Esodo

di Diego Runko

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«Onora tuo padre e tua madre, perché i tuoi giorni siano lunghi sulla terra che il Signore, tuo Dio, ti dà.»
Esodo 20,12

 

 

1. L’INIZIO DI TUTTO OVVERO IN PRINCIPIO ERA UN CANTIERE

Quando ero piccolo mio nonno aveva una barca. Non era niente di speciale, una di quelle barchette in materiali plastici che si vendevano negli anni Ottanta in Jugoslavia. Era lunga cinque metri e poteva trasportare sei persone. Dopo essere andato in pensione, mio nonno la usava per andare a pesca, due o tre volte la settimana. Gli piaceva pescare soprattutto di notte. E soprattutto calamari. Non ho mai capito se avesse iniziato a pescare calamari perché gli piaceva pescare di notte o se avesse iniziato a pescare di notte perché gli piacevano i calamari. Di sicuro io i calamari, da bambino, li odiavo. Mio nonno ne pescava circa dieci chili a settimana. Non sapevamo più dove metterli. Mangiavamo calamari praticamente tutti i giorni.

Il sabato o la domenica capitava che andassimo a fare un giro in barca con lui, a pescare. Vicino al molo dove avevamo la barca, in riva al mare, trovavamo sempre seduto un vecchietto, Rudy. Passava le giornate a fissare il mare e salutare i passanti. Di tanto in tanto qualcuno gli offriva un panino o qualcosa da bere, e questo gli bastava. Rudy era basso, magrissimo e pieno di cerotti. Aveva cerotti ovunque, sulle mani, sui piedi, sulle spalle, spesso anche in faccia. Non ho mai capito davvero a cosa gli servissero. Ne aveva talmente tanti che la gente aveva preso a chiamarlo «tacamaco», che in dialetto significa appunto cerotto. Rudy Tacamaco ci salutava sempre prima che salissimo in barca e mi faceva sempre la solita domanda:

«Ciò, te go mai contà de quela volta che un slovén me voleva far lavorar?»

«Sì, Rudy» gli rispondevo, cercando di troncare il discorso in fretta perché sapevo che altrimenti mi avrebbe raccontato la solita storia per l’ennesima volta.

Ogni volta chiedevo a mio nonno chi fosse in realtà Rudy ma non voleva mai parlarne. Lo salutava e basta. Rudy era una presenza fissa. Una di quelle persone che sembrano nate e cresciute in un certo luogo, senza mai spostarsi. Rudy Tacamaco viveva seduto in riva al mare.

Non mi sono mai annoiato tanto in vita mia come quando andavo a pescare. Stavamo seduti per ore a fissare l’acqua con una lenza in mano. Ad aspettare che qualcosa abboccasse. Il silenzio era sacro quando si pescava. Nel caso non mi fosse chiaro mio nonno me lo ricordava affettuosamente ogni cinque minuti.

«Sst! No sta parlar, mona! Se i te senti i va via!»

La parte più bella era il viaggio di ritorno. Prendevo possesso del motorino posto a poppa e conducevo io la barca. Quando entravamo nella baia di Pola, mio nonno ci faceva spegnere il motore e guardare il panorama. Per quante cose belle possiate aver visto nella vostra vita, davvero poche sono all’altezza dell’Arena di Pola vista dal mare. E sulla destra, poco più in là, si stagliavano alte verso il cielo le gru del cantiere navale. «Uljanik» era il nome che gli era stato dato con l’arrivo della Jugoslavia ma tutti, a partire da mio nonno, lo chiamano «Scojo Olivi». Il nome veniva dal fatto che l’isolotto sul quale venne costruito il cantiere navale austriaco nel 1856, prima ospitava degli alberi di ulivo. Mio nonno ci aveva passato più di quarant’anni della sua vita, su un tornio. E quando lo vedeva dal mare, Scojo, gli si inumidivano sempre gli occhi. Poi tirava su col naso e faceva finta di nulla. Prendeva i panini che la nonna aveva preparato per tutti e li passava a me e mio fratello con la frase di rito che accompagnava ogni inizio pasto:

«Deso che lavori chi che ga fame.»

Ce ne stavamo lì, in mezzo al mare, ognuno con la sua bellezza negli occhi. Noi a guardare l’Arena, lui le gru di Scojo. E per mandare giù i bocconi avevamo una grande bottiglia d’acqua che ci passavamo come fosse whiskey. Mangiavamo panini al formaggio e Gavrilovic, una specie di salame ungherese. Se penso alla felicità a quei tempi, per me ha il sapore di un panino al formaggio e Gavrilovic guardando l’Arena. Altro che calamari.

 

2. GLI HISTRI OVVERO QUESTA È CASA MIA E QUI COMANDO IO

Immaginate una penisola. Un pezzo di terra bagnato dal mare per tre quarti e con un parte attaccata alla terraferma. Immaginate che questa penisola abbia la forma di un triangolo più o meno isoscele con due lati lunghi e una base più corta. Immaginate che la base sia in alto e che il triangolo sia capovolto verso il basso. Ora immaginate i vertici della base. Il vertice di sinistra lo chiameremo «Trieste». Il vertice di destra lo chiameremo «Fiume». L’ultimo, il vertice basso, lo chiameremo «Pola». Immaginate il vertice Trieste chiamarsi anche «Trst», il vertice Fiume chiamarsi anche «Rijeka» e il vertice Pola, «Pula».

Immaginate che i primi ad arrivare su questa penisola, e di cui abbiamo notizia, siano stati gli Histri, un popolo che veniva dall’Est, da molto lontano. Come ogni primatista, anche gli Histri vollero piantare la propria bandiera sulla terra appena conquistata e fondarono una città, di nome Nesazio. Questo accadeva tremila anni prima che noi ci ritrovassimo qui a parlare di loro. Immaginate gli Histri che su questa penisola costruiscono molti castellieri, una sorta di città fortificate, per dire chiaro e tondo a tutti: «Questa è casa mia e qui comando io». Si vede che anche a quei tempi non si fidavano degli estranei.

Ora immaginate gli Histri vivere più o meno serenamente per circa ottocento anni e poi essere invasi da un popolo molto più forte e numeroso di loro: i Romani. I Romani occupano i loro castellieri, iniziano a costruire le loro città e in pratica dicono chiaro e tondo agli Histri: «Questa sarà anche casa tua, ma qui comando io e se non ti sta bene quella è la porta». Immaginate tanti Histri andarsene indignati, anche se contenti di essere ancora vivi, ma immaginatene altri restare e imparare a vivere con i Romani. La Regione X dell’Impero Romano viene appunto chiamata Histria. Ma i tempi cambiano e le vittorie passano. Sic transit gloria mundi. Nessuno meglio dei Romani poteva saperlo.

Dopo di loro, immaginate nella nostra penisola molti popoli, che non sempre arrivano per restare: Goti, Bizantini, Franchi. Ormai non si sapeva quasi più di chi fosse casa quella penisola, ma di certo comandava, di volta in volta, chi aveva l’esercito più forte.

Immaginate che circa settecento anni dopo la nascita di Nostro Signore, dei popoli che venivano anche loro da lontano, si stabiliscano in Istria per restarci: gli Slavi che magari avranno pensato «certo, questa non è casa mia, ma in fondo in fondo si sta bene, e a dirla tutta è una vita che viaggio e finora non ho certo trovato di meglio».

A questo punto immaginate Venezia, non la città, la Repubblica marinara di Venezia, che intorno all’anno Mille prende possesso dell’Istria.

Trecento anni dopo, una delle dinastie nobiliari più importanti che il mondo abbia conosciuto, gli Asburgo d’Austria, prendono possesso della parte nord orientale e centrale dell’Istria mentre la parte occidentale e meridionale resta veneziana.

Riprendete per un attimo l’immagine del triangolo isoscele a testa in giù. Ora dividetelo in due, in parti uguali. La parte sinistra immaginatela di colore rosso e oro, i colori di Venezia, e la parte destra di color rosso e oro, i colori degli Asburgo. Si, è vero, è tutta rosso e oro, ma non è colpa mia se i nobili del tempo avevano poca fantasia cromatica.

Trecento anni dopo immaginate una terribile pestilenza abbattersi sugli abitanti di quella zona, tanto terribile da farne sopravvivere pochissimi. Immaginate poi la penisola ripopolata, per il volere dei Veneziani, principalmente con popolazioni di etnie slave. Da questo momento, e siamo nel diciasettesimo secolo, l’Istria attraverserà i secoli successivi con queste popolazioni: coste e principali centri urbani di lingua istroveneta, campagne e paesini interni di lingua slava.

Poco dopo immaginate arrivare un piccolo uomo su un grande cavallo bianco – Napoleone, questa non era difficile – che cancella per sempre dalla storia futura la Repubblica di Venezia.

Per molti anni l’Istria sarà solo degli Asburgo, quindi rossa e oro, esattamente come prima.

Bene. Ora potete smettere di immaginare. Quello che succede in Istria, da questo momento in poi, supera la vostra immaginazione.

 

3. IL FASCISMO OVVERO PRIMAVERA DI BELLEZZA

«Fazzoletti rossi
di seta e cotone
rossi come il sangue
dei nostri partigiani
pionieri indomiti
noi la patria amiamo
noi siam bimbi piccoli
buoni e laboriosi.»

Avevo 7 anni quando sono diventato pioniere. Era il 1988. I pionieri erano una sorta di piccoli partigiani. Ma senza fucile. Mi ricordo quella giornata come se fosse oggi. Eravamo al Circolo, la comunità degli Italiani di Pola. Era il posto dove tutti coloro che erano di minoranza italiana a Pola si radunavano per fare festa. Soprattutto mi ricordo la canzoncina che cantavamo e come eravamo vestiti. Io avevo una camicia bianca, dei pantaloni blu e delle scarpe nere. Al collo avevo un farfallino nero e sopra le spalle un fazzoletto rosso legato sul davanti; in testa un cappello a forma di bustina, come quelli dei partigiani, solo che il mio era blu. E come quello dei partigiani aveva una stella rossa. Eravamo tutti uguali. Dei piccoli soldatini.

Era il 1988 e io ero un pioniere. In seconda elementare era un momento cruciale della propria formazione. Tutti diventavano pionieri. Era un po’ come oggi fare la comunione. O la cresima. Solo che oggi si può anche non farla la comunione. O la cresima.

Era il 1988 e io e i miei compagni fummo gli ultimi pionieri che la Jugoslavia ricordi.

Più di cinquant’anni prima, più o meno alla mia stessa età, anche mio nonno frequentava una scuola italiana, a Pola. Anche se allora, a essere in minoranza, erano i Croati. Ma non avevano scuole dove ritrovarsi. Il croato era proibito, insegnarlo era proibito, parlarlo in qualsiasi contesto pubblico pure. Tutte le associazioni sportive e culturali croate erano chiuse. Tutti i cognomi croati erano stati cambiati e italianizzati. Moltissime persone scelsero di andarsene. Non solo da Pola, ma da tutta l’Istria, da Fiume e dal Quarnero. Centomila persone di lingua e cultura slava lasciavano le loro case. Ma anche allora i bambini cantavano.

«Giovinezza, giovinezza
primavera di bellezza
della vita nell’asprezza
il tuo canto squilla e va!»

Dopo la fine della Grande Guerra, Pola e tutta l’Istria erano passate dagli Asburgo al Regno d’Italia. Dal rosso e oro di prima si era passati al tricolore.

Mentre cantava insieme agli altri bambini mio nonno indossava una camicia nera, due bretelle e un cinturone di colore bianco, pantaloni e calzettoni in lana grigio-verde con due righe nere sulle rovesce, scarpe nere, un fez in lana nera. Anche tutti gli altri bambini erano vestiti così.

Era il 1933 e mio nonno e i suoi compagni furono la prima generazione di figli della Lupa.

 

4. LE FOIBE OVVERO CI CHIAMAVANO FASCISTI ERAVAMO ITALIANI

Pola sorge su sette colli.

Io sono cresciuto sul colle di Castagner, che si trova alle spalle dell’Arena. Lo hanno chiamato così perché in passato il colle era ricoperto di castagni. Una volta questo era un criterio fondamentale per stabilire la toponomastica. Esattamente come era avvenuto per Scoglio Olivi, il cantiere navale.

Da bambino mi ricordo che il 1ˆ maggio venivano aperte le porte del cantiere e chiunque poteva entrare e visitare il posto di lavoro dei propri cari. Mia nonna ci preparava le «fritole», una specie di frittelle con l’uva passa, e dei panini con Gavrilovic e formaggio. Quelli non potevano mancare. Capitava sempre di incrociare anche Rudy Tacamaco che, appena mi vedeva, mi faceva la solita domanda:

«Ciò, te go mai contà de quela volta che un slovén me voleva far lavorar?»

«Sì, Rudy. Ti vol forsi una fritola?» gli chiedevo.

«No, grasie. Ti ga qualcosa de bever?»

«Go una fiasca de acqua» gli rispondevo.

«Ah, no sta bever quela roba, picio, che te fa mal. No ti ga un fiasco de vin?»

Per più di quarant’anni mio nonno aveva lavorato al suo tornio per più di dodici ore al giorno. Mi diceva sempre che lui era nato per lavorare e l’unico suo dispiacere era stato invecchiare e andare in pensione, lasciare il tornio ad un altro. Aveva iniziato a lavorare a 12 anni. Era il 1940 e l’Istria, così come tutta l’Italia fascista, stava entrando in guerra al fianco della Germania.

Fojba è il nome del torrente che scorre sotto il castello di Pisino, in una voragine profonda circa 130 metri. Mio nonno ricorda che, quando andava a scuola, c’era una poesia riferita alla Fojba di Pisino che veniva fatta studiare a memoria a scuola.

«O mia cara Patria!
Mio dolce Pisin!
Mio nonno cantava
Co iero picin
Fioi mii, chi che ofende
Pisin, la pagherà
In fondo alla Foiba
Finir el dovarà!»

Oggi il termine «foibe» è usato per indicare tutte le voragini carsiche dove sono stati gettati i corpi di molti Italiani uccisi dai partigiani. In molti casi si trattava di voragini così profonde che era praticamente impossibile recuperare i corpi e fare una stima precisa dei morti.

Io posso dire una cosa. Mio nonno sa con certezza che l’abitudine di usare le foibe come metodo di eliminazione dei nemici era in voga molto prima dei partigiani.

 

5. L’ESODO OVVERO LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

Una domenica mattina, al largo di una spiaggia di Pola, un giovane scapestrato e pieno di cerotti, Rudy, seduto sulla sua barchetta a remi, stava spiegando l’uso delle bombe a mano applicate alla pesca al suo amico Gildo, mio nonno.

Da più di un anno Pola era sotto il controllo degli anglo-americani, da quando i partigiani di Tito l’avevano liberata dai nazisti.

Quel giorno, il 18 agosto 1946, la società di canottieri Pietas Julia aveva organizzato le tradizionali gare di nuoto, che avevano lo scopo, apertamente dichiarato, di essere una dimostrazione di italianità della popolazione polesana. Le gare dovevano avere luogo nella piccola spiaggia di Vergarolla sulla quale si radunarono tantissime persone, anche famiglie intere con bambini al seguito. Sulla spiaggia di Vergarolla, in mezzo ai bagnanti, erano depositati degli ordigni di guerra. La guerra era appena finita e camminare, correre e nuotare vicino a missili e bombe era un esercizio quotidiano.

Alle 14:15 di quella domenica 18 agosto 1946 venti bombe antisommergibile, tre testare di siluro, quattro cariche di tritolo e cinque fumogeni detonarono all’unisono provocando la morte di 63 persone e ferendone gravemente altre 25.

22 dei 63 morti erano bambini, 18 di loro al di sotto dei 10 anni di età.

25 dei 63 morti erano donne.

Il primo grande atto terroristico su suolo italiano dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Le indagini dimostrarono da subito che non si era trattato di un incidente. Qualcuno aveva fatto esplodere quelle bombe deliberatamente.

Nella memoria della maggior parte degli Italiani che abbandonarono Pola poco tempo dopo, quando venne definitivamente assegnata agli Jugoslavi, la strage di Vergarolla rimase scolpita come l’evento che aveva reso l’Esodo inevitabile.

Molti diedero la colpa agli Slavi. Eppure qualche mese prima della strage, dei 31 mila polesani dell’epoca, più di 28 mila avevano già sottoscritto un foglio in cui dichiaravano che sarebbero partiti prontamente per l’Italia, se Pola fosse stata ceduta alla Jugoslavia. Eppure gli ultimi a maneggiare quel tipo di esplosivi tedeschi erano stati gli uomini della X Mas di Junio Valerio Borghese.

Il nome della città di Pola, secondo alcuni storici antichi, deriverebbe dal greco Polai e significa città degli esuli. Sembra infatti che la città sia stata fondata da esuli greci della Colchide. Nel 44 a.C., ormai sotto i Romani da anni, la città, durante la guerra civile, si schiera con Pompeo. Cesare, vittorioso, la risparmierà e proprio per questo motivo le darà il nome di Pietas Julia Pola. Lo stesso nome del circolo canottieri.

Cesare, tanti anni prima, aveva avuto pietà di Pola e dei suoi abitanti. Chi ha fatto esplodere le bombe a Vergarolla quella domenica di agosto di tanti anni fa, di pietà, non ne ha avuta nessuna.

Quel 18 agosto 1946 mio nonno Gildo e il suo amico Rudy videro dal mare la strage di Vergarolla. Quel giorno, Rudy scese dalla sua barca, per non risalirci mai più.

 

6. LA PACE OVVERO FINO ALLA PROSSIMA GUERRA

«Ciò, te go mai contà de quela volta che un slovén me voleva far lavorar?»

«No, Rudy. Contime.»

«Alora. Iero sentà qua come che son deso. Un slovén me vedi e se senta de fianco de mi. El me dixi: “Ciò, cosa ti fa qua tuto el giorno?”
“Vardo el mar” ghe rispondo.
“Ah bel” me dixi.
“E no ti podarìa ciorte una cana de pesca e pescar qualche pesce mentre ti sta sentado.”
“E alora?” ghe domando mi.
“Alora ti podarìa vender el pesce pescado e gaver qualche scheo in scarsela” me dixi.
“E alora?” ghe domando mi.
“E alora coi schei ti podarìa comprarte una barcheta e pescar tanti pesci” el me fa.
“E alora?” ghe faso mi.
“E alora ti podarìa far tanti schei e comprarte una barca più granda.”
“E alora?”
“E alora ti pescarìa più pesci e ti podarìa comprarte anca altre barche e cior dei muli che lavora per ti.”
“E alora?”
“E alora ti podarìa riposarte e far lavorar i altri al posto tuo.”
“E alora?”
“E alora ti podarìa sentarte in riva al mar felice e contento.”
“Ah. E mi dovarìa far tuta sta fatica per tornar a sentar qua a vardar el mar? Ma cosa ti son mona? Ma mi son xa felice e contento!”»

Avevo 10 anni quando è scoppiata la guerra in Jugoslavia. Mi ricordo gli allarmi antiaerei e le immagini in televisione che incitavano all’orgoglio patriottico. Questa volta la patria era quella croata.

Dieci anni dopo, di anni ne avevo quasi 20 e, dopo un anno di servizio militare, avevo deciso di andare a studiare a Milano. Al giorno d’oggi ci vivo ancora. In questi anni, ho capito che uno impara ad amare quello che aveva solo quando non lo ha più.

Da quando non vivo più a Pola il mio cibo preferito sono i calamari. Per anni, ogni volta che tornavo a casa, continuavo a chiedere a mia nonna di prepararmeli e, anche se mio nonno era diventato troppo anziano per andare a pescare, i calamari erano sempre in tavola, per gentile concessione di pescatori amici.

Mia nonna è morta il 21 giugno 2014. Ad agosto, per la prima volta in vita sua, era stato mio nonno a preparare i calamari fritti. Mia nonna li aveva lasciati in freezer per l’estate, convinta che si sarebbe ripresa per quando sarei tornato a trovarla.

Io sono nato nel 1981. Nelle mie vene scorre sangue italiano, croato, sloveno, e anche ungherese. Mio padre è nato nel 1956, a Pola, in Jugoslavia. Mio nonno è nato nel 1928, a Pola, in Italia. Il mio bisnonno è nato nel 1903, a Pola, in Austria.

Non ci sono popoli buoni e popoli cattivi. Ci sono persone buone e persone cattive.

Le guerre non lasciano vincitori e vinti. Le guerre lasciano ferite, cicatrici, rancori, morti.

Ogni cosa sulla Terra ha la sua durata. Nulla dura per sempre. Nemmeno la pace. Nemmeno la guerra.

Una delle cose che mi porterò dietro per sempre sono queste parole di mio nonno:

«Quando che qua iera l’Austria xe rivado il Duce e ne ga dito che el ne liberava dei Austriaci. Dopo xe rivadi i druzi a liberarne dei fascisti. Poi xe rivadi i Croati e ne ga liberà dei comunisti. Diego mio, ti sa cosa te digo? Se vien ancora qualchedun a liberarne, semo ciavadi!»

Il mio nome è Diego Runko. E questa è la storia della mia città, Pola, in Istria.