Blu

di

Laura Forti

 

© 2008. Tutti i diritti sono riservati

 

Tra poco è il mio compleanno, compio vent’anni. Non mi sembrano né pochi né tanti. L’ultima volta che è stato il mio compleanno era ancora viva Dolores e siamo andate alla villa. La chiamo villa perché sembrava che ci veniva a stare chissà chi, invece è rimasta sempre tale e quale, a metà. Abbiamo fatto una specie di festa io e Dolores, così, tra di noi. Io avevo comprato due brioches col tuppo, con la granita alla mandorla in mezzo, le abbiamo mangiate di nascosto perché lei non può mangiare i dolci, le si guastano i denti e lì siamo sicure che non viene nessuno a disturbarci e a fare la spia. Dopo abbiamo dato da mangiare a Occhiopinto, l’avevamo chiamato così perché aveva una macchia più chiara sull’occhietto, sì, sembrava truccato, qualcuno lo aveva abbandonato davanti alla casa mesi prima, l’aveva lasciato attaccato al cancello con lo spago, sembrava impiccato la prima volta che l’abbiamo visto. Più che un gatto era un mucchietto di ossa tutto tremante e Dolores l’aveva chiamato Occhiopinto per via dell’occhio truccato e da quel giorno era diventato il gattino di Dolores. Lei avrebbe voluto portarselo a casa ma mia zia non glielo avrebbe mai permesso, figurati, un gatto per giunta randagio e poi aveva già una figlia minorata psichica, pure un altro peso, avrebbe alzato le mani al cielo come fa sempre quando qualcosa va storto, avrebbe detto di sicuro di no, manco a parlarne e Dolores ci sarebbe rimasta male e io non lo sopportavo quando ci rimaneva male. Così l’ho convinta a lasciarlo lì, l’ho convinta che ci stava bene Occhiopinto ad abitare nella villa in costruzione, almeno ci stava qualcuno di vivo in quel posto dimenticato da tutti e alla fine lei ha fatto di sì con la testa e si è lasciata riaccompagnare a casa senza protestare, anche se teneva gli occhi bassi. Quel compleanno lì però è stata l’ultima volta che l’ho visto e dovevo capirlo che quello era segno di disgrazia.

Per il mio compleanno, l’ultima volta, abbiamo mangiato le brioches con la granita alla mandorla sedute davanti alla casa in costruzione. Io avevo le cuffie con la musica dei Tokio Hotel, me l’aveva prestata Rosaria un’amica mia, l’aveva scaricata da internet. Con Rosaria eravamo amiche amiche, avevamo fatto le scuole insieme, solo che lei poi aveva continuato, aveva preso il diploma e se n’era andata a Messina per fare la commessa perché al paese mio una commessa guadagna troppo poco, neanche quattrocento euro al mese e lei oltretutto sapeva anche le lingue e così era sprecata a rimanere. Mia madre diceva che Rosaria aveva fatto il salto e che se n’era andata a cercare marito, altro che fare la commessa e magari si sarebbe sposata un laureato, un medico, che per mia madre era il massimo che potesse capitare nella vita a una donna; io invece non avevo neanche finito la scuola, ero rimasta a fare la parrucchiera nel negozio di mia madre e quindi non avrei sposato nessuno, manco un tamarro che raccoglie i pomodori. Con Rosaria eravamo amiche amiche, c’eravamo fatte i buchi alle orecchie insieme. Ce li aveva fatti Sabry, che prima lavorava nel negozio di mia madre, faceva l’estetista, un po’ la manicure, un po’ la shampista… a dire il vero non ho mai capito veramente che cosa faceva Sabry. Tra mia madre e Sabry c’era una guerra silenziosa senza esclusione di colpi di spazzola. Sabry era per i tagli “scala e modella”, mia madre per i soliti bigodini e litri di acido per permanenti. Guai a fare innovazioni. La Sabry poteva pure darsi un gran daffare, mettendole sotto il naso il fior fiore della riviste di acconciature, “Topgirl”, “Cosmofashion” e “Colpo di testa”. Lei la smontava subito con la solita frase che era una doccia fredda per la creatività di chiunque: “Tanto non dura”. La Sabry sapeva fare anche i tatuaggi, dieci ne aveva, dappertutto, tutti con una storia diversa perché diceva di aver viaggiato in tanti posti, Londra, Berlino, nomi fantastici per me che non ero stata più in là di Ragusa. Ne aveva anche uno segreto, sotto una polsiera, ma quello non lo faceva vedere a nessuno, era una cosa privata. Mi diceva: “Se vuoi un tatuaggio pensaci bene perché poi resta, non se ne va più. Se vuoi un tatuaggio scegliti un nome, scegliti qualcosa che abbia un significato, che ti ricordi qualcosa di importante”. Io non ce l’avevo un fatto da ricordare. Io avrei voluto cancellare tutti i fatti della mia vita. Comunque poi non c’è stato il tempo, mia madre ha trovato la Sabry nel retrobottega che si sbaciucchiava con una sua amica, è venuto fuori che le piacevano i fimmine e mamma l’ha mandata via prima che partissero le voci. Figurati! le avrebbero fatto chiudere il negozio se avessero saputo, e lei ne aveva già avuti abbastanza di guai in vita sua dopo che mio padre se n’era andato. Così Sabry ha fatto i bagagli ed è partita per il nord da certe amiche sue che baciavano i fimmine come lei e che avevano messo su un negozio di piercing e massaggi. Si è portata via le sue riviste di acconciature moderne e pure la valigetta misteriosa con le tinte per capelli. Avrei voluto tanto un tatuaggio o magari un ciuffo di capelli colorato ma mi vergognavo troppo. Già tutte le vecchie vestite di nero assittate davanti alle porte mi guardavano strano così, al naturale, figuriamoci coi capiddi tinti. Al mio paese, quelle vecchie lì le devi sempre salutare sennò non passi, manco le macchine passano. Io dicevo “buongiorno e buonasera” e loro abbassavano la testa come se fosse un segnale convenuto: passavo ma sentivo sempre i loro occhi puntati. Io lo sapevo cosa pensavano.

I'm staring at a broken door, There's nothing left here anymore. My room is cold, It's making me insane”.

La casa in costruzione è sempre stata in costruzione fin da quando sono piccola, io me la ricordo così. Qui le cose sono sempre lasciate a metà, senza nessuno che le finisce. Qui gli operai possono metterci anche dieci anni per finire una casa e nessuno dice niente. Sai, tra poco è il mio compleanno e io mi sento come quella casa lasciata a metà.

L’ultima volta che ho compiuto gli anni, io e Dolores abbiamo mangiato le brioches e poi siamo tornate a casa. Io continuavo a tenere le cuffie sulle orecchie, lei camminava in silenzio con gli occhi bassi. Stavamo bene io e Dolores insieme, non mi piaci pirsuni che paddano troppo. Siamo passate davanti al negozio di fiori e il fioraio è uscito e ci ha chiamate. Tutte le volte che passavamo ci chiamava. È iniziato così per scherzo, perché una volta eravamo andate a comprare i fiori da portare al cimitero e a Dolores piacevano i fiori del negozio, ci aveva messo pure il naso sopra per sentire il profumo. Il fioraio se n’era accorto e le aveva detto: “Ti piacciono le zagare, guarda che quelli sono fiori da sposa, ché ti vuoi sposare tu? Ce l’hai il fidanzato?”. Lei si era nascosta dietro di me, perché con gli altri era timida, Dolores non usciva quasi mai perché la zia non voleva. “Minorata psichica” aveva scritto sul certificato l’assistente sociale. Poi il fioraio era andato dietro il banco a prendere un fiore finto, un fiore di plastica, credo che fosse un avanzo di una decorazione da morto, e gliel’aveva dato. Le aveva detto: “Be’, non mi dai niente in cambio?” e si era indicato la guancia. Il fioraio era l’unico a essere gentile con Dolores, gli regalava sempre un fiore di plastica. In capo a due giorni la sapevano tutti, questa storia del bacio. Le dicevano: “Allora Dolores oggi lo hai visto il tuo fidanzato”, cose così. Anche quel giorno ci ha dato un fiore e poi siamo tornate a casa. Siamo passate dalla chiazza dove ci stanno tutti i vecchi del paese. Il mio paese è piccolo: c’è l’ufficio postale la farmacia, l’ortulanu, il market e un bancomat che è sempre esaurito. E poi c’è la chiazza. I vecchi stanno sotto gli alberi, seduti sulle panchine, giocano a carte e tutte le volte che passiamo alzano la testa e ci guardano sbavando e pure a loro dobbiamo salutare. Sulla panchina centrale c’è Enzo Vitaliano. Enzo Vitaliano è il capo di tutti i vecchi, sarebbe agli arresti domiciliari ma viene lo stesso tutti i giorni al caffè e poi passa la mattina sulla panchina dei giardini, tanto non viene mai nessuno a controllare se sta a casa. Ogni tanto gli si avvicina qualcuno, gli dice qualcosa all’orecchio, lui fa un cenno con la testa e quello va via. Dicevo, quel giorno del compleanno siamo passate dalla chiazza e poi ho riportato Dolores a casa e tutto sembrava normale. La zia era in cucina, faceva la caponata, lo zio dormiva perché fa i turni di notte. Dolores ha portato subito il fiore vicino al suo letto e lo ha nascosto sotto al cuscino. Poi abbiamo guardato insieme la televisione. Così viveva Dolores. Da grande le sarebbe piaciuto fare la baby sitter, ma chi gliel’avrebbe mai dato un bambino da guardare?

Comunque, dicevo, è cominciato tutto dopo l’ultimo compleanno quando ha chiamato Rosaria. Era venuto caldo presto, c’era un vento secco, come quello che c’è in Marocco, in Africa. Cioè, io non ci sono mai stata in Africa ma penso che sia così nel deserto di sabbia, dove vivono i Tuareg. Lo so perché una volta in un libro della biblioteca della scuola c’era questa fotografia di un uomo che stava su un cammello, con una sciarpa tutta blu sulla faccia e i lembi del tessuto svolazzanti. Li chiamano gli uomini blu perché si vestono sempre di quel colore lì che è anche il mio preferito. Nel libro c’era scritto che questi Tuareg sono un popolo matriarcale, l’ho cercato sul vocabolario e vuol dire che i fimmine hanno il vero potere, decidono tutto loro, come educare i figli, come far rispettare le leggi. Di nascosto avevo strappato la foto dal libro e me la tenevo in camera e tutte le volte che vedevo l’uomo sul cammello mi batteva forte il cuore.
Speravo che quell’uomo blu un giorno venisse al mio paese chiedendo a tutti dove sta Maria Concetta, detta Conci, mi prendesse al volo e mi portasse via al galoppo in una di quelle sere afose con l’aria irrespirabile. Cose così. Quel giorno che Rosaria ha chiamato eravamo a casa, io e la mamma, a sventolarci sul divano per il caldo. La mamma aveva chiuso un po’ prima il negozio perché non veniva nessuno: chi ce la faceva a stare sotto al casco o a farsi fare il phon o a sopportare la puzza dell’acido per permanenti? Non che ci sia mai molta gente in negozio, giusto due amiche di mia madre che vengono lì per amicizia, per compassione o per spettegolare alle sue spalle, a volte i piccireddi che le mamme portano a pareggiare i capiddi, a volte anche i vecchi a farsi fare la barba. Minchia, lei non ci sa proprio fare. Mia madre è sempre depressa da quando mio padre l’ha lasciata e si vede proprio tanto dalla faccia. Quando lui ci ha lasciate, per esempio, non si è alzata dal letto per un mese di fila, era nevrastenica, non muoveva più un dito, non cucinava, non lavava i piatti, era come morta. Quando c’era mio padre, quando lui tornava a casa il finesettimana, perché lavorava fuori, faceva l’autotrasportatore, mi ricordo che lei gli preparava la cena, cucinava un sacco di cose, primo secondo contorno e anche il dolce, ma lui non toccava mai quasi niente. C’è da dire che mia madre non cucina bene come la zia perché non ha pazienza, alla fine butta tutto dentro la pignata e come viene viene. Io una volta l’ho detto a mio padre che a me sembrava buono quello che aveva preparato la mamma ma lui mi ha tirato uno schiaffo e mi ha detto: “Così impari a essere rispustiera”. Ha detto che avevo a parrali quannu piscia la gaddrina. Poi si è scoperto che lui aveva un’altra e adesso hanno anche una bambina che si chiama Sofì. Un nome elegante, francese aveva detto la zia e la mamma si era ributtata di schianto sul letto. Io non riuscivo a togliermi dalla mente questa bambina Sofì. Mi ero messa in testa che mio padre non mangiava le cose che la mamma preparava perché aveva già mangiato dall’altra parte, dall’altra famiglia, in una casa elegante con una moglie ottima cuoca e una bambina con le treccine e il nome francese. Insomma, quando Rosaria mi ha chiamato ha cominciato a raccontarmi della vita che faceva adesso a Messina, del negozio dov’era commessa e che adesso aveva un fidanzato tanto carino che la veniva a prendere al lavoro con la macchina e la portava fuori a cena e le aveva anche regalato un anellino con un piccolo cuore e le loro iniziali. Ecco, mentre parlava io pensavo che ero proprio una sfigata assoluta perché non avevo nessuno che mi voleva e non avrei sposato manco un tamarro che raccoglie pomodori. Uno che mi piaceva c’era, a dire il vero. Nino. Occhi verdi fantastici, con dei riflessi dorati. Lui aveva smesso un anno prima di me e lavorava in una serra di piante e fiori con gli stascionali, gli arabi e i nordafricani. È un lavoro tremendo quello, perché dopo le dieci la temperatura si alza tantissimo anche fino a settanta gradi sotto i teli plastificati e poi li pagano poco, tipo due euro l’ora. Peccato perché delle qualità ce le aveva Nino, sapeva disegnare bene, faceva fumetti bellissimi. Con Nino non ci eravamo mai parlati molto ma lui sapeva che a me piaceva e credo che anch’io gli piacessi. Una volta ho trovato un mio ritratto fatto a lapis sul banco, mezzo cancellato. Comunque, Rosaria mi aveva chiamato perché tra due settimane sarebbe tornata al paese visto che si sposava una sua cugina di terzo grado e per l’occasione mi avrebbe fatto conoscere il suo fidanzato. Mi invitava a uscire con loro, il suo fidanzato ci sarebbe venute a prendere con la macchina nuova e poi ci avrebbe riaccompagnate. C’era la sagra del pesce, ci saremmo divertite. Sarebbe venuto anche Salvatore. Me lo ricordavo Salvatore? Ricordare me lo ricordavo, ma la cosa non mi entusiasmava molto. Sapevo che a lui piacevo fin dalle elementari, ma io l’avevo sempre evitato e gli avevo preferito Bastiano. Credo che io piacessi a Salvatore proprio in quanto non me l’ero mai filato. Ma Rosaria era tutta eccitata all’idea della sagra del pesce e non le dissi nulla. Pitrinu aveva comprato una macchina così carina, con il tetto che si apriva. Non vedeva l’ora di farmela vedere, di farmelo conoscere. Quella sera ho riascoltato la cassetta dei Tokio Hotel e ho ripensato a quando ci eravamo fatte i buchi nelle orecchie.
Insomma, con Rosaria eravamo amiche amiche. Non vedevo l’ora che arrivasse.

Sai, a volte ce ne accorgiamo troppo tardi che le persone cambiano.

Secondo me Dolores si era ingelosita che Rosaria doveva tornare. Era ancora più silenziosa del solito. Quando siamo arrivate in chiazza c’era il fioraio seduto sulla panchina, accanto a Enzo Vitaliano. Ci ha viste e ha detto: “Venite qua”. Poi ha preso Dolores sottobraccio, e si è messo a fare una specie di giro panoramico della chiazza come se volesse far vedere a tutti quanto erano amici loro due. Le ha detto: “Ti voglio far conoscere questo signore” e l’ha portata davanti al vecchio. “Questa è la mia fidanzata” diceva a tutti, come un attore a tiatro al momento degli applausi, e i vecchi intorno a portarsi la mano al cappello per salutarla come se fosse vero. Poi Vitaliano ha fatto cenno a Dolores di avvicinarsi. “Vai, sciocchina, che hai paura che ti mangi?”. Dolores si è accostata e Vitaliano le ha detto qualcosa all’orecchio e lei è diventata rossa e ha fatto un passo indietro. E il fioraio: “Vedete quanto è timida la mia promessa sposa?”; e tutti: “Sì, sì” come se credevano veramente al fatto che erano fidanzati. “Possiamo offrire qualcosa a queste signorine” ha detto Vitaliano. “Un gelato, una brioche col pistacchio”, ma Dolores stava già scappando via e io appresso. A casa non ha detto niente. Si è seduta accanto al letto e ha cominciato ad arricciarsi i capelli con le dita come quando era nervosa. La zia invece aveva messo fuori qualche vestito e sembrava di buonumore. Penso che la zia con me si sfoga, sono un po’ la figlia sana che non ha mai avuto. Le piaceva questo fatto che mi provavo i suoi vestiti. Con Dolores aveva rinunciato a farglieli mettere, diceva che aveva un corpo sbagliato. Invece Dolores aveva un bel seno, sai?. L’unica cosa che la zia faceva era spazzolarle i capiddi luogni e metterle delle gran scocche che la facevano sembrare una bambina invecchiata. Ho scelto un vestito di un colore che non mi piaceva, una specie di giallo senape, tanto per farla contenta. “Scegliti pure un paio di scarpe” ha detto la zia, “guarda nello stanzino”. Nello stanzino la zia tiene i vestiti, le scarpe e la pistola dello zio che fa la guardia notturna. C’è anche il suo vestito da sposa che sembra una grossa bomboniera bianca, tutto avvolto nel cellophane. Ogni volta che apro lo stanzino, la zia me lo fa vedere e dice che un giorno sarà mio e mi recita l’intero menu del pranzo di nozze: pastizzu di cavatelli, cunigghiu all’aurudulci e buccidati di casa. Secondo me, il matrimonio della zia è iniziato e finito con quel pranzo di nozze, è l’unico ricordo beddo che le è rimasto. Mentre cercavo le scarpe nello stanzino, mi ha punto qualcosa. Pensavo fosse stato un animale, che ne so, una moschitta, invece no. C’era un fagotto nascosto in un angolo, sotto le scatole delle scarpe, e dalla velina usciva una decina di fili di ferro. Ma non era fil di ferro e basta. Erano dieci fiori di plastica, di quelli che si usano per fare le corone da morto, tenuti insieme con una scocca da capiddi.

Dovevo capirlo che qualcosa non andava con Dolores. Invece me ne sono stata zitta.

I'm staring at a broken door, There's nothing left here anymore. My room is cold, It's making me insane.
I've been waiting here so long, But the moment seems to 've come”…

Rosaria era allegra, voleva farmi vedere tutto, voleva farmi vedere com’era cambiata in meglio la sua vita. Sembrava una bambina che mostra i giocattoli portati da Babbo Natale a una compagna bruttina rimasta orfana. Mi diceva grandi cose di Messina, “ci devi venire Conci” mi diceva. C’erano i locali, c’era il cinema, c’erano riviste e internet e bancomat che funzionavano sempre e sputavano fuori banconote a getto continuo, tutto c’era. Adesso lavorava in un negozio di intimo, infatti, mi fece vedere aprendosi la cerniera dei cavusi, portava solo dolce e gabbana e calvin klein. Le due lingue non le servivano granché, però prendeva quasi settecento euro al mese. Aveva le unghie fatte dalla manicure e un nuovo taglio di capelli. Mi’!, io la odiavo. Al mio paese il mondo si divide in due gruppi, quelli che sanno parlare due lingue, che hanno uno stipendio da settecento euro e quelli come me che fanno la parrucchiera, non hanno finito la scuola, hanno una madre depressa e una cugina minorata psichica. Ormai mi vedevo destinata a prendermi per marito uno dei vecchi del paese, andare verso l’altare a braccetto con Vitaliano, col vestito da bomboniera della zia, tenendo in mano un bouquet di fiori di plastica da morto con Dolores che camminava dietro agitando la scatola di croccantini per Occhiopinto. Minchia, al confronto mio, mi sembrava così fortunata Rosaria! Quella sera andai da lei a preparami per la sagra del pesce. Mia madre non disse niente, sì!, anzi borbottò di non fare tardi senza guardarmi neanche. Io dentro di me lo sapevo che quella sera la mia vita sarebbe cambiata, solo non sapevo ancora come. I genitori di Rosaria non c’erano, la casa era tutta nostra. Rosaria era già tutta acchittata, quando vide il mio vestito color senape disse: “No per l’amor di Dio”. Dalla valigia tirò fuori una gonna di jeans, un top angel e demon e un giubbotto diesel. Mi diede anche un paio di mutande calvin klein e un reggiseno dolce e gabbana. “Non si sa mai”. Il fidanzato di Rosaria, Pitrinu, venne a prenderci come promesso alle sette in punto con la sua macchina nuova col tetto che si apriva e la scritta “turbo” su un fianco. Ci vide e diede un’accelerata e poi si fermò di sbieco con le ruote sul marciapiede. C’era una musica fortissima in macchina, non riuscivo a sentire nulla di quello che dicevano Rosaria e Pitrinu. Solo che parlavano di uno stereo della Sony figo con lo schermo a cristalli liquidi. Mentre la macchina stava per fare la curva per uscire dal paese, vicino alla casa in costruzione, incrociò un’altra macchina che tornava indietro e mi sembrò di vederci seduta dentro Dolores.

Andammo alla sagra del pesce. Pitrinu mi faceva un sacco di complimenti e di domande ma quando gli rispondevo non mi guardava in faccia, guardava da un’altra parte, teneva pure gli occhiali scuri, così avevo la sensazione di parlare da sola. C’era una padella enorme che friggeva in mezzo alla piazza e tutti che si accalcavano per avere un pezzo di pesce bruciacchiato. Mangiammo poco e bevemmo vino bianco. Rosaria era diversa da come me la ricordavo. Adesso era tutta Pitrinu, “amore qui amore là”. Mi sembrava che giocavano a fare marito e moglie, “tesoro hai preso questo, minchia quanto è bello quel vestito, me lo compri”, roba così. Mi chiedevo che fine aveva fatto la ragazza che si era fatta con me i buchi nelle orecchie, che aveva imparato due lingue, e che voleva fare il salto. Forse aveva ragione mia madre, forse fare il salto voleva dire solo trovare un marito e sistemarsi. Salvatore aveva dei biglietti per la discoteca, così lo raggiungemmo. Io non c’ero mai entrata in quella discoteca sul mare, ne avevo sempre sentito parlare. Minchia, mi sembrava che le porte del bel mondo si stessero spalancando tutte di colpo. Alla discoteca Salvatore ci dette le “ridu” per farci entrare. Anche lui aveva gli occhiali scuri e le scarpe a punta fatta col temperamatite. Anche lui mi fece tanti complimenti, con le stesse parole di Pitrinu, come se si fossero messi d’accordo sulle cose da dire. Davanti alla discoteca era pieno di cafuzzi che non potevano entrare perché non avevano i soldi, però stavano lì a stazionare sui motorini scassati e a fare commenti sulle ragazze. Il problema è che i cafuzzi non sanno mettere due parole in fila, e le ragazze che li sentono parlare si mettono a ridere e li mandano a quel paese. Sono troppo tamarri. C’era anche Nino. Quando gli passai davanti avrei voluto che mi prendesse per un braccio e mi portasse via sul cammello come l’uomo blu della fotografia. Insieme avremmo cavalcato via dal paese verso quel mondo matriarcale dei Tuareg e ci saremmo persi tra le dune del deserto del libro. Invece non disse niente, tenne lo sguardo basso perché nessuno gli aveva mai insegnato a prendersi quello che voleva.

I've been waiting here so long, But the moment seems to 've come, I see the dark clouds coming up again. Running through the monsoon, Beyond the world, To the end of time, Where the rain won't hurt”.

Salvatore non mi piaceva, aveva la pelle rovinata dall’acne, anche se era abbronzato si vedeva lo stesso. Mi offriva da bere a ripetizione, techila, mohito, era gentile, mi faceva i complimenti per i vestiti, mi pareva proprio d’essiri ’nta lu centru. Poi uscimmo, andammo sulla spiaggia a fumare una zarsa. Era la prima volta che fumavo la droga, anzi, una volta mi aveva fatto provare la Sabry ma solo un tiro e mi era girata la testa. Mentre ci passavamo la zarsa, Rosaria e Pitrinu cominciarono a baciarsi con la lingua, sembrava che recitavano in un film sconcio, facevano “uh ah”, matre santa, a me veniva solo da ridere. Poi Salvatore cominciò a baciarmi pure lui. Io stavo ferma, cioè, era come se il corpo fosse caduto in un incantesimo, non riuscivo a muovere neanche un muscolo. Sentivo che mi slacciava il reggiseno dolce e gabbana, che mi frugava sotto la maglietta angel e demon. Poi Pitrinu disse: “Mi scappa da pisciare” e anche Salvatore si alzò come se fossero gemelli siamesi e andarono a pisciare in riva al mare. E Rosaria: “Visto che carino Salvatore”. Io le dissi che adesso si era fatto tardi e che dovevo tornare a casa, ma lei sbuffò, si ripassò le labbra col lucidalabbra e rispose che la serata non era ancora finita. Mi disse che non era gentile lasciare lì Salvatore che ci aveva fatto entrare gratis in discoteca, che mi aveva offerto da bere. Così andammo in macchina per finire la serata. Mi ricordo l’odore di arbre magique e la nausea che mi saliva. Salvatore tirò fuori delle pasticche e le diede a Rosaria e Pitrinu, che le tirarono giù con la birra corona, poi me ne mise una in mano. “Un aiutino.”
Io non dissi di no, perché anche a me non l’avevano insegnato. Mi avevano insegnato a non essere rispustiera e a parlare solo quando piscia la gaddrina. Poi non ricordo più niente, solo l’odore dell’arbre magique e lui che mi diceva “voltati” nell’orecchio.
Poi mi sono risvegliata senza mutande calvin klein, e ho vomitato sul sedile della macchina di Pitrinu.

Il giorno dopo sono andata da Rosaria a portarle le cose che mi aveva prestato, insieme a Dolores. Rosaria era arrabbiata, più che esserlo veramente recitava la parte dell’offesa. “Pitrinu sta ancora incazzato per la macchina sporcata, ho cercato di calmarlo, che te non sei abituata a certe cose” e io capii che invece lei ci era abituata o voleva farmelo credere. Era abituata alle pillole, alla birra corona, era abituata al sesso. Per me invece era solo la seconda volta. La prima era stata sulla spiaggia con Bastiano che avevo preferito a Salvatore, dopo che avevo lasciato la scuola. Lui non mi piaceva neanche, l’avevo fatto più che altro per rabbia, perché odiavo mia madre che mi aveva costretto a stare con lei al negozio invece che prendere il diploma. “Tu gli piaci tanto. Pigghiatelo! Il patre di Salvatore ha una ditta di colla e vernici. Con quello ti sistemi.” Alla fine si era calmata, ci aveva offerto un’aranciata, a me e a Dolores. Dolores aveva voluto anche la cannuccia e tutte le volte che tirava su faceva rumore e io mi vergognavo un sacco. Parlammo del più o del meno ma lo sentivamo tutte e due che era finita. Lei avrebbe sposato Pitrinu, con un gran matrimonio e un abito da bomboniera e il conigghiu all’auruduci e avrebbe avuto subito due figli, un maschio e una femmina, avrebbe smesso di lavorare, si sarebbe comprata una macchina con lo stereo a cristalli liquidi, roba così, tutto deciso. Lei era Sofì, la bambina con le treccine e il nome francese, che viveva in una casa elegante con la madre ottima cuoca e io invece ero io e basta. Per strada trovai un cassonetto e ci buttai dentro il sacchetto con la gonna diesel, la maglietta angel e demon, il reggiseno dolce e gabbana e le mutande cavin klein. Ci buttai dentro la nostra amicizia, che non era più la stessa e che finì a schifìo insieme agli altri rifiuti della mia vita. Quando mi girai, Dolores era sparita. La ritrovai pochi metri più avanti, nascosta dietro una macchina con le mani sugli occhi. Le tirai via a forza le mani dalla faccia. Disse: “Non ci voglio finire io là”. “Dove?” chiesi io. Lei fece: “Là, dov’è venuto il rumore. Là dentro” e indicò il cassonetto della spazzatura. Le asciugai il succo d’arancia all’angolo della bocca, buttai via la bottiglia, la riportai a casa. Lei tenne gli occhi bassi tutto il tempo.

Il mese dopo non mi vennero. Aspettai tre giorni, una settimana, due. Quella notte avevo fatto sesso, lo sapevo. Lo sapevo dallo sporco che mi era rimasto incollato alle gambe, lo sapevo dai vestiti gettati qua e là sul sedile della macchina. Ma non mi ricordavo molto, non mi ricordavo se avevamo usato qualcosa o di quando Salvatore era andato via, di quante volte lo avevamo fatto, né se era stato bello o brutto. Risentivo solo l’odore dell’arbre magique e il fiato di Salvatore che puzzava di birra corona. Sentivo la sua voce roca che mi diceva all’orecchio “voltati”. Non sapevo con chi parlare. Con Rosaria? Con la zia? Comprare un test in farmacia qui, in paese, manco a parlarne. Così approfittai del fatto che la mamma doveva fare un ordine al fornitore de l’oreal, presi l’autobus e andai a Ragusa. Davanti alla farmacia c’era un distributore di preservativi e appiccicato sopra un adesivo rosa con una donna tutta sorridente e la scritta “Qui test di gravidanza”, come a dire che se non usavi il preservativo, be’, eccoti servita. La logica conseguenza. Ma io avevo solo diciannove anni, ero stata scopata sul sedile posteriore di una macchina da uno che mi aveva abbandonato lì senza mutande, quindi che minchia avevo da ridere? Dietro il bancone c’erano due commessi, un uomo e una ragazza. Cercai di avere un’aria disinvolta, da giovane sposina che fa la spesa. Comprai del filo interdentale antiplacca neoemoform per il marito invisibile che avevo e il test. Mentre lei lo cercava nel retrobottega, continuavo il mio film della sposa felice, così, per farmi coraggio. Ci eravamo sposati da poco e zac!, miracolo, era successo. Oh, in realtà lo volevamo da tempo tutti e due. “Speriamo sia la volta buona” e poi con la commessa ci saremmo scambiate uno sguardo di complicità femminile… Magari avrei buttato lì anche un paio di nomi, avrei detto che volevo una bambina e che l’avrei chiamata Sofì e lei avrebbe detto: “Che bel nome francese, molto molto elegante”… Invece la commessa disse: “Venti euro” e mi sbattè la confezione sul banco. Era evidente come il sole che non se l’era bevuta, che pensava che me l’ero cercata e che ce l’avevo stampato in faccia come un brutto adesivo gigante: “scopata sul sedile posteriore”. Andai dal fornitore per mia madre e poi girai un po’ per le strade di Ragusa con una scatola di prodotti l’oreal tra le mani senza sapere cosa fare, mentre l’ansia mi saliva su per la gola. Nella strada principale vidi Nino, con un altro tamarro, che entrava in uno di quei posti dove puoi fare internet, chattare e comprare schede telefoniche per l’estero. I ragazzi andavano lì per chattare con le ragazze dell’est. Si inventavano che erano dei ricchi possidenti, e quelle cercavano di agganciarli per farsi sposare. Così finiva anche la favola dell’uomo blu che mi avrebbe portato via verso quel mondo fantastico e libero, quel posto matriarcale dove le donne decidono tutto loro. Il mio principe sul cammello scriveva zozzerie a una polacca con le tette grosse mentre io mi portavo in panza il figlio di uno che mi aveva scopata e abbandonata sul sedile posteriore di un’auto.

L’odore dello shampoo, delle tinture per capelli e degli acidi mi dava il voltastomaco. “Che hai?” mi diceva mia madre alla porta del bagno. “Guarda che devi togliere i bigodini alla Nunzia”. Continuavo a rigirarmi tra le mani l’indirizzo del consultorio che avevo scaricato da internet. Non sapevo cosa fare, avevo bisogno di parlare con qualcuno. Anche l’altra volta con Bastiano non avevo usato niente. Era durata poco, pochi secondi a dire il vero. All’epoca credevo che per non avere bambini bastava lavarsi dopo con la coca cola oppure farlo nell’acqua di mare o in piedi e l’effetto era assicurato. Ripensavo a Rosaria che mi aveva dato il reggiseno dolce e gabbana e le mutande calvin klein. Quindi era tutto appattato? La discoteca, il bere gratis? Salvatore mi aveva dato la pasticca con la birra corona, aveva detto “un aiutino”. Un aiutino per cosa? Io non avevo chiesto, avevo solo obbedito. Poi ero caduta in catalessi e lui mi aveva scopata. Ecco cos’era successo. E Rosaria? Non si era accorta di niente, dal sedile davanti? Il consultorio non era segnalato da nessuna parte e quando ci arrivai c’era solo un cartello che diceva: “Chiuso per ristrutturazione”. Era come la casa in costruzione, ci sarebbero voluti mesi, anni, forse una vita. “Un aiutino” aveva detto Salvatore. Un aiutino per cosa? Perché non ero tornata a casa? “Non è carino lasciare Salvatore in bianco, visto che ci ha offerto da bere gratis.” Gratis. La mia migliore amica mi aveva venduta per un ingresso ridotto e io avevo pensato che quella era la mia ultima occasione per fare il salto. Pitrinu scopava Rosaria e un giorno l’avrebbe sposata. Ma io che diavolo mi ero messa in testa? Volevo tornare indietro, volevo avere il coraggio di risvegliare il mio corpo addormentato per un incantesimo, quando Salvatore mi aveva cacciato la lingua in bocca. Ma ormai era impossibile. Tutti si sarebbero accorti di quello che avevo fatto.
Su una sedia del consultorio c’era un opuscolo, c’era scritto: “Movimento per l’amore”. C’era scritto: “Ascolta il grido silenzioso degli embrioni”. Nell’ultima pagina c’era la Madonna di Guadalupe con il bambino in braccio e sotto: “Scegli la vita”. Ma che minchia di vita avrei scelto, io?
A casa rifeci l’altro test che c’era nella scatola, forse il primo era sbagliato, invece no: doppia barretta. Prena. Era tutto vero. Allora chiamai Rosaria al negozio, non poteva perché aveva gente. Mi voltai e c’era mia madre con la scatola del test in mano e gli occhi fuori dalle orbite, occhi che mi lanciavano coltelli. “Chi è stato? Chi è stato?” Continuai a stare zitta e lei giù botte. Rosaria non richiamò quella sera. La richiamai io tardi, quasi di notte, disse: “Conci, ormai la frittata è fatta ma u megghiu beni è lu menu mali”. Questa poteva essere la mia grande occasione per fare il salto. Che anche lei sperava che succedesse con Pitrinu, anzi, che l’aveva convinto che se lo facevano in certe posizioni non era pericoloso, ma lei in realtà sperava di restare incinta e teneva le gambe in aria per far risalire lo spacchio. “Con quello ti sistemi.” Stavo per dirle che non volevo quel figlio, che non volevo sistemarmi con Salvatore. Che volevo scappare col mio uomo blu nel mondo dei Tuareg dove i fimmine sono libere, che stava oltre le dune del libro. Volevo dire tutte queste cose, ma a quel punto mia madre mi strappò il telefono di mano come una furia e mi spinse fuori dalla stanza, non capii cosa si dicessero fino a quando due giorni dopo vidi la macchina di Pitrinu parcheggiata sotto casa.

Fighting the storm, Into the blue, And when I loose myself I think of you”.

Pitrinu era seduto al volante e quando mi vide mi si venne incontro col solito tono cerimonioso, sempre con gli occhiali scuri in faccia. Mi disse di salire, andavamo a farci un giro e mi aprì lo sportello di dietro dicendo “prego”. Sul sedile c’era seduto Salvatore, bianco come un cadavere, tutto aggiarnato. Di nuovo l’odore di arbre magique. Pitrinu parlava del più e del meno, del tempo, del paesaggio, come se nulla fosse. Salvatore invece zitto, non diceva una parola, non mi guardava manco in faccia. Pitrinu si fermò vicino alla spiaggia, si girò verso di noi. “Rosaria mi ha raccontato tutto e Salvatore adesso vuol dirti due parole. Vero Totò?”. Salvatore balbettò che dovevamo risolvere la questione, in qualche modo. Intorno non c’era nessuno. Volevano farmi fuori? Forse avrebbe tirato fuori una pistola e me l’avrebbe scaricata tutta nella pancia. Forse mi avrebbero fatto a pezzi e infilato in un cassonetto. “Sappiamo, sappiamo che sei una brava ragazza, che non l’hai fatto apposta, è stato uno sbaglio ma agli sbagli bisogna riparare. Giusto Conci?”. Continuavo a non capire di che minchia stesse parlando. “Be’ non dici niente Conci? Non sei contenta? Ziti siete! Totò datevi un bacio, su. Un bel bacio qui sulla ucca”. E mise un dito sulla bocca di Salvatore. Mi sentivo come Dolores quando doveva baciare il fioraio… Ecco, eravamo uguali adesso, io e Dolores, tutte e due sedute in macchina di estranei, rapite dalla nostra vita, solo che io non avrei rimediato soltanto un fiore di plastica. Tutto gratis. “Un bacio, datevi un bacio” e io lo baciai ma non sulla bocca, sulla guancia sciupata dall’acne. “Ecco, bravi. E ora a festeggiare”. Di nuovo non riuscivo a dire niente, il corpo di nuovo paralizzato per l’incantesimo. Salvatore guardava fisso davanti a sé, pallido, con le labbra strette per la tensione. Era questo che mi aspettava? Dissi che non mi sentivo bene ma Pitrinu insistette. “Conosco una pizzeria sul mare, è di un amico, vedrai che ti piace, fanno le scacce con le melanzane. Scacce col petrosino, ricotta e salsiccia, anche con le seppie”. Allora dissi che stavo per vomitare. Minchia, parola magica. Fece testa coda e mi riportò subito a casa.

Tutto appattato, quindi. Mia madre aveva parlato con Rosaria. Sarei andata in treno a Messina, sarei rimasta qualche giorno da lei per inscenare una fuitina d’amore e poi sarei tornata incinta e Salvatore avrebbe riconosciuto il bambino. Col tempo ci saremmo frequentati, magari innamorati e sposati. Tu a Salvatore piaci. Era lui che non piaceva a me, ma questo non me l’aveva chiesto nessuno. Tutto doveva restare segreto naturalmente. Solo la zia lo sapeva. Mi aveva preso da parte e mi aveva portato in camera da letto. Aveva steso il suo vestito bianco che sembrava una bomboniera. Mi aveva fatto vedere che si poteva allargare così non mi si sarebbe vista la pancia. Mi raccontò di nuovo, per l’ennesima volta, del suo matrimonio e mi sciorinò come un disco rotto tutto il menu: pastizzu di cavateddi cavati, cunigghiu all’auruduci e bucciddati di casa. Sembrava la preghiera per i morti e il vestito disteso era il mio cadavere, pronto per la sepoltura. “Non fare la faccia triste, l’amore viene dopo. U megghiu beni è lu menu mali.” Nel suo caso però non era successo. Dopo la nascita di Dolores, i rapporti con lo zio si erano congelati. Lui l’aveva ritenuta responsabile, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. La zia teneva dei soldi nascosti in una calza, li aveva conservati per le occasioni speciali. “Questi sono per te, per quando ti sposi, così fai un bel matrimonio con un bel pranzo.” E Dolores? “Non si sente bene”. Quando entrai in camera sua, fece finta di dormire. Le dissi che lo sapevo che non era vero e a lei scappò da ridere. Smise subito però. “Ti devi rimettere se no chi glielo dà il mangiare a Occhiopinto?”. Neanche la storia di Occhiopinto riuscì a scuoterla. A un tratto mi indicò la panza e disse: “Hai un bambino lì”. Nel momento in cui lo disse, lo realizzai anch’io per la prima volta. Prena. Era vero. “Masculo o fimmina?” chiese Dolores. “Non lo so” dissi, “è presto”. E la zia: “Se è tonda fimmina, se è a punta masculo. E ora basta con quei discorsi, è ora di alzarsi dal letto e di mettersi un bel fiocco tra i capelli. Anche il fioraio è passato questa mattina, quando la signorina ancora dormiva, per chiedere notizie e che figura ci ha fatto a non volerlo neanche vedere! Poveretto, ha insistito tanto di salutarla, di farle gli auguri. Che gentile”. Il fioraio in paese piaciva a tutti i pirsuni. “Devi alzarti, vestirti, farti carina per il tuo fidanzato”, e cercava di tirarle via il linzolo. “La matinata fa la jurnata”. Ma Dolores non voleva proprio lasciare il letto, ci stava attaccata come una zicca. Anche lei tirò il linzolo e la stoffa alla fine si strappò, trac! Poi ci fu un gran silenzio. Ma non era silenzio. Era un urlo e questo noi lo sapevamo. Poi la zia raccolse il linzolo senza dire niente, ne fece una palla, se la mise in grembo e se ne andò in cucina a fare la caponata.
A quel punto Dolores mi guardò dritto in faccia: “Megghiu masculo”, disse.

Sai, non me la dimentico Dolores attaccata al linzolo come una zicca che non vuole lasciare il letto della sua stanza rosa da bambina. L’ultima volta che l’ho vista camminava tra il fioraio e Enzo Vitaliano, verso la casa in costruzione, con una bedda scocca tra i capiddi.

Per raggiungere Messina ci volevano molte ore di treno. Avevo messo in valigia poche cose, senza pensarci troppo, cose di cui non mi fregava nulla. La fotografia dell’uomo blu la lasciai perché mi aveva tradito. Non esisteva quel mondo matriarcale dei Tuareg, dove i fimmine decidono tutto loro e fanno le leggi. In Africa, forse, in capo al mondo ma io non avrei mai potuto viverci. Così chiusi la foto in un cassetto, insieme ai Tokio Hotel e a tutti i sogni spezzati della mia vita. Salvatore mi sarebbe venuto a prendere a Messina, poi mi avrebbe portato da Rosaria, poi sarei tornata a casa. Fine della corsa e capolinea. Solo che con mia grande sorpresa non c’era alla fine del binario. Cinque, dieci minuti, mezz’ora. Per un attimo ebbi il panico. Un uccellino a cui avevano aperto la gabbia per sbaglio, un aceddru che se ne sta lì fermo, invece che volarsene via. Poi non so cosa sia stato. Forse il vento del deserto africano, che continuava a soffiare dal cassetto. La mattina dopo ero a Milano. Mi sentivo come una musca in un moscu. Cosa avrei fatto, dove sarei andata? Le strade piene di macchine parcheggiate in doppia fila, le case costruite in poco tempo, i negozi con cose bellissime e invitanti. Mi fermai in un grande magazzino e mi ritrovai nel reparto bambini. Forse lo avrei tenuto, anche se era di Salvatore. Forse era questo il disegno divino. Immaginavo la faccia di Rosaria quando non mi aveva visto arrivare… Mia madre attaccata alla bottiglia a ingozzarsi di mon cheri, la zia con le braccia al cielo, matre santa… E Salvatore che scusa si sarebbe inventato? Scelsi una maglietta verde prato, verde come gli occhi di Nino, forse era troppo grande, non lo so perché non m’intendevo molto di bambini, ma poi mi prese un capogiro, gli occhi mi facevano pupi pupi, mi sentivo svenire. Subito arrivò la commessa, mi ritirò su, raccolse la maglietta. Era sporca di sangue. Sul pavimento c’era una piccola pozza di sangue. Mi scendeva giù dalle gambe. Se ne stava andando via. Ero sola, a Milano come una musca in un moscu e non conoscevo nessuno. Chiesi l’elenco del telefono, lo aprii alla voce “Tatuaggi e massaggi”. Poco dopo al telefono, sentii la voce della Sabry.

La ginecologa non diceva una parola. Mi visitò e cominciò a scrivere. Forse c’era un problema. Che problema? Finché non erano fatte le analisi non poteva dire niente. Tutto il mondo mi cadde addosso. Non ero pronta per altri problemi. La dottoressa scriveva sul foglio, senza guardarmi in faccia. Mi feci coraggio e le chiesi: “E se non volessi tenerlo?”. “Ultime mestruazioni?”. Dissi una data. “Sei all’ottava settimana, non c’è più molto tempo”. Che potevo fare? Obbiettore di coscienza, non poteva rispondermi. Quello era il reparto C. Dovevo cercare la dottoressa Zamboni nel reparto B. “Va bene, buongiorno”. Non rispose. C’erano dei problemi. Che problemi? Avrei partorito un figlio come Dolores? Minorata psichica. L’avevano chiamata sempre così, da quando l’assistente sociale l’aveva scritto sul certificato. Nessuno aveva mai capito che cosa era esattamente che non andava in Dolores. Problemi. La zia la teneva chiusa in casa, oppure la faceva uscire solo con me e adesso anche col fioraio. Mentre aspettavo la Sabry mi si avvicinò una tipa, mi mise un volantino in mano. Mi spiegò che il suo centro aiutava i fimmine come me le ragazze malavinturose che commettevano errori. Arrivava addirittura a pagare le spese, poi alla fine però dovevo mollargli il bambino. Io piangevo, le dissi che il mio bambino aveva problemi. Disse: “Be’ comunque il volantino col numero te lo lascio lo stesso”. Le foto del volantino erano di coppie felici: c’erano due volontari che si tenevano per mano e lo slogan “casti fino al giorno del sì”, c’erano mamme extracomunitarie col pancione e perfino la storia di una che aveva partorito in un polmone d’acciaio. L’africana della sedia accanto mi disse: “Terzo figlio do via. Centocinquanta euro al mese ma no bene, bambini no adottati, orfanotrofio. Questo ultimo, prossima volta…” e mi indicò una porta. Dietro quella porta, nel reparto B c’era un ronzio, come un rumore di aspirapolvere. Qualcuno, forse la dottoressa Zamboni, chiamava per nome e si entrava all’inferno. Io stavo in mezzo. Sarei rimasta sempre seduta su quella sedia, a metà, come la casa in costruzione che si capiva che sarebbe rimasta in costruzione. Nessun cavaliere blu mi avrebbe portato via da quella sedia. Ci sarei rimasta assittata come le vecchie al paese. Invece arrivò la Sabry e mi rimise in piedi.

Il bambino aveva dei problemi. Non ero pronta ai problemi. Non ero pronta e basta, questa era la verità. Provai a chiamare mia madre. Il telefono suonò tre volte, poi rispose. Aveva la voce impastata, come quando beveva troppo. Me la immaginavo distesa con i suoi liquori sul divano, tra le carte dei mon cheri, a pensare a quanto era stata malavinturosa la sua vita, un marito che l’aveva lasciata nel fiore degli anni e una figlia gran truscia. Io non dissi nulla, lei nemmeno. Poi riagganciò. Ecco, quel silenzio mi fece male come una coltellata. Dovevo sbrigarmi, non c’era più molto tempo. Dovevo decidere io, decidere cosa era meglio per me, per la mia vita. Ma io non ero abituata a prendere decisioni. Ero abituata solo che non si doveva essere rispustiera. Ero abituata come Nino, a prendermi la colpa e basta. A quello ero stata abituata, dalla scuola, dal paese, dai genitori. Quando decisi la Sabry disse solo: “Ti accompagno”.
Poi ci furono giorni interminabili, di pratiche, di domande e di attese. Alla fine mi ritrovai anch’io dietro la porta, nel reparto B, col rumore dell’aspirapolvere nelle orecchie. Con quel rumore, se ne andava via la ragazzina che credeva agli uomini blu, alle società matriarcali, agli occhi verdi dorati. La ragazzina che non aveva potuto finire la scuola perché la mamma era depressa, che aveva strappato la foto dal libro solo per richiamare su di sé l’attenzione dell’insegnante, che non aveva fatto mai il salto, quella morì di nuovo e per sempre, nel reparto B della dottoressa Zamboni. L’infermiera mi diceva: “Che piangi a fare? tanto ormai è inutile”. La cosa peggiore comunque è stata quando è arrivato quel tipo a chiedermi se volevo seppellire i resti. Aveva anche un piccolo catalogo di bare, delle cassettine di legno con una croce disegnata che si potevano chiudere ornandole con un fiore. Se volevo, poteva essere anche disposto un funerale con la preghiera col Rosario e un piccolo corteo funebre fatto da chi voleva pregare per i fratelli embrioni. “Altrimenti vengono inceneriti”. Per fortuna arrivò al galoppo la Sabry. Lo spinse via, gli disse che no, non volevamo funerali e sepolture. Che si tenesse le sue bare. Gli rovesciò d’incollo il suo rosario personale di bestemmie. La Sabry non si vergognava a essere rispustiera. Io però non riuscivo a smettere di piangere e di odiarmi finché un giorno, sai, mi ritrovai davanti allo specchio con un paio di forbici in mano. Mi tagliai i capiddi luogni ciocca dopo ciocca, lei entrò in bagno e mi tolse le forbici di mano. Poi mi disse: “Ora ti faccio vedere il decimo tatuaggio”. La Sabry aveva sempre saputo che le piacevano i fimmini, fin da quando sbavava dietro alla prof di ginnastica alle medie, ma aveva cercato di cambiare e per un po’ era stata con un ragazzo, era carino, carino come una fimmina, e si dovevano pure sposare. Il problema era che lei non ce la faceva perché s’innamorava continuamente, per strada, al lavoro, sull’autobus. Era rimasta incinta e aveva abortito di nascosto. I fratelli l’avevano insultata dicendo che era il disonore della famiglia e non le avevano più rivolto la parola e così pure la madre. Si era tagliata le vene. Solo di un polso, perché i tagli erano talmente profondi che era subito svenuta. Era quello il decimo tatuaggio, quello sotto la polsiera, una sorta di ragno di ferite, e me lo fece vedere. Poi prese la sua valigetta misteriosa delle tinte per capelli e mi disse: “Tutti abbiamo un colore dentro. Che ci piaccia o no, non ci possiamo fare niente. Cu nasci tunnu un po’ moriri quadratu”. Il suo colore era di baciare i fimmini, fare piercing e massaggi e tagli scalati come nelle riviste “Top girl”, “Cosmofashion” e “Colpo di spazzola”. Mi ha detto di scegliere il mio e dopo mi ha tinto i capelli. Alla fine per l’abitudine di tutta una vita, dissi la solita frase di mia madre: “Tanto non dura”. E la Sabry:

“Non importa che duri, è importante averci creduto”.

Fighting the storm, Into the blue, And when I loose myself I think of you,
Together we'll be running somewhere new
Through the monsoon. Just me and you”.

Sono rimasta quasi due mesi a Milano. Il dolore non smetteva, solo che era sceso, non era più nella gola e nel petto, era entrato dentro, nascosto, pronto a saltare fuori. Smettevo e ripartivo. Avevo trovato lavoro in prova da un parrucchiere, un posto completamente diverso dal negozio di mia madre, minchia, sembrava una piccola azienda. Eravamo tanti, ognuno con un compito diverso. Io ero shampista, ma dopo una settimana venni promossa a phonista, facevo le pieghe. Nel negozio passava di tutto, gente di tutte le età. Era divertente. Quando mi sentii un po’ più forte, telefonai di nuovo a casa. Non mi rispose nessuno e neanche la sera dopo. Allora chiamai la zia e mia madre mi disse che Dolores era morta.

Era caduta dall’ultimo piano della casa in costruzione. La zia si era svegliata di notte e non era nella sua stanza. L’avevano ritrovata soltanto la mattina dopo stesa per terra davanti alla villa con il cranio spaccato. Era successo dieci giorni fa. C’erano già stati i funerali. Il giorno dopo presi il treno per tornare. Era una di quelle giornate irrespirabili di caldo afoso e senza un filo di vento africano. Andai alla casa in costruzione dove avevano trovato Dolores. C’era una tremenda puzza di piscio e di marcio. Scritte sui muri. Era caduta dall’ultimo piano. Non me la vedevo proprio Dolores a sporgersi fino a cadere. Lei così prudente, sempre, lei che aveva paura delle macchine e dei rumori assordanti. Del cassonetto, di finirci dentro. L’avevano minacciata. Mentre salivo le scale, me la sentivo nel sangue, la certezza. All’ultimo piano c’era uno stanzone vuoto e un materasso in mezzo. Non puzzolente, nuovo. Lenzuola di negozio. Una specie di stanzetta ricostruita. Bottiglie vuote. Un aiutino. Preservativi usati per terra. In un angolo c’era anche uno scatolone e dentro ci stava Occhiopinto, morto già da un po’, accanto a un piattino vuoto di croccantini. Dolores doveva avercelo infilato dentro per nasconderlo. Per proteggerlo, forse. Occhiopinto era sparito, da un giorno all’altro. Non era sparito, l’aveva nascosto lei. Dolores avrebbe voluto fare la baby sitter da grande. Aveva fatto la scena del gatto fantasma anche con me, perché anch’io ero un nemico. Era caduta. No. Si era buttata. No. Ero sicura che non era andata così. È che non l’avrebbe mai fatto. Non avrebbe mai lasciato da solo il suo gattino. Sotto il materasso c’era una ventina di fiori di plastica, tenuti insieme con una scocca. Allora presi lo scatolone con Occhiopinto dentro e andai a casa della zia. “Buongiorno e buonasera. O schifu. Buttana. Scopata sul sedile posteriore. Gran truscia.” Mia madre si alzò dal letto dove stava sdraiata la zia e mi spinse in cucina. “Che hai fatto ai capiddi?”. Non riusciva a dirmi niente, solo quella frase dei capiddi. Poi guardò dentro lo scatolone e si mise a strillare. Santa matre. Fete, fete. La zia guardò dentro, ma non alzò le braccia al cielo, mi fissò senza capire. Come una minorata psichica. Mia madre prese lo scatolone e fece per portarlo in strada, per buttarlo nel cassonetto. Fu a quel punto che io iniziai a urlare.
Urlai tutte le risposte che non avevo mai detto in vita mia. Urlai tutto il silenzio che avevo dentro. Urlai per me, per Dolores e per il bambino che era stato risucchiato dall’aspirapolvere. Urlai per non essere stata rispustiera quando Salvatore aveva detto “voltati”, per i fiori di plastica, per il fioraio e Enzo Vitaliano, per Dolores seduta in macchina, per non averle chiesto chi la voleva infilare nella spazzatura. Urlai per aver lasciato la scuola, per non aver fatto il salto e essere rimasta una casa lasciata a metà.
Quando finii mia madre mi tirò uno schiaffo.

La zia però era rimasta zitta, aveva solo ascoltato. Rigirava tra le mani i fiori di plastica tenuti insieme col fiocco per i capelli. Poi si alzò, senza dire una parola, andò allo stanzino e prese la pistola. Mia madre disse: “Che fai?”. Lei le disse: “Scostati”. Le donne la seguirono. Era uno strano corteo matriarcale, per le strade deserte del paese, nell’ora della pennichella. Le case avevano le tapparelle abbassate, si sentiva qualche televisione accesa. Mia zia andò dritta verso i giardini. La chiazza. Enzo Vitaliano stava bevendo il caffè, insiema al fioraio, erano seduti sulla panchina centrale. Mia zia gli buttò in faccia i fiori di plastica. “Che avete fatto alla mia bambina?”. Vitaliano fece la faccia sorpresa. “Assittati. Posso offrire qualcosa? Un gelato? Una brioche col pistacchio, col tuppo?”. E la zia: “Quella era la mia bambina”. Lui si alzò, fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca. “Itivinni”. Mia zia sparò un colpo. Vitaliano ricadde sulla panchina. Poi la zia sparò altri tre colpi in aria e buttò la pistola. Era il suo urlo silenzioso che usciva. Lo teneva dentro da quando era nata Dolores. L’aveva urlato tutte le notti passate da sola, mentre lo zio faceva la guardia notturna. L’aveva urlato durante quei pranzi a base di caponata e quando l’assistente sociale aveva chiamato Dolores “minorata psichica”. Per gli altri era una minorata psichica. Per tutti gli altri, anche per lo zio, tranne che per lei. Per lei Dolores era solo la sua bambina. La pettinava. Le metteva le scocche. Gliene aveva messa una tra i capiddi anche prima di chiudere la bara.

Ci ritrovammo tutte e due, io e la zia, sedute davanti alla casa in costruzione. Guardavamo la casa che non sarebbe mai diventata una villa e pensavamo che anche noi eravamo case lasciate a metà. Tutte e due avremmo avuto per sempre dentro un buco, una stanza vuota senza più pavimento con le pareti piene di scritte oscene. Siamo state un bel po’ di tempo, là sedute. Poi abbiamo sotterrato Occhiopinto in quello che doveva essere il giardino della vila. L’abbiamo seppellito sotto il gazebo immaginario, accanto alla piscina fantasma. Dopo ci sono venuti a prendere. La zia non aveva ucciso Vitaliano, l’aveva ferito solo di striscio. Nessuno aveva chiamato la polizia. Se la polizia avesse saputo, Vitaliano avrebbe dovuto dire perché se ne stava in panchina in chiazza a bere il caffè, invece che a casa sua agli arresti domiciliari. Così fu scelto ancora una volta il silenzio. Però successe qualcosa di incredibile, sai. Quando mia madre dopo due giorni di divano, liquore e mon cheri riaprì il negozio ebbe un sacco di clienti. Minchia, gente che non ci aveva mai messo piede. Dopo il fatto della zia, i fimmine si erano come risvegliate dall’incantesimo e volevano stare vicine. La mamma fu costretta a chiedermi di aiutarla visto che era da sola ora che la Sabry se n’era andata. Per qualche giorno mi sembrò davvero che esistesse quella società matriarcale di cui parlava il libro dei Tuareg. Sapevo che non sarebbe durata, ma la cosa importante era che almeno per un attimo quelle donne ci avevano creduto. Poi una sera, vicino all’orario di chiusura, mi chiamò la Sabry. Disse che dal parrucchiere di Milano mi avevano cercata, mi prendevano a lavorare per altri sei mesi, un contratto a termine poi si vedeva. Mia madre era dietro la tenda, dove di solito facciamo il caffè. Stava guardando una rivista, era un giornale con le acconciature moderne, non so se “Top girl”, “Cosmofashion” o “Colpo di spazzola”, e su una pagina c’era una grecchia per ricordarsi. L’aveva tenuto nascosto in negozio per tutto quel tempo. Le dissi: “Devo tornare a Milano”. Di nuovo le vidi in faccia il terrore di perdermi per sempre e la paura di tenermi. Chiuse a chiave la porta, tirò le tendine. Si sedette davanti allo specchio, mi mostrò la rivista, aperta alla pagina dove aveva fatto la grecchia. Li voleva accussì i capiddi, ma un po’ meno moderni. Mi diede le forbici in mano. “Tagghia.”

Lo stato matriarcale non durò infatti, come non durano le cose a questo mondo. Non durò neanche il fidanzamento tra Rosaria e Pitrinu. Lui si mise con la figlia di uno ricco, che aveva un vivaio. Non è durato neanche il matrimonio della zia, che del resto era finito già col pranzo di nozze, insieme ai buccidati di casa. Io ho ripreso il mio treno per Milano, mi sa che per un bel po’ non ci torno al paese. Per strada mentre andavo a prendere l’autobus per la stazione ho incontrato Nino. È rimasto stupito di vedermi così, con i capiddi curti e mezzi tinti. Per un attimo ci siamo incrociati, ho visto di nuovo quel verde dorato. Non ci siamo detti niente, siamo tipi di poche parole noi. Però stavolta non ha abbassato lo sguardo, sai. Credo che mi abbia sorriso.

Domani è il mio compleanno, compio venti anni. Non mi sembrano né pochi né tanti. Non mi sento che sto andando avanti ma neanche che sto tornando indietro. Ho la foto dell’uomo sul cammello in borsa e la cassetta dei Tokio Hotel nelle orecchie. Sono sola in questo viaggio. Sola con te. Tu ci sei sempre, come un dolore caldo che ormai fa parte del mio corpo, che non smette. Tu sei l’unica cosa che dura. Mi schianti e mi tieni in vita. È strano ma ho cominciato a sentirti dentro quando ormai non c’eri più, dopo che l’aspirapolvere ti aveva risucchiato. Ti sento ora che non ci sei. Comincio a provare qualcosa per te, qualcosa che somiglia all’amore che le madri hanno per i figli, comunque siano. Non c’è giorno che passa che io non mi chieda come saresti stato. I capiddi e gli occhi. Lo sguardo dritto o abbassato. Che carattere avresti avuto, di che colore sarebbe stata la tua anima, perché tutti abbiamo un colore dentro, come ha detto la Sabry. Basta solo crederci, anche se poi col tempo sbiadisce, come la tintura.

Sul treno che mi riportava a Milano c’era una famiglia, papà, mamma e una bambina piccola, avrà avuto tre anni, non lo so di preciso, non mi intendo molto di bambini. Per la prima volta non ho visto Sofì con mio padre. Per la prima volta non mi sono sentita abbandonata. Ero con te. Me l’ha detto lei, sai, qual è il tuo colore. L’inzertò, è uguale al mio. A un certo punto un raggio di sole mi è passato sul viso, mi ha illuminato tutta la faccia, solo per un attimo. Lei allora si è messa a ridere, ha indicato i miei capelli e ha detto alla mamma: “È blu”.