A CENTO METRI
una notte fuori

di

Roberto Traverso



Personaggi:

una donna


Notte fonda. Una strada nel centro di una città di provincia. Una donna avvenente sui quaranta, ma sembra molto più giovane, è seduta sul gradino di un palazzo, davanti a un portone.  E’ vestita in modo eccentrico, ma non volgare.  Una ciocca di capelli le copre il viso mentre fruga rabbiosa dentro la borsetta. Rovescia il contenuto sul gradino. Cerca disperatamente qualcosa.

Quante volte ho scritto: fare doppione mazzo chiavi. Le hai fatte tu?
Ma mi sta bene. Non posso continuare con questa testa. Prima o poi mi doveva capitare qualcosa.
Sono rimasta lì davanti al portone come un’oca.
Dico, per una volta che  mi fermo a Milano vado a perdere le chiavi.
Ho persino rovesciato la borsetta sul marciapiede. Niente.
Bisogna provare per capire.
Mi ci è voluto un quarto d’ora prima di riprendermi.
Lo so, perdere le chiavi è sempre un casino, ma quello era proprio il momento sbagliato.

(Ha un gesto di stizza)

Se lo vedo lo prendo a testate.
Non lo voglio più vedere quello stronzo.
Non ho nessuna intenzione di angosciarmi la vita per lui.
Anche sta cosa delle chiavi mi doveva succedere.
E’ da non crederci. Rimanere in mezzo alla strada, di notte.
Non dico di essere un tipo da orario ferroviario, ma una frana così non lo sono mai stata.  Perdo tutto, lascio le cose in giro. Quello che mi frega sono i tempi morti. Non bisognerebbe mai avere tempi morti.  Perché a me capita che se ho il vuoto davanti, mi perdo. Anzi peggio, mi viene un’angoscia che non riesco più a combinare niente. Ho bisogno di qualcosa che scandisca il ritmo, altrimenti vado alla deriva. Giovedì cinema,  martedì biblioteca, sabato supermercato, domenica scuola di ballo. Pronti via, come un intercity.
A volte invece quando torno la sera mi butto sul letto distrutta, guardo il soffitto e inizio a pensare. Basta un attimo a fregarti. Così allungo la mano sul comodino prendo un Tavor  e … fine delle trasmissioni.   L’importante è non fermarsi. Ma non si può programmare tutto.
Quello che è successo, ad esempio, non era programmabile.
Alle due di notte chiusa fuori casa. Cosa fai? Mica puoi svegliare il palazzo.  
Ho guardato sui campanelli, praticamente non conoscevo nessuno.
Allora, suono o non suono?
Figurati se aprono.
Sono capaci di chiamare la polizia, quelli.  
Suonare il campanello alle due di notte è da pazzi.
Non suono.
Secondo me le chiavi le ho lasciate in ufficio. Mi sembra di vederle, lì che aspettano in fondo al cassetto della  scrivania.  
Il fatto è che lavoro a Milano. Piazza Cadorna. Ramo immobiliare. Ma vivo a Pavia. Monolocale ammobiliato, zona stazione. Terzo piano senza ascensore.
Vivo sola ma non ho mai avuto bisogno di lasciare un mazzo a qualcuno.
Di solito sono una precisa. Non dimentico mai niente. Tranne che in questo periodo.
Tutta colpa di quello stronzo. Che senso ha? Siamo stati insieme tre mesi, un record. E dice che non ci conosciamo abbastanza.
Ma forse ha ragione lui.
Ho guardato l’ora. L’una e tre quarti.
Il regionale era anche stato puntualissimo.  Milano-Pavia in quarantacinque minuti esatti. Di solito non lo prendo mai. Mi fa paura viaggiare di notte. Non c’è su mai nessuno. E poi ci mette una vita. Fa tutte le stazioni. Ma proprio tutte. Rogoredo, Locate Triulzi, Pieve Emanuele, Villamaggiore, Certosa.  Se perdi quello c’è l’intercity, ma viene da Venezia e non è mai in orario. A quell’ora aspettare alla Centrale non è il massimo. Dopo non ci sono più treni fino alle quattro e trenta del mattino.
Ho preso l’agenda.
A chi potevo telefonare?
A mia madre no di certo.  E’ sorda e poi le sarebbe venuto un colpo.
Maschi, escluso.  Non era proprio serata.
Per le femmine è scattato un altro ragionamento. Lucy, no, ha i bambini piccoli. Nora, ha litigato con il marito. Che poi me la mena una vita. Katia, al giovedì va in discoteca. Non fa mai prima delle cinque. Con le altre non ho confidenza. Sarei stata in tremendo imbarazzo.
Bestiale quante poche persone conosci che vale la pena chiamare all’una e tre quarti del mattino.  Praticamente nessuna.  
Ho chiamato Angela, lei era a casa di sicuro.
Rispondere mi ha risposto, ma non era a casa. Ha detto che era in un locale, a Milano.   Infatti non si sentiva quasi niente
Ma da quando vai a ballare? Le ho detto.
E lei mi fa, non sto ballando.
Posso venire a dormire da te?, le ho chiesto.
Ma lei mi ha risposto che non tornava, che era con una sua amica, una nuova, che mi avrebbe raccontato tutto.
Io mica ci ho creduto, anche perché rideva, si capiva benissimo che stava con uno.  Ho perso le chiavi di casa, le ho detto, sono in un casino.   Sai lei cosa ha avuto il coraggio di dirmi? Perché non fai un salto qui?
A Milano? le ho detto. Ma tu sei scema. Poi non ci sono più treni. Molto meglio starsene in mezzo a una strada che tornare alla Stazione Centrale.
Pensare che c’è gente che ci vive in Stazione Centrale. Specie di notte. E’ uno di quei posti a ciclo continuo. Tra l’altro mi hanno detto che il market è aperto ventiquattro ore su ventiquattro.
Vuol dire che c’è gente che fa la spesa anche alle tre del mattino.
Mi sembra una cosa da pazzi.  Non vorrei proprio fare quella fine. Già sono esaurita di mio. Quando vado a far la spesa se non mi porto dietro la lista vado nel panico. Il market è uno di quei posti che mi manda in confusione, figurati di notte.
In ogni caso si erano fatte le due passate. E a quell’ora non me la sentivo più di svegliare  nessuno.
E’ stato lì che ho visto l’insegna.
Hotel Bellavista.
C’è sempre stata, ma non l’ho mai presa in considerazione.
Abitando a cento metri.
Quasi quasi vado in albergo, ho detto.
Per una volta si può anche fare. Non mi capita mai di passare la notte fuori. Tanto vale farlo in grande.
Per modo di dire, visto che l’Hotel aveva solo una stella, ma non mi sembrava il caso di fare la difficile.
(pausa)
Entro decisa.
Una singola, gli dico.
Bagaglio? Fa lui.
Niente bagaglio, dico io, e gli metto sul bancone la carta d’identità. Cosa me ne faccio del bagaglio, penso, sto a cento metri. Ma lui mica lo può sapere.
Oddio, sui documenti c’è scritto che abito qui di fronte.  
Lui prende il documento in mano e rimane lì a fissarmi.
Cos’ha da guardare?
Poi realizzo come sono conciata.  Lo sapevo che non dovevo mettere quella gonna. Non sono il tipo io per le gonne a portafoglio. Quando si sta tutto il giorno in giro è meglio sentirsi comode. Io invece ero a disagio.
Mentre aspetto cerco di sistemarmi la gonna e lui con un’occhiata mi cataloga. Non so in che categoria.  Forse quella delle donne suicide.
Allora, ce l’ha una stanza? chiedo.
Nei suoi occhi leggo la conferma: categoria donne suicide.
Per fare cosa? dice.  
Dormire, dico io. Vorrei dormire se non le dispiace.
Lui dà un’occhiata al quadro dove pendono le chiavi delle stanze.
C’erano tutte. L’albergo era vuoto.
Siamo al completo, dice.  
Ma se c’ha tutte le chiavi attaccate? mi viene da dire, però sto zitta e aspetto.
Finge di guardare sul registro.
Sono sola, dico.
Scuote la testa. Niente da fare.
Decido di dire la verità.  Abito qui, a cento metri, ma ho perso le chiavi.  Anzi le ho lasciate in ufficio. Lavoro a Milano. Deve anche avermi vista passare qualche volta. Prendo il treno la mattina alle otto e zero cinque e la sera torno con il regionale delle diciotto e quaranta. Stasera però ho fatto tardi.
Ho la sensazione netta che mentre  parlo, lui mi vede già morta.
Tutti i giorni avanti e indietro col treno, dico. Ha presente?
Ma lui non ascolta. E’ tutto concentrato a capire come mi suiciderò.
Ho dimenticato le chiavi nel cassetto della scrivania.  
Mi guarda fisso i polsi. D’istinto faccio scendere le maniche del golfino.
Ci giurerei che mi vede già nuda, nella vasca. Sangue, vene tagliate.
Mi accontento anche di uno sgabuzzino, gli faccio, così tanto per fare una battuta. Non l’avessi mai detto.
Gli dev’essere apparso il mio cadavere appeso tra le scope.
Non c’era verso di fargli cambiare idea.
Ha presente la farmacia?, gli dico. Io abito lì, a cento metri. Sopra la farmacia.  Solo che come entro senza chiavi?  Non mi lascerà per strada, vero?
Oh, mica mi ha risposto. Continuava a fissarmi.  
Alla fine mi sono vista morta anch’io. (Sbarra gli occhi). E’ impressionante vedersi morti.   
Mi posso arrangiare,  anche sulla poltrona, insisto.
Neanche gli avessi chiesto di uccidermi.
Si è alzato di scatto, ha fatto il giro del bancone e mi ha afferrato per un braccio.
Cosa fa? Mi lasci, vorrei dire, ma sto zitta e lo seguo.
Adesso mi scarica in strada, penso. Invece no.
Mi trascina su per le scale e poi lungo il corridoio.
Mollami il braccio stronzo! Mi fai male, sono lì lì per dirgli, ma non gli do questa soddisfazione.
Lui procede in silenzio.
La stanza è questa, dice aprendo la porta. Domani fuori alle sette. Mi guarda dall’alto in basso. Si sofferma sui miei infradito argentati. Un saldo. Poi aggiunge:  però non voglio rogne, siamo intesi? E’ chiaro che l’idea del suicidio era un pensiero fisso.
(Si guarda in giro)
La stanza non era granché, ma c’era il frigo bar.  Dalla finestra si vedeva proprio casa mia. Era lì a cento metri.
Cento metri dalla mia tv,  dai miei libri, dalla mia camicia da notte, dalla mia doccia, dalle mie creme per il viso e soprattutto dal mio letto.
(Sospira) Mi viene da piangere.  
E’ la terza volta stasera che mi viene da piangere.
Poi dicono che dovrei essere contenta. Sei bella, hai un sacco di corteggiatori, te la godi. Invece io passo le domeniche a piangere.  C’è qualcosa che non quadra, vero?
Se ci penso, mi viene una rabbia. Non dovevo andarci a casa sua.  Quando uno ti dice che non vuole stare più con te, cosa fai? Ma io sono scema. Ecco cosa sono. Prima ha fatto tutto un giro di parole e poi ha detto che non se la sentiva più di continuare.  Alla fine però siamo andati a casa sua e abbiamo fatto l’amore, perché lui diceva che era meglio lasciarsi così, che avrebbe fatto bene a tutti e due. Io però sono stata malissimo. Ma non gli ho detto niente, non sono riuscita neanche a piangere, non volevo dargli quella soddisfazione. Sono uscita da casa sua  che mi tremavano le gambe. Avevo voglia di piangere e di vomitare.  Non me la sentivo di andare subito alla stazione, così mi sono seduta su un muretto.  Un’ora a guardare le macchine passare. Un  tipo a piedi, si è voltato tre volte, ma non si è fermato, non dovevo avere un’aria molto sexy nonostante la mia gonna a portafoglio. Poi dicono che di notte una non dovrebbe andare in giro da sola. Sono rimasta lì, sul muretto all’angolo tra Ascanio Sforza e Porta Genova un’ora e un quarto. Zero. Magari mi avessero importunato. Avevo dentro una rabbia, ma una rabbia che li avrei scaraventati nel Naviglio. La disperazione fa paura.  Meglio girare al largo.
Forse le ho lasciate su quel muretto le chiavi. Cercavo un fazzoletto nella borsa. Devo averci rovistato più di una volta perché ne ho consumato un pacchetto di fazzoletti.
E’ che alla fine quella che ci rimette sono sempre io.  Me le vado a cercare.
Guarda qua adesso. Ho due occhi pesti che sembra abbia fatto un’incontro di box. Oltretutto mi stanno venendo le mestruazioni. Proprio adesso dovevano venirmi.  Sempre tutto assieme, cazzo.
Poi non dovrei prendermela.
Cosa si crede. Che sia lì ad aspettarlo?
Ne trovo cento come lui. Anzi meglio.
Sai cosa ti dico che si apre un capitolo nuovo nella mia vita.
Devo fare pulizia, liberare spazio, avere più tempo e soprattutto godermi la vita.
Così, visto che c’ero  ho aperto il frigobar e mi sono fatta qualcosa di forte.  Non sono abituata agli alcolici, infatti dopo un paio di mignon mi sono sentita tagliare le gambe, tutto a un  tratto ha preso a girarmi la testa.  E’ stato lì che ho iniziato a ridere, a ridere da sola come una cretina. Guardavo casa mia, la piantina di gerani, il gatto dietro al vetro del bagno. Fissavo quella finestra e mi vedevo dentro, stavo là da sola, mi preparavo ad andare a letto.  I vestiti piegati per domani sulla poltrona, le scarpe lucidate, la borsa con l’agenda, l’abbonamento del treno. Annaffiavo i fiori, cambiavo la lettiera al gatto. Mi sono vista come mi poteva vedere chiunque da quella stanza d’albergo. Tutte le sere, per tutta la vita, gli stessi identici gesti.  Ma quella sono io? Ho pensato.  
Il fatto è che stavo pensando troppo. Era tutta la sera che non facevo altro che pensare. Prima a Milano, sul quel muretto, poi sul treno, e ora avevo tutta la notte davanti e  neanche una pastiglia di tavor. Avrei fatto qualsiasi cosa per una pastiglia di tavor.  
E’ stato lì che ho sentito un fruscio.
C’è qualcuno?, dico.
(Sottovoce) Ci giurerei che è lui, il portiere. Ancora con quella fissa del suicidio.
Mi lasci dormire , dico.
Dall’altra parte silenzio.
Aspetto qualche secondo che se ne vada, poi mi avvicino alla porta.
E’ ancora lì. Lo sento attraverso il legno.
Se crede di farmi paura, si sbaglia, penso.
Se ne vada. Mi lasci in pace.
(Scrolla la testa) Respira e non dice niente.
Adesso apro la finestra e mi metto a urlare, dico.
E lui zitto.
Che nervi!
Guarda che lo faccio sul serio.
Niente.
Ora se ne va, penso. Ma invece rimane ancora lì.
Quel suo silenzio ostinato mi dava sui nervi. Mi sentivo mancare l’aria.
Vado alla finestra, la apro.  Era una notte così tranquilla. Sembrava non dover finire mai. Invece a un certo punto è finita.
E’ successo tutto così in fretta.
Neanche il tempo di mettermi a urlare.
Lui spalanca la porta e si lancia verso di me.
Per fermarmi, dice. Per fermarmi.
Toglimi le mani da dosso gli urlo, toglimi quelle luride mani!
E così sono volata  giù dal terzo piano.

(Si sistema la ciocca di capelli che le copre il viso)

Come è andata?  Bo? Va a sapere.
Sta di fatto che hanno detto suicidio.
Quello che mi fa più rabbia è che alla fine aveva ragione lui, quello schifoso.
Il portiere dell’albergo.
Anche se a pensarci bene, forse sarebbe finita uguale.

Fine