LIFE

di Emiliano Brioschi

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GLOSSARIO

Brigate Rosse.
    Movimento terroristico marxista-leninista, nato in Italia all’inizio degli anni Settanta.

Banda Baader-Meinhof.
    Gruppo eversivo tedesco fondato da Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Ulrike Meinhof. Primo nucleo della RAF.

RAF.
    Rote Armee Fraktion (Frazione dell’Armata Rossa): organizzazione terroristica nata in Germania negli anni Settanta responsabile dei più eclatanti attacchi allo stato tedesco.

Ulrike Meinhof.
    Editorialista della rivista “Konkret”, giornale di sinistra di Amburgo. Madre di due gemelle. Attivista politica. Chiude con la propria vita di cittadina libera per aderire alla guerriglia clandestina in opposizione al sistema capitalistico tedesco. È tra i fondatori della RAF - Rote Armee Fraktion. Muore a quarantadue anni nel carcere di Stammheim, impiccata alla finestra di una cella.

Roberto Peci.
    Cittadino italiano, sequestrato, imprigionato e condannato a morte all’età di venticinque anni dalle Brigate Rosse, dopo un processo popolare durato cinquantaquattro giorni. Fratello di Patrizio Peci, personaggio di punta delle BR e primo pentito. La condanna a morte di Roberto Peci è la prima, in Italia, ripresa da una videocamera.

Costrizione.
    Limitazione imposta alla volontà individuale.

 

I due testi, alternati tra loro, vengono recitati senza soluzione di continuità muovendo l’attenzione dello spettatore da un fuoco all’altro, grazie a un disegno luci volto a costringere gli attori in un ritmo serrato di gesti e parole.
    Nessuno dei due personaggi è mai totalmente al buio. Entrambi presenti e attivi sulla scena per tutto il tempo dello spettacolo, anche quando l’attenzione e la luce non sono su di loro. La condizione costrittiva del loro spazio detentivo è rappresentata, nella finzione scenica, da un quadrato bianco di tre metri per tre metri per ciascuno.
    All’interno dello spazio della Meinhof: una sedia rossa, una macchina da scrivere rossa senza fogli nel tamburo, una risma di fogli rossi.
    All’interno dello spazio di Peci: una sedia rossa, un cappuccio nero, uno schermo dove sarà inquadrato in primo piano durante gli interrogatori.
    Pur vicini sulla scena, essi e le loro vicende sono distanti. Non ci sarà mai contatto tra loro per tutto la durata della rappresentazione, tranne una sola volta. Quando Peci verrà giustiziato. Sarà l’unico e solo momento di interazione tra i due e lo sarà solo per un attimo.
    Entrambi i personaggi sono già morti. I loro testi sono
post mortem. Le loro confessioni e i loro pensieri sono i loro epitaffi, come si evince dal testo che segue.

 

 

PECI

(voce off) Il 10 giugno del 1981, giorno del rapimento di Roberto Peci, era una tranquilla giornata d’estate, il sole era caldo, caldissimo, dicono la giornata più calda del secolo, e la spiaggia di San Benedetto del Tronto era piena. Noi, sembravamo dei turisti, lì, lungo la strada, tra i chioschi dei gelati, ma nelle nostre borse non c’erano creme e nemmeno teli da mare, c’erano pistole, mitra e una bomba a mano.
    Qualche mese prima, Giovanni Senzani, il professore che dopo l’arresto di Mario Moretti era diventato il leader delle Brigate Rosse, mi aveva detto che l’organizzazione stava preparando una campagna contro i pentiti. Ci sarebbe stato un sequestro e ci sarebbe stato bisogno di una casa, la mia. Venne fatta una riunione, con i principali esponenti della colonna romana delle Brigate Rosse. Il professore ci disse che avremmo dovuto sequestrare Roberto Peci, il fratello di Patrizio, l’infame. Dovevamo dimostrare agli italiani che il pentimento di Peci era un’invenzione dello stato, una strategia per distruggere l’immagine delle Brigate Rosse. A me sembrò da subito una sterile vendetta contraria all’etica rivoluzionaria comunista. Ma il professore rispose che le cose non stavano come sembrava e che l’organizzazione attraverso fonti assolutamente certe aveva scoperto che il vero traditore era proprio Roberto.
    Quel 10 Giugno io, ad un angolo della strada, dovevo controllare che non passassero volanti della polizia, in quel caso il mio compito sarebbe stato quello di fare fuoco, subito. La BMW dei nostri compagni arrivò con un po’ di ritardo, subito dietro c’era la Panda azzurra di Roberto Peci. Appena si fermarono nel punto concordato bloccammo le vie d’uscita. Il professore si avvicinò alla macchina con la pistola nascosta in un giornale, l’azione durò solo qualche secondo. Peci, non oppose la minima resistenza, e percorse i duecento chilometri che dividono San Benedetto da Roma chiuso nel bagagliaio della macchina.
    Arrivati nel mio appartamento, che sarebbe stato il covo per i quasi due mesi successivi, lo facemmo lavare. Aveva sudato molto, lungo il viaggio. Roberto era tranquillo. Poi si sdraiò sulla branda all’interno della tenda che avevamo montato per lui. Gli avevamo detto che si trattava di un sequestro di due tre settimane, che volevamo sapere alcune cose da lui e che quello che ci interessava è che venisse fuori la verità sulla storia di suo fratello. Ecco. Questo gli avevamo detto.

 

 

MEINHOF

Il 18 ottobre 1977 alle ore zero zero punto trentotto Radio Germania comunica una notizia importante. Tutti gli ottanta passeggeri del Boeing Lufthansa presi in ostaggio dai terroristi sono stati felicemente liberati. Lo ha appena confermato un portavoce del ministero federale degli interni a Bonn. Un commando speciale ha dato il via all’operazione all’aeroporto di Mogadiscio intorno alla mezzanotte. Secondo le prime notizie, tre terroristi sarebbero rimasti uccisi. Il tentativo, l’ennesimo, di far liberare dal carcere i membri della banda Baader-Meinhof, detenuti a Stammheim, è fallito.
    Lo stesso mattino al settimo piano del penitenziario di Stammheim – dove sono reclusi i fondatori della RAF, la Rote Armee Fraktion, per tutti la banda Baader-Meinhof – alle ore zero sette punto quindici, il segretario capo Klaus Miesterfeld fa scattare la serratura di sicurezza delle celle. Alle zero sette punto quarantuno il segretario generale Stoll apre la porta della cella sette uno sei. Insieme al sergente Stapf spingono il carrello della colazione con caffè, pane integrale, uova à la coque. Il detenuto Jan-Carl Raspe non è lì ad aspettarli come ogni mattina in piedi davanti alla porta, ma seduto sul letto con le gambe distese e la schiena appoggiata al muro. La testa china rivolta verso destra. Il lato sinistro è insanguinato. Anche il muro dietro il capo è insanguinato. Il segretario Stoll si accorge che il detenuto respira ancora. Il sovrintendente Gotz allertato insieme agli infermieri entra nella cella sette uno sei e trova una pistola. Con il suo fazzoletto la afferra per la canna e la trascina verso di sé. Miesterfeld la raccoglie dentro uno straccio, Gotz si rimette in tasca il fazzoletto, sopra, nessuna traccia di sangue. Jan-Carl Raspe sanguina dalla bocca, dalle orecchie, dal naso. Ha ematomi a entrambi gli occhi. Alle ore zero otto punto zero zero arriva l’ambulanza della Croce Rossa. Applicano una fleboclisi e lo sdraiano sulla barella. Portano il detenuto al Katherinehospital.
    Sette minuti più tardi, alle ore zero otto punto zero sette viene aperta la cella di Andreas Baader. Il materasso di gommapiuma è appoggiato agli stipiti dall’interno. L’infermiere Soukop lo spinge da parte e entra nella cella. La tenda copre la finestra è così buio che non si distingue nulla. Il detenuto Baader è riverso sul pavimento con la testa immersa in una pozza di sangue, la bocca aperta, gli occhi spalancati fissi verso l’alto. Ha le mani fredde. Accanto a lui a sinistra c’è una pistola.
    È ancora l’infermiere Soukop a entrare per primo nella cella sette due zero. A sinistra rispetto alla porta c’è una specie di paravento dietro al quale la detenuta Gudrun Ensslin ha posizionato il suo materasso. L’infermiere Soukop avanza a tastoni lungo il muro della cella buia, non riesce a trovare la detenuta, arriva alla tenda della finestra, la scosta, si volta di scatto e vede due piedi che pendono dalla coperta gettata sulla finestra di destra. In quel momento il dottor Majerowicz entra nella cella, prende la mano di Gudrun Ensslin. È fredda.
    In jeans e maglietta Irmgard Möller è rannicchiata sul materasso della cella sette due cinque con la coperta tirata fino al mento. L’infermiere l’afferra per la spalla destra e la rigira su se stessa. La detenuta emette un gemito. Non trovando alcuna ferita le solleva la maglietta e vede che la Möller riporta lesioni da arma da taglio nella regione cardiaca. A destra del materasso sul pavimento c’è un coltello del carcere sporco di sangue. Un coltello da cucina con la punta smussata e la lama seghettata. Un ambulanza della Croce Rossa porta di corsa la detenuta all’ospedale Robert Bosch.
    Nel frattempo nella sala operatoria del Katherinehospital è tutto pronto, ma Jan-Carl Raspe muore alle zero nove punto quattro zero.

Gli inquirenti dichiarano che in nessuna delle celle sono state trovate lettere di addio.

***

Diciassette mesi prima, sabato 8 maggio 1976, il giorno che precede la festa della mamma, nello stesso carcere di Stammheim, alle zero sette punto trentaquattro due agenti aprono la cella sette uno nove, al settimo piano. Alle sbarre della finestra di sinistra, con il viso rivolto alla porta, pende il mio corpo. Alle zero sette punto quarantuno il dottor Helmut Henck, medico del carcere, constata che il mio corpo è già completamente freddo e rinviene numerose macchie cadaveriche sulle mie braccia. La mia salma viene calata dalle sbarre solo alle ore dieci punto trenta. Fino a quel momento funzionari accalcati all’interno della cella raccolgono impronte e scattano foto. Sul tavolo della mia cella trovano un libro aperto a pagina 84-85: Ludwig Wittgenstein, Grammatica Filosofica. Ritagli di giornali. Una macchina da scrivere senza fogli nel tamburo. Un televisore portatile. Una radio. Alla finestra una cinghia di gomma per la ginnastica. Il funzionario addetto ricostruisce l’accaduto: Ulrike Meinhof strappa gli asciugamani bianchi e azzurri del carcere per ricavarne delle strisce che annoda tra di loro formando un cappio. Spinto il letto da parte, con il materasso davanti alla finestra, ci posiziona sopra uno sgabello. Stretto il cappio al collo sale in piedi sullo sgabello e gettata l’altra estremità della corda tra le sbarre della finestra, spicca un salto.
    Gli inquirenti dichiarano che mesi prima in margine a un foglio scritto vi erano segnate poche parole: il suicidio è l’ultimo atto di ribellione.

***

Se tutto resta così siete perduti. Il cambiamento è il vostro amico, il conflitto la vostra battaglia. Traete qualcosa dal nulla. Annientate lo strapotere. Rinunciate a ciò che avete. Appropriatevi di quanto è negato. Le nostre figlie vivranno in un mondo più giusto se riusciremo a dimostrare che il desiderio di libertà prevale sull’oppressione. Bruceranno la porta di Brandeburgo, bruceranno i centri commerciali di Berlino, bruceranno i magazzini di Amburgo, bruceranno il Cavaliere di Bamberg.
    Non sono pronta alla resa. La polizia sarà costretta a trasformare la situazione da politica a militare. Finora nessun prigioniero della RAF ha mollato. Per loro vincere significa saperci in carcere o morti. La lotta è appena iniziata. Basta simboli, bisogna scontrarsi, far saltare tutto in aria. Incendiare tutto.
    I primi incendi in due magazzini di Francoforte sono stati un buco nell’acqua. L’opinione pubblica non ne parlò, la lega studentesca socialista era ormai sprofondata e prese le distanze. Il movimento rivoluzionario nella Germania Federale era morto. Gli incendi non sono riusciti a intaccare la società dei consumi. Un attacco incendiario a un magazzino non incide in quanto distruttivo bensì in quanto atto criminale e fuori legge. Dicono che il movimento si esaurirà presto perché privo di slancio interiore. Gli estremisti rimasti passeranno al terrorismo.
    Io dico che la parola va unita all’azione. Io dico che se la rivoluzione non viene dall’alto arriverà dal basso. Io non mi rassegnerò mai alla passività. Io voglio aver agito. Frantumare il sistema educativo capitalista. Ho grandi speranze di cambiamento.
    Combattiamo qualsiasi autorità. Ci serve una dirigenza. Un comandante. Ci servono molte auto. Con le auto faremo le rapine. Con le rapine compreremo armi. Dobbiamo tutti avere un’arma per ricordarci chi siamo. Ricordarci chi siamo. Non serve un esercito di diecimila uomini. Piccole cellule. Noi siamo il modello. Siamo l’avanguardia. La guerriglia urbana. Il guerrigliero ha iniziativa. Ha idee, coraggio, ingegno. È inventivo. Per capire la clandestinità devi entrarci. Non basta schierarsi contro.
    Si dice che la polizia sia costretta ad agire brutalmente dalla propria funzione. Li spinge a picchiare a sparare ad esercitare repressione. La divisa e la funzione creano tutto questo. Forse nella propria vita famigliare sono persone perbene. Questo crea un problema. Per noi, poliziotti e gente in divisa sono bestie non esseri umani. Per questo li affrontiamo. Non dobbiamo parlare con loro, sarebbe un errore farlo. Il rivoluzionario non rinuncia mai al terrorismo come arma. Dobbiamo tutti avere un’arma. Ricordarci chi siamo. Ricordarci che le minoranze oppresse hanno un diritto naturale alla rivolta e a ricorrere a mezzi illegali. Ricordarci che possono perseguitarci o rinchiuderci in prigione. Ricordarci che nonostante tutto non ci piegheranno. Ricordarci che noi siamo la RAF. Noi siamo la Rote Armee Fraktion. Ricordarci che il nostro nemico è la Germania Federale tutta. Ricordarci che è lei la nostra balena bianca. Ricordarci che noi siamo i ramponieri del popolo. (Silenzio)

Dobbiamo svegliarci dal nostro sonno innocente. Il male è il prezzo della libertà. Il diavolo è un angelo caduto? Dio vuole il male? Gesù era un rivoluzionario? I comandamenti vanno infranti. Tutti e dieci. Compi atti adulteri, pronuncia falsa testimonianza. Uccidi.
    È terribile uccidere. Ma non solo gli altri, uccidiamo se occorre anche noi stessi perché solo con la violenza si può trasformare questo mondo omicida, come sa chiunque vive. È terribile uccidere. È un’idea ripugnante, è chiaro.
    Ma a che bassezza ti piegheresti, per distruggere la bassezza? (Silenzio)

Ho due figlie piccole. Due gemelle.

 

 

PECI

Qui Brigate Rosse fronte delle carceri. Questo filmato è stato realizzato in una prigione del popolo durante uno degli interrogatori a cui è stato sottoposto il traditore Roberto Peci.
    Iniziamo. Che cosa ti ha detto Dalla Chiesa quando hai parlato con lui?

    Con Dalla Chiesa ho parlato alla caserma di San Benedetto del Tronto al telefono. Parlammo … non riuscì a parlarci subito … andammo dal maresciallo io e mia sorella e gli dissimo che volevamo delle garanzie se mio fratello fosse arrestato. Lui ci disse che personalmente non poteva darcele e quindi ci disse di ripassare due ore più tardi e che vedeva con chi poteva parlarne con chi ci poteva far parlare per queste garanzie. Due ore più tardi tornammo e il maresciallo ci stava aspettando e voleva farmi parlare al telefono con qualcuno che ci disse essere Dalla Chiesa. Lui mi disse che di scritto o di qualcosa del genere non mi poteva dare niente, bensì che la sua parola era riconosciuta da chiunque – anche dai nemici – e che io potevo stare tranquillo che mio fratello lo avrebbero preso vivo.
    Ma tu nel momento in cui hai deciso di vendere tuo fratello, perché ti sei fidato proprio di Dalla Chiesa?
    Mi hanno passato lui per telefono, è stato il primo con cui ho potuto parlare.
    Quindi secondo te questo è stato un caso?
    Non lo so. Penso che sia una cosa studiata. Sì.
    Adesso vediamo un po’ la storia del tradimento di Patrizio Peci.
    Mio fratello Patrizio fu arrestato il 13 Dicembre di fronte alla stazione di Torino … stazione dei treni, stazione di Porta Nuova, alle nove del mattino sulla balaustra dei taxi … sei o sette carabinieri, che lo portarono in un appartamento civile di Torino … non so quale. Qui in questo appartamento fu portato … in questo appartamento fu trattato male.
    Aspetta un attimo. Tu hai detto che è stato arrestato il giorno 13 alle ore nove alla stazione di Torino all’altezza dei capolinea dei taxi.
    Sì.
    Il giorno, l’ora e il posto erano praticamente quelli dell’appuntamento che lui aveva dato a te e tu hai passato ai carabinieri, è così?
    Sì.
    Prosegui.
    Fu portato in questo appartamento e fu trattato male, come ho detto, e verso mezzogiorno – praticamente dopo due tre ore che era stato arrestato – si dichiarava disposto a parlare. Allora questi chiamarono Dalla Chiesa e con lui venne un carabiniere marchigiano che faceva servizio a Milano per fare un riconoscimento formale, credo. Dalla Chiesa si fece raccontare bene o male le storie di Torino, quello che mio fratello poteva sapere sulla colonna e i rapporti che aveva … dopo quando si cominciò a far sera gli disse che poteva tornare libero. Le condizioni erano che lui doveva comportarsi normalmente, fare il brigatista effettivo ma nel frattempo doveva cercare di incontrare più gente possibile senza creare sospetti. Al che mio fratello gli disse: se devo fare qualche azione?… Dalla Chiesa gli rispose: a noi non ci interessa in questo momento, è molto più importante il ruolo che devi fare … insomma … non ci interessa se tu fai azioni o meno.
    E così mio fratello tornò libero con i carabinieri che lo pedinavano e nello stesso tempo gli disse Dalla Chiesa che se provava a scappare, dato che veniva pedinato giorno e notte, gli avrebbero sparato.
    La mattina, la mattina al giornale radio sentimmo che mio fratello era stato arrestato. Qui la storia ci sembrò proprio strana … telefonai alla caserma e ma anche qui mi dissero che non potevano dirmi niente, non sapevano niente anche perché non sapevano chi ero io, se ero veramente il fratello, se ero un famigliare, non potevano dirmi niente.
    Questa è la storia dell’arresto.
    Questa è la storia, infame, dell’arresto, il primo arresto non ufficiale, il secondo arresto ufficiale di Patrizio Peci. Questo ci sembra un patto, un patteggiamento nei fatti. Un patteggiamento ancora una volta infame, perché pone come piatto … diciamo … del patteggiamento, l’arresto di un militante delle Brigate Rosse. La cattura. Cattura che avviene attraverso proprio la denuncia, la delazione, la svendita, fatta da te in particolare.
    Bisogna mettere in conto che lui diverse volte aveva detto che voleva essere arrestato, che si era stufato … abbiamo cercato di farlo anche a fin di bene.
    Fin qui la storia sembra seguire un corso abbastanza potremmo dire lineare. C’è un primo arresto, c’è un tradimento che già avviene allora, c’è un patteggiamento con i carabinieri, ci sono i carabinieri che decidono di usare questa carta molto importante per sgominare un’intera colonna delle Brigate Rosse, e ci sono due mesi di lavoro per questo progetto infame.
    Poi si va avanti. Il 28 Marzo 1980 c’è l’irruzione nella base delle Brigate Rosse a Genova in via Fracchia, durante la quale i carabinieri uccidono a freddo … massacrano quattro militanti delle Brigate Rosse. Perché avviene in via Fracchia?

    Dunque.
    Sì, gli disse Dalla Chiesa: ho avuto dei problemi politici, e altri problemi che adesso non ti posso elencare … adesso … io ti avevo promesso diverse cose quel giorno che ti arrestai la prima volta, adesso bisogna fare in modo che queste cose diventano pratiche. Allora io ho bisogno, ha detto, di fare clamore sulla tua storia. Innanzitutto perché nessuno sospetti che tu sei stato arrestato due volte, e seconda cosa perché dobbiamo spingere i politici bene o male ad accettare la tua storia e farli rendere conto a un po’ tutte le persone che comandano che tu sei disposto a collaborare.
    Mio fratello gli disse che a via Fracchia avrebbero trovato dei pezzi importanti delle Brigate Rosse. Allora Dalla Chiesa disse: va bene, se è veramente così importante via Fracchia, ci penso io poi ti faccio sapere.
    Intanto Dalla Chiesa preparò l’azione di via Fracchia … credo l’abbia preparata personalmente, fecero degli appostamenti e poi uccisero quei quattro compagni. Fatto questo, era andato a Roma e aveva parlato sicuramente in prima persona con Cossiga. Comunque lui, quando è tornato, aveva detto a mio fratello che aveva parlato con Pertini e con Cossiga e che gli avevano dato delle assicurazioni … adesso con chi personalmente ha parlato, se con Pertini o meno abbia parlato personalmente non ne sono sicuro, però so che Pertini gli aveva dato delle garanzie; al limite avrebbe firmato anche un provvedimento di grazia, se fosse necessario per questa storia dei pentiti. Dalla Chiesa tornò … tornò a Cuneo credo o non mi ricordo, comunque si rincontrò con mio fratello e gli chiarì la storia, come erano andate le cose e che da questo momento abbiamo delle garanzie, che poi queste garanzie erano che sarebbe uscito prima di sei mesi, che avrebbe avuto un lavoro all’estero e dei soldi, che non c’era nessun problema a discuterne prima, che quando lui voleva glieli avrebbero dati. (Silenzio)

Questa è l’infame storia del tradimento di Patrizio Peci.
    Bene.
(Silenzio lungo)

Perché tu hai venduto e tradito tuo fratello?
    Quali sono i motivi?

 

 

MEINHOF

Desisti Ulrike. Tu sei diversa. Sei completamente diversa da quel che pensa la gente che vede la tua foto segnaletica e che ha sentito parlare di te sui giornali, alla radio e alla televisione. Chi ti conosce da vicino lo sa bene: non ammazzeresti mai chi si para sulla tua strada. Tu hai paura come chiunque altro. Ma tu sei coraggiosa, più coraggiosa della maggior parte delle persone. E sei responsabile per i tuoi amici. Hai un vantaggio rispetto ai tuoi compagni, tu avevi già abbracciato l’impegno politico quando loro andavano ancora a scuola. Quindi sai bene che i movimenti politici possono nascere all’improvviso, tornare a placarsi e che dal furore omicida non c’è nulla da guadagnare. E sapere questo è già molto. A te dunque non può sfuggire l’errore di chi ha confuso la rivolta antiautoritaria con l’inizio di una grande rivoluzione. Noi due, allora, quando ancora parlavi con me, eravamo completamente d’accordo sul diritto di attaccare le istituzioni e le strutture. Ma non ti facevi illusioni. E alla fine tutto andò come previsto: quando il movimento di protesta non riuscì a procurarsi la solidarietà delle masse il crac fu totale e la delusione inevitabile. La Repubblica Federale non è il terreno adatto per una guerriglia urbana sul modello latinoamericano. Qui da noi al massimo ci sono i presupposti per un dramma sui briganti. Tu lo sai Ulrike, che dalla nostra opinione pubblica non c’è da attendersi nulla se non ostilità esacerbata. E sai anche che siete condannati a recitare il ruolo di una banda fantasma. Chi, oltre a una manciata di simpatizzanti, mostra ancora comprensione per l’impulso politico e morale del vostro agire?
    Chi?
    Voi non avete le giustificazioni dei Tupamaros uruguayani per effettuare azioni in cui si spara e in cui persone rischino la vita. Dovete correggere la rotta. Io non lo so fino a che punto si estenda la tua influenza all’interno del gruppo. Ma dovresti misurare per una volta le possibilità della vostra guerriglia urbana alla realtà sociale di questo paese. Tu puoi farlo Ulrike. Tu puoi.
    RENATE

 

 

PECI

(voce off) Mentre assistevo agli interrogatori quotidiani fatti dai compagni e filmati dal professore, pensavo che le nostre chiacchiere, i nostri discorsi, erano sempre delimitati da quella realtà assurda di una tenda dentro un appartamento. Dentro il mio appartamento. Passavano le ore, passavano i giorni. Nonostante tutto si era cominciato a creare un filo sottile di comprensione tra me e Roberto, che ci aveva legato. Lo guardavo. Quel modo di passarsi la mano sulla fronte. Continuamente. In lui vedevo il mio futuro, e lui, forse, in me, il suo passato. Tutti e due sapevamo un fatto, potevamo benissimo essere uno al posto dell’altro. Questo era spaventoso perché incomprensibile, non potevamo essere amici, non ci può essere amicizia tra un prigioniero e la sua guardia. Ma lo sentivo vicino.
    Che follia era ormai diventata la lotta armata se eravamo arrivati a questo punto. I dubbi, le contraddizioni, cominciarono a farsi sempre più evidenti. Ne parlai al professore, gli dissi che Roberto Peci più che un grande infame mi sembrava un poveraccio, un uomo invischiato in un gioco più grande di lui. Lui mi rispose: sì forse è vero ma nel gioco ci siamo anche noi e dobbiamo seguire le regole, che ci piaccia o no.
    Quando si è in guerra si uccide. Questo per quanto sia drammatico ha un senso. Quello a cui non riuscivo a dare un senso è trasformare l’agonia di un uomo, per quanto nemico, in uno spettacolo. Perché filmarlo con una telecamera? Perché mettere la musica di Bandiera Rossa?
    Quando chiesi al professore il motivo di tutto ciò mi rispose che, la società dello spettacolo, vive di queste cose. Noi dovevamo essere in grado di sfruttare queste contraddizioni per riappropriarci dei mezzi della comunicazione. Il discorso aveva una sua logica ma non potei fare a meno di riflettere che se questo era il prezzo da pagare per essere rivoluzionari, onestamente mi sembrava troppo alto.

 

 

MEINHOF

Sono nata il 7 Ottobre 1934 a Oldenburg. Mio padre Werner Meinhof laureato in Storia dell’Arte ottenne un posto di assistente scientifico al Museo per l’Arte e la Storia della Cultura di Oldenburg. Conobbe mia madre Ingeborg, allora sedicenne, e la sposò tre anni più tardi ad Halle. Mio padre morì quando avevo cinque anni per un cancro al pancreas. L’affitto era troppo caro e la borsa di studio del comune era esigua, così la studentessa Ingeborg Meinhof, mia madre, fu costretta a subaffittare una stanza. All’università conobbe una compagna di corso, giovane, attraente, che studiava Germanistica. Andarono a vivere insieme e tra loro iniziò una relazione amorosa. Da quel momento io e mia sorella Wienke, avevamo due madri. Verso la fine della guerra Jena fu occupata dagli americani, ma poi, in seguito agli accordi di Yalta, la città venne a trovarsi nella zona di occupazione sovietica. Ci caricarono su un camion. Dopo qualche tempo morì anche mia madre e da quel momento in poi, mia madre, divenne Renate. Orfana e figlia nello stesso momento. L’ammiravo, Renate, stavo a guardarla per ore, portavo i pantaloni e i capelli corti, come lei. Cercavo di copiare pure la sua calligrafia. Ottenni una borsa di studio della Fondazione del popolo tedesco per lo studio. Nello stesso anno il Partito Socialdemocratico Tedesco votò a favore della leva obbligatoria interrompendo così la sua lotta contro la militarizzazione della Germania Federale. Fu allora che mia madre, Renate, uscì dal partito in cui era entrata con mia madre Ingeborg anni prima. Io entrai nella Lega tedesca degli studenti socialisti, portavoce del comitato contro l’atomica. Boicottaggi di elezioni, raccolte firme, manifestazioni, articoli, articoli, articoli. La determinatezza di quella giovane attivista con i capelli tagliati alla Sophie Scholl, membro della Rosa Bianca decapitata nel 1943, giunse fino alla redazione di “Konkret”, rivista di sinistra di Amburgo, dove divenni in poco tempo editorialista. Lì conobbi il caporedattore Klaus Rainer Röhl. Vostro padre.
    Care Regine e Bettina, figlie mie. È tutto molto difficile ed è tutto molto semplice. Pensate, la mamma può scrivere finalmente dopo tanto tempo. Io pensavo, adesso le bambine hanno la mia lettera. E invece no che non ce l’avevate, lo so. C’era una parola che il giudice che controlla la mia posta ha trovato offensiva e per questo non ve l’ha inoltrata … Perciò ricomincio tutto da capo. Ho ricevuto vostre notizie già due volte e, ovviamente, sono stata molto felice. Ho riletto le vostre lettere sette volte. E adesso ho saputo che verrete a farmi visita e che non ci sarà nessuno della polizia, solo due sorveglianti della prigione.
    Ehi topoline!
    Stringete i denti e non pensate di dover essere tristi per forza perché avete una mamma in prigione. È molto meglio essere arrabbiate che tristi. Quando verrete a trovarmi sarò molto felice.
    Sì, dannatamente felice.
    Sto qui seduta nella mia cella e lascio che i miei pensieri vadano a spasso, come le mie gambe una volta al giorno, quando faccio cento volte il giro del cortile. Non dovete aspettarvi grandi cose da me. Da raccontare non c’è nient’altro. Non sento e non vedo niente e nessuno, solo le guardie quando mi portano da mangiare. Di tanto in tanto arriva l’avvocato e si stupisce che qui dentro sia tutto proibito. Poi leggo un paio di libri che avrei sempre voluto leggere. Molto di più in prigione non si può fare. Cercate di non diventare soltanto più grandi, ma anche più intelligenti, per capire dov’è il punto. E non ditemi che bisogna essere anche belle. Voi lo siete comunque, ma in ogni caso non conta nulla. Nulla. Ho un camice blu e sopra un cardigan fatto ai ferri. È il vestito della prigione. Una cella è una stanza con un water. La porta si apre solo dall’esterno e dentro non c’è la maniglia, né un buco della serratura. E la porta è anche molto più grossa di una normale. E ha uno spioncino. L’edificio è completamente vuoto. C’è solo la mia cella. È bianca. La porta è verde. Il neon della stanza resta acceso giorno e notte. Ho protestato a lungo. Adesso, la sera, il tubo del neon è meno intenso. L’isolamento è totale. Non sento niente.
    Ogni tanto un poliziotto guarda dentro per vedere se ci sono ancora.
    Finora ci sono sempre stata. (Silenzio)

La vostra mami.

 

 

PECI

Perché tu hai venduto e tradito tuo fratello?
    Quali sono i motivi?

    L’ho detto … mio fratello aveva telefonato diverse volte a casa e veramente … mi faceva veramente paura quello che faceva, si vedeva che era veramente in crisi … anche a casa erano tutti preoccupati, questo qua è uno dei motivi.
    Altri motivi sono anche a livello, a livello psicologico … abbiamo anche subìto diverse perquisizioni a casa … tantissime. Ogni volta che venivano anche di fronte a mia madre dicevano: appena vediamo tuo fratello gli spariamo in fronte. Addirittura un carabiniere una volta mi disse gli offriamo un caffè di piombo di fronte a mia madre e si sentì male … e in più quando fui arrestato venni ricattato, non ufficialmente, non a voce però mi avevano fatto chiaramente capire che sarei tornato immediatamente in …
    Come hanno fatto a fartelo capire?
    Me lo dissero in carcere. Che non erano stupidi loro, che sapevano tutto.
    Quindi te lo hanno detto?
    Sì.
    Quindi in base a questo elemento tu decidi che tutto sommato è più conveniente per te collaborare con i carabinieri e garantirti la libertà. Tu quando hai deciso di tirarti fuori dalla lotta armata, ti sei considerato un pentito, usando un termine … largamente in uso oggi?
    No … mi considererei un dissociato dalla lotta armata … (Silenzio)

Non ci credevo più, sinceramente.

Patrizio Peci è un pentito?
    No.
    Spiega.
    Mio fratello ha detto che non si sente di stare in carcere. E per questo vuole uscire … non sopporta il carcere.
    E allora?
    Ha deciso di collaborare con i carabinieri per uscire il prima possibile. (Silenzio)

Bene.
    Mi dici cosa pensi di tutta questa storia e il tuo ruolo dentro questa storia?

    Io penso di aver fatto degli errori, senza dubbio, non li posso negare … però non penso che siano gravissimi. Mio fratello invece ha fatto degli errori gravissimi … mi ha tradito veramente tra l’altro … questo è quello che penso.
    Quindi tu cerchi di tirarti in disparte, di prenderti il carico minore di responsabilità … in fin dei conti sei in mano delle Brigate Rosse … e ributti tutte le responsabilità o la massima parte di responsabilità su tuo fratello.
    Sono cose che ha fatto lui non le ho fatte io. (Silenzio)

L’unico rapporto della rivoluzione con i traditori è l’annientamento. Cosa pensi di questo concetto?
    Il concetto potrebbe anche essere giusto, ma penso che bisogna pensare alla parola traditore.
    Che intendi?
    Io non mi sento un traditore.
    Io chiedo che le Brigate Rosse, tutto il movimento ci pensino bene prima di decidere la mia sorte … … che comunque accetterò.

In base al processo proletario a cui sei stato sottoposto,
    in base agli elementi emersi durante l’interrogatorio,
    in base all’analisi di questi elementi fatta,
    le Brigate Rosse concludono il processo a Roberto Peci condannandolo a morte per tradimento.

 

 

MEINHOF

Dichiaro di non essere in grado di affrontare un processo. Tutt’al più, sono in grado di seguire quel che sta succedendo qui, ed è comunque un’esagerazione. E, ovviamente, non sono nella condizione o quasi di poter dire quello che voglio dire nel momento, nel punto in cui andrebbe detto. L’isolamento in cui ci avete tenuto per perseguire i vostri fini ha portato chiaramente a delle conseguenze. E, naturalmente, sono enormi le difficoltà di istituire nessi mentali contro ciò che dobbiamo combattere. Sarebbe assurdo, totalmente assurdo pensare che questi tre anni siano passati senza lasciare tracce su di noi. Presento dunque istanza, solo perché è necessario e indispensabile, per me stessa e per tutti noi, essere sottoposti a visita medica, e da parte di un medico esterno. Ma voi respingete la richiesta.
    Il Ministro degli Interni ha affermato che: «Il terrorismo è ammazzare quante più persone possibile. Una sensazione paralizzante di angoscia, ecco quello che i terroristi vorrebbero instillare a quante più persone possibile in tutto il mondo».
    Io le dico che una sensazione paralizzante di angoscia è, in realtà, proprio quello che la Procura Federale vuole instillare a quante più persone possibile, costruendo sempre nuovi carceri speciali, come quello in cui ci avete rinchiuso a Stammheim e lì lasciarci marcire tutti.
    Io dico che il terrorismo è la distruzione delle infrastrutture, dighe, impianti idrici, ospedali, fabbriche. Esattamente ciò a cui mirano gli attacchi aerei statunitensi contro chi reputano in quel momento il loro nemico. È così e io le dico che sarà sempre così. Ve ne accorgerete.
    Io dico che il terrorismo agisce attraverso la paura, la diffidenza, l’ostracismo che la classe politica inculca piano piano nel cervello del popolo. Contro chi è diverso, contro chi protesta, contro chi non accetta le vostre regole fasciste. Noi non facciamo terrorismo, noi facciamo guerriglia urbana. La guerriglia urbana porta il terrore nel cuore dell’apparato. Le azioni della guerriglia urbana non sono mai dirette contro il popolo, mai. Si tratta esclusivamente di azioni che hanno come obiettivo l’apparato.
    Lei guida questo processo e continua a toglierci la parola, lei non ci lascia spiegare i motivi delle nostre istanze di ricusazione, ciò significa che la nostra presenza qui non ha alcun senso. Ci state portando via anche il nostro ultimo diritto, quello più elementare.
    Noi non abbiamo più intenzione di restare qua, ci faccia allontanare dall’aula.
    Non prenderemo parte al dibattimento.
    No non mi siedo.
    Sì, rifiuto di sedermi.
    Ci faccia allontanare.
    Non voglio avere nulla a che fare con questa messa in scena, non sono nella condizione di difendermi e quindi non posso nemmeno essere difesa.
    No.
    Non lo faccio.
    In queste condizioni non fornisco le mie generalità.
    No non le fornisco.
    È inutile la smetta di chiedermelo.
    Voglio andare via.
    Io dico che voglio andare via.
    Non puoi costringermi pezzo di merda.
    Non sono in grado di affrontare il processo.
    Non vi prendo parte, hai capito vecchio bastardo.
    Non dimenticheremo mai che cosa hai fatto. E non ti riuscirà di portare a termine un processo con falsi testimoni, false ricostruzioni della polizia e con questo disastro. E non potrai neppure cancellare il fatto che non siamo in grado di affrontare il processo perché è tre anni e mezzo che veniamo torturati. Non ti riuscirà di nasconderlo.
    Vecchio porco bastardo nazista il Terzo Reich è caduto ma voi siete ancora al vostro posto in piedi e maleodoranti.
    Porci. Maledetti porci. Bastardi.
    Io vi dico che nonostante la vostra presunzione non passerete alla storia. La storia vi condannerà. E passerà sopra di voi. E vi dimenticherà. Di voi non resterà niente se non il fetore nazista che vi portate appresso e non basteranno tutte le acque di colonia. Io dico che questo processo sarà germe e seme per una nuova rivolta del popolo a cui non basterà più uno sguardo critico, un dissenso silenzioso. Non basterà più la vostra propaganda, falsa, ipocrita, accomodante. La vostra finta libertà, questa democrazia fantoccio che ci riempie di desideri non desiderati, di inutilità che vi riempiono gli stomaci e le tasche. Questa democrazia che ci rende oggetti consumati. Io dico che verrà una generazione a cui non basterà più mettersi in posa per la fotografia di rito. Io dico che il mare si sta alzando dietro di voi e vi travolgerà, un’onda infinita travolgerà le case in cui vi nascondete, in cui vengono decisi i destini dei popoli. Io dico che questa nuova generazione sarà capace di estirpare questa pianta nata morta che si chiama Germania. Io dico che brucerà la porta di Brandeburgo, bruceranno i centri commerciali di Berlino, bruceranno i magazzini di Amburgo, bruceranno il Cavaliere di Bamberg.
    Io sono ancora in piedi.
    Io sono qui.
    Io non sono pronta alla resa.
    Io voglio aver agito.
    Io.
    Sono Ulrike Meinhof.

 

 

PECI

(voce off) Mi rendo conto che dire mi dispiace molto non serve a nulla, sono parole vuote di significato. Perché non ho fatto nulla? Oggi avrei voluto. Spesso me lo chiedo. Perché non ho avuto il coraggio di spezzare la spirale?
    È difficile. Per quanto senti che la fede in ciò che stai facendo vacilli è difficile spezzare il vincolo che ti lega ai tuoi compagni. Mi piacerebbe oggi guardarmi indietro e pensare di aver salvato la vita di Roberto facendo qualcosa ma non potevo. Per quanto avessi già allora la morte nel cuore, non potevo.
    La storia di quegli anni è così. Piccole meschinità si intrecciano a tragedie che segnano la vita delle persone che ne vengono toccate. Il senso di umanità quando si è in guerra o si crede di essere in guerra si accantona. Si fa finta di non sentirlo. Roberto è stato ingannato. Con l’inganno gli è stata estorta la nostra verità. Sotto pressione rispondeva quello che volevamo sentirci dire. Cercava semplicemente di salvarsi la vita.
    In questi anni ho sempre tenuto fede alla scelta di non parlare. L’ho fatto per rispetto alla sofferenza di chi ha perso in quella guerra i propri cari. Non ho cercato di dimenticare. Prima mi sono sforzato di capire e poi di guardare avanti. Non ho parole lenitive per un dolore che dura da così tanti anni, non credo ce ne siano. Porto il mio fardello. È una cosa tra me e Roberto. Chiedere perdono non mi solleva. Questo carico ormai è parte di me. Il 3 Agosto 1981, il giorno in cui lo abbiamo ammazzato, proprio in quel momento, in quell’esatto momento, avevo ventitré anni. Ero un irregolare delle Brigate Rosse - Partito Guerriglia. Mi sono occupato direttamente dei cinquantaquattro giorni di prigionia di Roberto Peci. E per tutti quei giorni, ho visto i suoi occhi spaventati. Ho visto le sue mani contorcersi. Ho visto nel suo sguardo affiorare una piccola speranza. L’ho vista dileguarsi il giorno dopo. Ho visto gli ultimi atti di vita di Roberto Peci e li ho vissuti insieme a lui. Ho visto tutto questo. E non ho fatto nulla. Mi chiamo anch’io Roberto. Il mattino lavoravo in officina, di notte, aiutavo la rivoluzione.

 

 

MEINHOF

La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa
    La sensazione che ti scoppi la testa.
    La sensazione che la calotta cranica debba spaccarsi sul serio, saltar via. La sensazione che ti stiano spingendo il midollo spinale nel cervello. La sensazione di trovarti sotto una corrente, continua, impercettibile che ti trascina lontano. La sensazione che l’anima sia pisciata via dal corpo. La sensazione che la cella vada per i fatti suoi. Quando ti svegli e apri gli occhi, la cella va chissà dove, poi di pomeriggio si ferma improvvisamente, quando arriva il sole. E questa sensazione di movimento non si riesce a ignorare.
    La sensazione di non riuscire a respirare.
    Non si riesce a capire perché si tremi. Si geli.
    La sensazione di diventare muti.
    Non riesci a identificare il significato delle parole. Si riesce solo ad indovinare.
    Mal di testa.
    La costruzione delle frasi, la grammatica, la sintassi. È incontrollabile. Scrivo, due righe. A malapena.
    Alla fine della seconda riga non mi ricordo più l’inizio della prima.
    La sensazione di andare in cenere.
    Un’aggressività folle che non trova valvola di sfogo. È questa la cosa peggiore. La chiara consapevolezza di non avere nessuna possibilità di sopravvivere. Fallimento totale, se provi a comunicarlo.
    Le visite non ti lasciano niente. Mezz’ora dopo puoi ricostruire solo meccanicamente se è successo quel giorno stesso o la settimana prima.
    Fare il bagno una volta alla settimana significa: sciogliersi per un attimo, rilassarsi. L’effetto dura anche un paio d’ore.
    La sensazione che spazio e tempo siano inscatolati l’uno dentro l’altro.
    La sensazione di trovarsi nello spazio di uno specchio deformato.
    Euforia quando si sente un rumore. Spaventosa.
    La sensazione che ora il tempo scorra, che il cervello nuovamente si rilassi, che il midollo torni al suo posto.
    Per un attimo. (Silenzio)

La sensazione che ti abbiano strappato la pelle. (Silenzio)

Mentre la domanda rimane sempre la stessa: a che bassezza ti piegheresti, per distruggere la bassezza?
   
    ***

Siete state qui! Tutta la galera è diventata più allegra. Almeno questa è stata la mia impressione. Tornerete ancora? Di recente, in ottobre, si sono alzati degli aquiloni sopra la prigione. Allora devono esserci dei bambini che li fanno volare. Erano molto, molto in alto, verdi e rossi. Una cosa bellissima.
    Avete visto in cielo i tordi?
    Sono degli imitatori, i tordi, cioè appartengono alla famiglia dei merli, ma non cantano come i merli, bensì imitano il verso dei codirossi, degli arrotini e degli scriccioli. Nel vostro giardino ci sono?
    Avrei voluto diventare ornitologa.
    Gli ornitologi sono tutti un po’ tocchi, sapete? Però hanno l’udito buono.
    Scrivetemi per favore. O mandatemi un disegno, d’accordo? Ho bisogno di un quadro nuovo, no? Ormai quelli che ho li conosco a memoria.
    Una volta giochiamo a calcio? Mi piacerebbe tanto.

***

Volevamo cambiare tutto. Volevamo che il popolo ci seguisse. Eravamo certi che ci seguisse. Volevamo essere l’avanguardia del cambiamento. La trave che avrebbe sollevato il peso della coscienza. E invece no. Non ci ha seguito il popolo. Distratto. Rassegnato. Stanco. Non so. Eppure ne eravamo certi. Ci siamo voltati e non c’era nessuno.

***

Mi piacerebbe camminare tra gli alberi. Fermarmi. Guardare in alto. E in silenzio, ascoltare. Sì, mi piacerebbe. Guardare verso l’alto. Allungare le braccia. E spingere via il cielo. (Silenzio)

Io la vostra mami, sono a pezzi.

 

 

PECI

Sì, è così.
    Son entrato anch’io in quello stabile. Ho scritto anch’io su quel muro la lettera B e la lettera R. Pure io ho tracciato una riga rossa su quella parete. Ma cosa è stato? Cosa è stato? Questo significa aderire a un movimento? Significa essere un brigatista? Un terrorista? Un combattente per la lotta armata? Un rivoluzionario?
    Quando siamo entrati alla CONFAPI, l’associazione delle piccole imprese, e abbiamo dipinto una stella rossa, era più l’entusiasmo che altro. L’entusiasmo di un ragazzino di fare qualcosa di proibito, qualcosa che non si poteva fare. È stato un attimo, un momento. Forse era per sentirsi parte di qualcosa. Era provare a stare al centro delle cose. Per un attimo. Per un secondo sentirsi al centro e non nella piccola provincia pigra e assolata di San Benedetto del Tronto. Ecco cosa è stato. Era sentirsi guardati, presi sul serio, ammirati, come quei giovani combattenti per il popolo, ammirati, figli di professori, benestanti, iscritti nelle migliori facoltà, ribelli, tutte le sere protagonisti nei telegiornali. Era sentirsi per una volta non solo il figlio di una cuoca e di un muratore. Era provare ad avvicinarsi a loro. Ecco cosa è stato.
    È stato mettermi in mostra. Agli occhi di mio fratello. (Silenzio)

Ho tre anni meno di mio fratello Patrizio. Faccio l’antennista e mi sono sposato da poco. Mia moglie Antonietta è incinta. Finita la scuola ho fatto domanda per entrare nei carabinieri. Uno stipendio fisso, ho pensato. La tranquillità economica. Ma mi hanno rifiutato perché mio fratello Patrizio era già noto come militante politico.
    Un giorno mi dice: Robè vuoi cambiare il mondo con me? (Silenzio)

Il giorno che mi hanno ammazzato faceva caldo. Alle 04.35 del mattino avvolto in una coperta e imbavagliato mi hanno fatto uscire dal covo in cui mi hanno tenuto per cinquantaquattro giorni. Mi hanno detto che mi trasferivano in un’altra prigione. Io non ho opposto resistenza. Mi hanno portato in un casolare della Terricola, nella campagna romana. Un casolare abbandonato. Un rudere. Mi hanno messo un cappuccio nero in testa, mi hanno appoggiato a un muro e mi hanno sparato undici volte. Il mio corpo lo hanno lasciato in mezzo ai rifiuti. Era il 3 agosto 1981. In quel momento, in quell’esatto momento, avevo venticinque anni e mia moglie quattro mesi dopo partoriva mia figlia.    (Silenzio)

E allora forse non tutto il mio sangue sarà seccato e disperso tra le erbacce i rifiuti e i resti di queste mura che odorano di marcio e che sono la mia tomba. Forse il mio sangue scorrerà in vene nuove e farà pulsare un cuore fresco, puro, che loro non potranno mai fermare, non potranno farci niente, loro, che oggi decidono di me.
    E appoggiato con la schiena a quel muro … improvviso un ultimo pensiero … nell’oscurità di quel cappuccio nero …
    Mia figlia si vergognerà del suo cognome? (Silenzio)

Si chiama come me. Roberta. Roberta Peci. E io non l’ho mai vista.

 

 

MEINHOF

Vorrei spingere via il cielo
    Guardare verso l’alto
    Allungare le braccia
    E spingere via il cielo

Invece volgo gli occhi all’indietro
    Assuefatta e ingannata
    Perché devo capire

Capire
    Capire
    Dove ho inciampato?
    Quale equazione non ho saputo risolvere?

Alle mie spalle il mare era agitato dai venti
    Tardi sono arrivata in porto
    Già spente le luci
    A tentoni ho provato a sbarcare

Mi davano le spalle
    I facchini
    Giocavano a carte

Torcia ballante strapazzata dal vento
    Ombra nera su un muro verde di muffa
    Mi sono riconosciuta

Non uno si è alzato
    Esser più cauti avremmo dovuto
    Conoscere i venti
    Saperci parlare

Ma come al vento?
    Se non sai farlo a un facchino

E allora rido
    Rido
    Guardo dritta davanti a me
    E rido

Prima o dopo la Terra
    Avrà compiuto il suo giro
    E sarà tempo di nuovo
    Per voltarmi all’indietro

E capire
    Capire
    Che come il tordo
    Forse

Anch’io
    Ho voluto imitare un canto
    Che non era il mio

Vorrei spingere via il cielo
    Guardare verso l’alto
    Allungare le braccia
    E spingere via il cielo.

 

(Fine)