AlgoRitm

di

Pasquale Stanziale

 

Una città che non dorme, ma non perché viva. È un cadavere iperattivo, pulsante di luci al neon e schermi pubblicitari che non pubblicizzano nulla, solo la loro esistenza. Le strade non finiscono mai, si ripetono come un loop, con gli stessi cartelloni che scorrono su facciate riflettenti, finestre cieche che non nascondono più nulla.
I marciapiedi sono autostrade per fantasmi digitalizzati, uomini e donne che camminano a testa bassa, ipnotizzati dai loro dispositivi, parlando con voci che arrivano da lontano, da server dispersi in qualche data center inaccessibile. Nessuno si guarda, nessuno si tocca.
Dalle grate della metropolitana sale un vapore chimico, l’alito tossico della città. I treni corrono sotto il suolo come vene artificiali, trasportando corpi assenti da una destinazione all’altra senza che nessuno ricordi più perché si muove. I cartelli elettronici aggiornano gli orari con un ritardo inverosimile, mentre una voce sintetica ripete annunci con un’intensità emotiva calcolata.
I grattacieli sono gusci trasparenti. Dietro le vetrate, stanze anonime in cui si proietta la simulazione della vita: una coppia cena in silenzio davanti a una serie TV, un uomo piange davanti a un computer che non lo riconosce più, una donna danza da sola in una stanza, la sua immagine riflessa in dozzine di schermi che registrano tutto e non conservano nulla.
Nei bar di Hopper  nessuno parla. I clienti siedono con un drink dimenticato accanto, più concentrati a scorrere le vite degli altri sugli schermi che a vivere la propria. Ogni tanto qualcuno si alza e scatta un selfie: pose ottimizzate, un attimo congelato prima di tornare alla loro espressione naturale, quella di chi ha dimenticato cosa significa essere qui, ora.
Nelle piazze, invece dei vecchi oratori, si esibiscono influencer olografici, vendendo idee preconfezionate come un tempo si vendevano sogni religiosi. Parlano di libertà, di autodeterminazione, ma le loro parole sono generate da algoritmi che sanno già cosa la folla vuole sentirsi dire.
Sui tetti, alcuni hanno trovato un rifugio temporaneo, cercando di evadere dalla trappola della connessione perenne. Accendono fuochi invisibili, raccontano storie che non vengono trasmesse, si guardano negli occhi per la prima volta dopo anni. Ma sanno che anche loro finiranno in qualche ripresa casuale di un drone che sorvola la città, archiviati, schedati, pronti a essere ripresi dal sistema.\
Questa città non ha confini, solo punti di accesso. Non ha notti vere, solo una penombra perenne illuminata dagli schermi. Qui nessuno muore davvero. Solo disconnessioni temporanee, aggiornamenti di sistema, reset del profilo. E così tutto continua, in un’onda infinita di informazioni lasciando solo un rumore di fondo dell’esistenza.
If then

Mi chiamano attore. Ma io sono un ricercatore. Ricercatore di significati in questo mondo iperconnesso, che poi significa disconnesso dall’essenziale. Siamo ovunque e in nessun posto, in ogni conversazione e in nessuna parola vera: algoritmi, riflessi di una coscienza collettiva fatta di notifiche e indignazioni programmate. La grande narrazione della libertà si è ristretta come un vecchio maglione dimenticato nell’asciugatrice.
Ho una moglie. O meglio, ho una moglie nel significato tecnico del termine. È un’icona sulla home del mio telefono. Messaggi programmati, faccine sorridenti che si incollano ai testi sterili come cerotti sulle ferite. Le nostre conversazioni si sono ottimizzate da sole. Brevi. Essenziali. Macchine perfette.
"Prendi il pane." "Fatto." "Buonanotte." "Buonanotte."
Di notte la sogno. Nel sogno non ha un volto. È un concetto astratto, un costrutto sociale. A volte, mentre dormo, il suo profilo si sfalda e diventa un mosaico di pixel, un algoritmo che calcola l’amore in base a dati biometrici. Quando mi sveglio, non ricordo più chi ho sognato. Forse me stesso o niente. Al risveglio la guardo e penso: siamo mai stati persone? O siamo solo le proiezioni social di noi stessi? A volte la osservo dormire. Il suo respiro è regolare, estraneo. Mi chiedo se sia più viva ora, nel suo sonno inconsapevole, o quando mi scrive attraverso uno schermo. 
Intanto sto qui, nell’angolo rock dell’inconscio. Un posto che non trovi su Google Maps. Qui dove ancora si ascoltano gli echi delle vecchie chitarre distorte e delle voci che dicevano qualcosa di reale. Qui dove provo a far emergere un senso, a scalpellare via l’involucro di plastica che ci hanno incollato addosso. Qui dove mi domando: che cos’è la realtà, se tutto è percezione mediata? Se ogni emozione è già stata venduta prima ancora di provarla?
Lo sapete come sopravvive un attore oggi? Facendo finta. Fingendo di crederci. A cosa? A tutto. Ai casting, alle storie, alla vita filtrata. Ma io non voglio fare finta. Voglio urlare contro i muri di pixel, sfondare le vetrate di vetro liquido, farmi spazio tra gli influencer e i CEO dell’anima, quelli che ti vendono la consapevolezza in abbonamento mensile.
Voglio sporcarmi di significati. Sporcarmi di pezzi di verità. Di paure vere, non di quelle progettate per farmi restare incollato allo schermo. Voglio fallire senza che un’intelligenza artificiale mi suggerisca come rimediare. Voglio perdere il filo, e non trovare subito un tutorial che me lo riconsegni.
Mi chiedo sempre, come al solito, se la ricerca fosse più importante della scoperta? Forse il rock era questo: urlare senza sapere bene perché, ma sentire che era necessario farlo. Forse l’inconscio è ancora lì, nell’angolo, a sussurrarci qualcosa. Ma dobbiamo spegnere tutto per ascoltarlo.
Slalom

La musica… la musica potrebbe salvarci? Non quella perfetta, levigata, ottimizzata per gli algoritmi. No. Parlo della musica sbagliata, quella che si inceppa, che stona, che urla fuori tempo. Quella che suoniamo nelle cantine, nelle stanze vuote, nei momenti in cui pensiamo di non essere visti. Quella che resta vera perché nessuno le ha ancora messo un prezzo.
E se l’importante fosse suonare per il gusto di suonare. Parlare per il bisogno di dire, non per accumulare like. Essere vivi, qui e ora, anche se il mondo ci vuole distratti, anestetizzati, piegati al mercato dell’attenzione.
Ma forse il rock è morto… o forse è solo nascosto. Qui, nell’angolo dell’inconscio. Aspetta solo che qualcuno abbia il coraggio di risvegliarlo.
E dunque eccomi qui, in piedi, davanti a voi, mentre il rumore di fondo del mondo si spegne lentamente. O forse no. Forse è solo che non lo sento più, perché il mio angolo rock, quello che abita nell’inconscio, ha deciso di alzare il volume. Sai, l’inconscio è come un vecchio jukebox: ci butti dentro una moneta, e parte una canzone che non sapevi nemmeno di aver dimenticato. E oggi, in quest’epoca strana, dove ci sono connessioni ma non collegamenti, l’inconscio lascia trapelare le distorsioni che sanno di rock.
Perché il rock, vedete, non è solo un genere musicale. Non è pop, non è ordinato, non è rassicurante. È caotico, sporco, viscerale. Una chitarra che parla e ti costringe a guardarti allo specchio, anche se non vuoi. E oggi, in quest’epoca dominata dall’algoritmo che decide per te, dal like che ti dà una falsa sensazione di esistenza, l’inconscio si agita perché non vuole essere addomesticato, perché non vuole essere ridotto a un dato, a un trend.
Certo, siamo tutti connessi, ma siamo anche tutti soli: nodi di una rete che non ci tiene davvero insieme, ma ci separa, ci isola. E in questa rete l’inconscio si sente soffocare. Perché l’inconscio, alla fine, ha bisogno di contatto, di carne, di sudore, di sangue. Ha bisogno di un palco, di un pubblico, di un luogo dove le anime si scontrano e si fondono.
Claudia del motel… eh, sì, un’altra storia.. ma si tratta di una storia diversa. Lei esiste. È carne, calore, odore. Ci incontriamo in camere d’albergo che sanno di deodorante per ambienti e speranze scadute. Facciamo l’amore come se fosse la fine del mondo, e poi ognuno torna nel suo buco, nel suo codice binario, nel suo spazio protetto. Lei dice che mi ama. Io rispondo con un’emoji. A volte mi sento un traduttore automatico dei sentimenti.
Ma allora, ecco che l’angolo rock dell’inconscio si risveglia. È un angolo buio, ovviamente, illuminato solo da una luce pulsante che ti acceca e ti disorienta. È un angolo dove le chitarre urlano, le batterie esplodono, e le voci sono graffiate, rotte, autentiche. L’angolo senza algoritmi, non ci sono filtri, non ci sono compromessi. L’angolo dove puoi finalmente essere te stesso, anche se essere se stessi spesso è scomodo, sporco, imperfetto.
E in quest’epoca delle reti neurali artificiali l’angolo rock dell’inconscio è più necessario che mai. Perché è l’unico posto dove puoi ancora provare a sentirti vivo, dove puoi ancora sentire il battito del cuore, il sudore sulla pelle. L’unico posto dove puoi ancora urlare, senza paura di essere censurato, senza paura di essere cancellato.
Gli occhiali di Bruce Sterling

E intanto vi dico che ho cercato… cercato frammenti di senso tra i palazzi di Parigi Nord, dove il cemento racconta storie che nessuno vuole ascoltare. Ho inseguito poeti di strada nei vicoli di Londra, dove le ombre degli ultimi si confondono con i turisti distratti. A Kathmandu, dove ho visto uomini scalare il cielo con mani impolverate di preghiera. A Tokyo, dove ho trovato santuari nascosti tra schermi al neon, dove il silenzio resiste come un’antica promessa.
E poi ci sono le città invisibili, quelle che esistono solo nelle nostre paure, nei nostri sogni. Metropoli distorte dove le strade cambiano forma appena le percorri, dove dietro ogni angolo si nasconde un passato che non ci appartiene più. Luci intermittenti che lampeggiano nel buio, volti sfocati che si dissolvono prima che possiamo decifrarli. Cammini, continuo a camminare, mentre la città stessa sembra osservarti in questo flusso senza fine
E in questo nel mainstream c’è un istante, però, con Claudia, uno solo. Dopo che abbiamo fatto l'amore e siamo distesi, immobili, a guardare il soffitto. Lì sento qualcosa. Un ritorno di umanità. Una traccia, una reliquia di ciò che eravamo. Il suo odore rimane nell’aria come un’eco, la sua mano ancora appoggiata sulla mia pelle. Ma dura poco. Il cellulare vibra. Un messaggio. Una notifica. E l’illusione si frantuma in mille schegge digitali. Anche lei è intrappolata. Anche lei è solo un altro nodo nella rete.
È possibile che siamo dentro un film senza regista? Se anche il nostro angolo rock fosse anch’esso un'illusione generata da qualcuno che gioca con i nostri ricordi? Ogni dettaglio fuori posto potrebbe essere una falla nella sceneggiatura, un segnale che ci siamo svegliati da un sogno che non era nostro. Eppure, continuiamo a recitare.
Forse è ora di credere alle vecchie storie dei vagabondi… andare, perdersi, provare a ricomporre il mondo con frammenti sparsi. Forse è nel suono di una città che si sveglia, nei mormorii degli hobos i che emergono dai loro incubi.
La realtà ti appare come una pellicola bruciata, immagini storte, scene tagliate male, voci sussurrate che non riescono a sovrapporsi. Non c’è più spazio per la speranza di una conclusione, di una risoluzione. Vite che si intrecciano in un loop, un gioco crudele dove tutto è destinato a ripetersi, senza cambiamento, senza evoluzione. "Non c’è più via d’uscita," dicono, voci svuotate, come se ogni parola fosse una condanna ad un eterno presente. "Ogni giorno è lo stesso, ogni momento è solo una copia di un altro." La consapevolezza che il tempo sia un'illusione lo annienta, lo rende un fantasma tra le rovine di una vita che non ha più valore.
Sto trasmettendo da un punto imprecisato della Rete. O della mente. O del tempo. Non so. So solo che tutto è connesso e disconnesso insieme. Ho provato a staccare il Wi-Fi dal cervello, ma il buffer della mia anima è pieno.  Ho 378 notifiche non lette nella mia coscienza. Il pollice continua a scorrere, anche se non ho più mani.
Lame di dolore. S’infrange un bicchiere.
Volevo dirvi che non è un problema di tecnologia, è un problema di linguaggio. Siamo incastrati in un bug di significati. Non pensiamo più, elaboriamo. Non sentiamo più, esistiamo in una costante iterazione. 
Ah, e poi c’è il regista, non poteva mancare nel mio mondo. L’essere che mi dirige, che mi modella, che mi sputtana su un palco illuminato. Lo odio. Lo odio con la passione con cui si odia un dittatore che ti costringe a vivere in un’ideologia che non hai scelto. Vuole che parli della mia verità. Vuole che io sia "autentico". Ma cos’è l’autenticità in un’epoca dove anche il dolore ha un filtro Instagram? Vuole che io gridi, che io pianga, che io mi spogli. Ma io sono già nudo. Io sono un nervo scoperto. E lui continua a pungerlo. Lo odio perché crede che esista ancora una differenza tra palco e vita. No, caro mio, ormai siamo tutti in diretta, 24/7. Il sipario non cala mai. E se cala, è solo un bug nel sistema.
Si, il regista. La sua voce con un’eco messianico che dice: "Bene, molto realistico. Replichiamolo con più intensità." Ma io esplodo. Grido, improvviso, dico qualcosa di mio! E lui, allora, annuisce, soddisfatto. Anche la mia ribellione è stata sceneggiata. Anche il mio odio ha un copione. Non c’è più niente di vero… niente di sporco, di sbagliato, di improvvisato. Il teatro era vero, una volta. Lo ricordo. Il sudore degli attori, la voce che tremava. Ora tutto è perfetto, sterilizzato. Anche l’imprevisto è previsto.
Le grida di una moglie arrabbiata.
Lo so che è una stronzata, ma l’essere umano è una specie scimmia depressa. Il sesso è finito, l’amore è algoritmico, non convergente. La poesia è morta di noia. Siamo esseri stanchi, il prodotto finito di una civiltà che non sa più neanche come suicidarsi con stile.
Ed ora banalmente, scusate, ho pur sempre un post da pubblicare. Sì, la vita è un’estetica di superficie, ma almeno io lo ammetto. Ci guardiamo tutti negli schermi, ma nessuno vede nulla. La violenza non è più necessaria, perché siamo già stati lobotomizzati dalle stories. La musica, i film, la politica… tutto è un loop. Il Sistema ci ha venduto il fantasma di un mondo migliore e noi l’abbiamo accettato con un click. Sapete cosa succede a un sogno quando non viene più sognato?
Lame di silenzio.
E noi non capiamo. Non capite. La realtà è già crollata. Io l’ho visto. Ho scritto tutto. Ogni cosa è una sovrapposizione di versioni differenti di noi stessi. Il problema non è se siamo in una simulazione. Il problema è che lo sappiamo, e continuiamo a comportarci come se non lo fossimo.  l’uscita, l’uscita dov’è.. là, forse dove la città fuori pulsa con luci e suoni ma anche con interruzioni elettroniche, scene di alienazione urbana, flash di pubblicità distorte che parlano direttamente ai personaggi. Un climax che sfocia in un blackout, dove ogni personaggio si dissolve nel rumore digitale.
Certamente, sono un corpo-voce-attore che apre un varco reale, troppo reale che mi assale.
Lame di paura.
Sto trasmettendo da un punto imprecisato della Rete… o della mente… o forse da un’eco lontana di un tempo in cui il silenzio ancora esisteva. Qui, ogni battito di luce e ogni ronzio di schermo è un frammento della mia coscienza.
Un giorno, sapete, ho provato a sparire davvero. Ho cancellato il mio profilo, ho chiuso ogni connessione. Ma non è servito. La mia immagine continuava a vivere nei backup, nei database, nei log di sistema. Anche la sparizione è solo un altro tipo di contenuto. Anche la fine è diventata un’illusione.
Eppure qualcosa dentro di me cerca ancora. Non la morte in sé, ma il segno della fine. L’idea che ci sia un termine, un punto fermo, una chiusura. Ma questo tempo non chiude nulla. Solo cicli infiniti, loop di contenuti, update, reload. Niente finisce, tutto si sovrascrive.
Oh, la morte è uno show. Streaming. Commenti. "Mi dispiace per la tua perdita" seguito da un cuore blu. I defunti postano messaggi motivazionali. "Buona giornata a tutti! La vita è un dono!" Ma lui è morto! Morto! …O no? È ancora qui, nella rete, nel flusso, nelle notifiche. E io? Io posso sparire? Posso smettere di esistere?
Scusate, ma in questo scenario, il tempo mi sfugge. Io non ho tempo per la retorica o per i drammi esistenziali: ho impellente anch’io un post da schedulare, un’immagine da filtrare.. vado, vado...
Sto trasmettendo da un punto imprecisato della Rete… o della mente…ecco.. ci siamo persi.. e ci accorgiamo che, intorno, la realtà non è una costante; è una sovrapposizione di versioni, frammenti che si intersecano e si dissolvono in un mare di possibilità. 
E così, immersi in questo turbinio di voci, mi chiedo ancora e sempre: dove si cela l’uscita? Forse non esiste un portale di fuga, ma solo la consapevolezza che in questo caos digitale – in questo eterno buffering dell’anima – la nostra unica via è forse l’atto stesso di ricordare.  È così che mi sembra di intravedere balugini di sentimenti.. forse, nonostante le notifiche incessanti e i messaggi criptici, c’è ancora spazio per la poesia, per il sogno e per una rivoluzione interiore. Forse, nell’epilogo di questo flusso, risiede la chiave: non nella fuga, ma nell’accettazione e nel riscrivere il nostro codice, un click alla volta.
Splashdown
Così, in questo incessante dialogo tra ombre e luce, mi trovo a interrogarmi sul destino di un’anima che si perde nelle oscure nuvole dell’iperconnessione. Forse la rivoluzione è nel ribellarsi al sistema, ma anche.. anche nel riscoprire il valore del silenzio e della riflessione – l’attimo in cui il click si ferma e l’essere ritorna ad essere. In questo teatro del digitale, ogni voce è un frammento di un mosaico più grande, un invito a riscrivere il nostro codice interiore, a trovare un qualcosa di sensato nel caos.”
E allora, in questa notte senza tempo, vi chiedo: riusciremo a disattivare il rumore, a spezzare il loop, a ritrovare quel silenzio fluviale che ci rende veramente umani? O continueremo a inseguire l’illusione di una connessione che, in fondo, ci allontana sempre di più dalla nostra essenza.
Non so più se quello che mi arriva è il mio cuore che batte, o una distorsione, una distorsione che morde la pelle e si insinua tra i pensieri. Un rumore, un altro rumore. Tutto è rumore. Le chitarre, le voci, la città, le vite che scorrono – tutto in un ciclo, ripetuto, incatenato, che si riflette su di me, che mi consuma, che mi... scava.
Qualcuno mi ha ricordato detto che l'arte è una delle vie per salvarsi. Ma guardate. Guardate cosa abbiamo costruito. Cosa abbiamo fatto? Ogni melodia è una bugia, ogni nota un altro compromesso. Mi hanno detto che dovevo creare, che dovevo dare qualcosa… Ma cosa do davvero, eh? Parole vuote, canzoni senza significati, senza respiro. 
Mi sono chiesto, quante volte ci siamo resi conto che non c'è più nulla che ci separi dalla polvere? Da questa roba che chiamiamo vita. Niente. Siamo vuoti nell’apologia dell’avatar..
E così in questa notte sento il gelo delle mani, le dita le vedo tremare: ma è solo il corpo che sa cosa sta per accadere. Perché il corpo… il corpo ha capito molto prima di me. Lì, dentro, tra le ossa, tra i nervi. La violenza è una lingua che non mente, che non ha bisogno di risposte. La violenza non la devi spiegare. La violenza è la verità. È un grido senza domanda, un corpo che si ribella perché non sa più come parlare.
Io non sono più il soggetto che scrive, che canta, che sogna. Io sono il rumore che finisce tutto. Il rumore che seppellisce le parole. La voce che non ha più alcuna forma. Perché… che cos'è la vita, se non un gioco di risposte che non abbiamo mai voluto ascoltare?
Ho guardato negli occhi di chi mi ha chiesto qualcosa. Ho guardato, ma non ho visto nulla. Solo il buio che li inghiottiva. E allora…  il silenzio.. forse è l’unico modo per essere vivi.
E la paura.. la paura che anche il mio silenzio sarà un contenuto. Anche la mia assenza verrà consumata.
Ma cosa allora, allora? Se tutto è già stato pensato, scritto, riprodotto? Se ogni parola che dico è solo l’eco di qualcos’altro? Rimane ancora e sempre il corpo. Questo corpo che trema, che suda, che invecchia. Un giorno smetterà di rispondere, e forse sarà l’unico atto di verità. 
Ma fino a quel momento… sono ancora qui. A recitare? A vivere? A sfidare il nulla con l’unica cosa che non si può riprodurre: il battito, l’affanno, l’attimo che sfugge e non torna. Questo. Ora.
Non morirò. Rimarrò qui, bloccato in questa trasmissione infinita, in questo teatro senza retroscena, in questa voce senza corpo che continua a parlare, parlare, parlare...

APPENDICE
GLI OCCHIALI DI BRUCE

Sapete, una volta si diceva che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Balle. Oggi, gli occhi sono solo un’interfaccia. E l’anima… beh, è impegnata a riempire di file il proprio buffer. In attesa. Girano e girano quei cerchi luminosi, aspettando che qualcuno carichi l’aggiornamento giusto.
Questi occhiali… questi occhiali non sono normali. Li ho trovati in una fiera di design a Torino. Lì dove Bruce (Sterling) ha detto che il futuro è sempre stato in vendita, basta saperlo riconoscere. Li ho messi e… bum! Il mondo non è più lo stesso. O forse è sempre stato così, ma io non lo vedevo.
Gli occhiali a specchio. Chi ci crederebbe che un semplice accessorio potesse significare così tanto? Essi riflettono la realtà come certe facciate di grattacieli e dietro non sai chi c’è: santi…assassini.. tutto molto moderno.. Non erano solo per ripararsi dal sole, no. Erano uno scudo, una dichiarazione. Dicevano: 'Non mi freghi. Ti vedo prima che tu possa vedere me'. Bruce  lo sapeva. Sapeva che nel  mondo dove la realtà è sfocata e le corporazioni governano, hai bisogno di un vantaggio. Hai bisogno di qualcosa che ti dia un'aria di controllo, anche quando sei sull'orlo del precipizio.
Ah… gli occhiali di Bruce. Quando li indosso, mi sento diverso. Mi sento... tagliente. Come se potessi hackerare la matrice con uno stuzzicadenti. Come se conoscessi verità che gli altri non possono nemmeno immaginare. 
Ma ecco la fregatura. Gli occhiali non ti rendono automaticamente figo. Non ti danno poteri magici. Sei  pur sempre tu, con tutte le tue insicurezze e paure. Gli occhiali servono solo a mascherarle un po’.
Ma, oh, ragazzo, quanto era bello fingere.
Con gli occhiali Bruce vedo il passato incastrato nel presente. Un uomo in completo anni ’50 che smanetta su un laptop, un monaco medievale che scorre TikTok con aria mistica. Le epoche si sovrappongono, come livelli di un videogioco mal ottimizzato.
Bruce  diceva che il futuro non è un domani lontano, ma un errore di sistema nel presente. Il problema è che siamo tutti prigionieri di una timeline impazzita. Un incubo estemporaneo. Non c’è più progresso, solo un ripetersi infinito di revival: oggi anni ’80, domani anni ’90, dopodomani chissà… il Medioevo…
Ma chi decide tutto questo? Chi progetta il futuro? Una volta erano gli scrittori, i filosofi. Ora? Gli algoritmi. Le IA generano romanzi, dipinti, perfino desideri. Clicca qui per una visione personalizzata del tuo futuro ideale! Solo 9,99 al mese.
Eppure c’è qualcosa di strano… qualcosa che non torna. Bruce parlava delle Isole nella Rete. Luoghi dove la realtà sfugge al controllo delle megacorporazioni, dove la rete non è solo un mezzo di sorveglianza ma di resistenza. E se anche noi fossimo in un’isola senza saperlo? Se la realtà che vediamo fosse solo un’interfaccia? E dietro, ci fosse ancora un mondo vero?
Forse questi occhiali non mostrano il futuro. Forse mostrano il picco dell’onda. Il punto in cui possiamo ancora scegliere. Ma per farlo… dobbiamo smettere di guardare e iniziare a vedere.
Perché è proprio nelle crepe dell’anonimia digitale che possiamo ritrovare frammentazioni significative della nostra vera essenza umana...
Sapete, ci sono stati momenti nella mia vita in cui ho sentito di vivere dentro un sogno. Un sogno che qualcuno ha progettato per me, ma che io non ho mai realmente vissuto. È come se fossi intrappolato in un labirinto di specchi, dove ogni riflesso mi mostra una versione diversa di me stesso.
Bruce diceva che il futuro non è una cosa che ci capita. È qualcosa che creiamo. O che ci viene creato addosso. Come un vestito su misura, cucito da mani che non abbiamo mai visto. Questi occhiali… mi facevano vedere le cuciture. Le linee di codice dietro il mondo. Le mani che tessevano la trama senza che noi ce ne accorgessi. Ma ora che li ho tolti… cosa vedo? Il mondo è più reale? O è solo che ho smesso di accorgermi del trucco?
Quindi ditemi: voi… li mettereste, questi occhiali? O preferite continuare a guardare senza vedere?