precise caratteristiche fisiche, con la pancia prominente per intenderci. Ma lui mi disse che aveva bisogno di un fuoco d’artificio, di un attore che fosse soprattutto un parlatore. Fui lusingato e accettai.
E questa volta come andò?
“Na Santarella” debuttò e fu un trionfo all’Eliseo di Roma. Da quel momento, cominciò una stima e una comprensione reciproca. Lui apprezzava la mia volontà di fare sempre meglio, il mio impegno professionale durante le prove e in scena. E io lo ripagavo. Iniziava un sodalizio che doveva durare per più di due lustri.
Lei, sia durante questa nostra chiacchierata che nel suo libro “Attore, il mio mestiere” conferma la suscettibilità e la durezza del carattere di Eduardo, pur tessendone le lodi come direttore. Com’era il rapporto con gli altri attori?
Aveva certamente un carattere ombroso, tutto sfaccettature, ed era sempre alla ricerca della perfezione. In questo modo, aveva schiavizzato prima se stesso e poi anche gli altri. Voleva il meglio dagli attori che dirigeva e, se un attore, che lui riteneva all’altezza, non gli dava quello che voleva, lo mortificava fino a farlo rendere al massimo delle sue possibilità. Però, bisogna riconoscere che le durezze di un direttore eccezionale, come lui era, servivano a sgrossare e a limare i personaggi. Questo faceva si che gli spettacoli fossero sempre di qualità eccezionale. Ovviamente,. c’era chi rispondeva positivamente a queste sollecitazioni e chi, invece, cedeva.
Lei ha interpretato tanti lavori di Eduardo. Quali preferenze ha, se ne ha, rispetto all’autore?
Ho sempre preferito commedie come “Il sindaco di rione sanità”, “Il contratto”, “Le voci di dentro”, “Gli esami non finiscono mai”, cioè lavori cerebrali, dove è presente un grosso scavo psicologico dei personaggi. “Natale in casa Cupiello”, poi, è tanto amata perché è un esempio di come dalla comicità possa sgorgare la tragedia.
E a quale personaggio si sente più legato Maringola?
Il personaggio che mi è più caro è Pasquale Cimmaruta in “Le voci di dentro”, un personaggio che mi sono portato dentro per anni, attaccato come una seconda pelle. Anche quando facevo altri lavori, Cimmaruta non mi abbandonava mai.
Si commemora il ventennale della morte di Eduardo. Come vede la situazione teatrale napoletana un attore che ha vissuto la storia del teatro del ‘900?
Non positiva. Certo, secondo me, non ci potrà mai più essere un attore che sia capace di dire tutto con quella faccia sofferente, come faceva Eduardo. Spero soltanto che il San Ferdinando, dove anch’io ho imparato il mestiere di attore, possa tornare a nuovo splendore.
Il teatro le ha dato tanto e lei ha dato tanto al teatro. Ma se tornasse a rinascere, Maringola farebbe ancora questo lavoro?
Se dovessi ricominciare, con tutte le sofferenze, le privazioni, la fame, lo farei di nuovo. Perché il Teatro è tutto, e me lo porto dentro, come un’amante che non muore mai.
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