La resa e l’onore
Il monologo di un militare
Giancarlo Ferraris
Note dell’autore
Precisazione
Il contenuto di questo monologo è puramente opera di fantasia anche se basato su un evento storico reale, la sconfitta subita dai tedeschi ad opera dei russi a Stalingrado (agosto 1942 - gennaio 1943) durante la seconda guerra mondiale. Pertanto, le notizie riguardanti lo svolgimento della battaglia e della guerra sono tutte documentate.
Il personaggio
Friedrich Paulus (Breitenau 1890 - Dresda 1957) iniziò la carriera militare come ufficiale cadetto e partecipò alla prima guerra mondiale con il grado di capitano. Nel dopoguerra entrò nello Stato Maggiore del ricostituito Esercito tedesco, divenne generale ed ebbe modo di conoscere a fondo e contribuire allo sviluppo delle nuove tecniche di guerra con i mezzi corazzati oltre a venire a contatto con alcuni ufficiali esperti della nuova arma. Scoppiata la seconda guerra mondiale, Paulus divenne capo di Stato Maggiore della Sesta Armata, dando un notevole apporto alla conquista del Belgio e della Francia; in seguito collaborò attivamente alla stesura del piano di attacco all’Unione Sovietica. All’inizio del 1942 fu inaspettatamente nominato comandante in capo della stessa Sesta Armata operante nel settore meridionale del fronte russo. Dotato di grande preparazione professionale, esperto di pianificazione militare, organizzatore minuzioso e previdente nonché profondo conoscitore della tecnica della guerra con i mezzi corazzati, Friedrich Paulus, pur se inesperto del comando diretto sul campo, sembrava adatto alla guida della sua vecchia armata, nonostante i dubbi di alcuni generali delle forze armate germaniche sulle sue doti di condottiero, sulla sua forza di carattere, sulla sua risolutezza e sulla sua energia. Paulus seppe però muoversi egregiamente, prendendo parte ad alcune battaglie vittoriose contro diverse armate russe e partecipando all’offensiva d’estate che lo portò davanti a Stalingrado, la “città fatale” che segnò il suo destino e quello della Sesta Armata. Per sei mesi Paulus e i suoi soldati si trovarono a combattere una battaglia terrificante, la più sanguinosa di tutta la guerra, contro un nemico che si rivelò invulnerabile, tormentati nondimeno dalla fame, dalle malattie e dal gelido inverno russo, finendo poi per essere abbandonati dall’Alto Comando tedesco, nonostante la retorica eroica del regime nazista e il tentativo fallito di salvataggio, a una tragica sorte. Il 31 gennaio 1943 il generale Friedrich Paulus, che Adolf Hitler il giorno prima aveva promosso feldmaresciallo, contravvenendo agli ordini di suicidarsi e di combattere fino alla morte, si arrese ai sovietici con i superstiti della sua Sesta Armata.
*Voce narrante*
I tre punti di sospensione indicano:
- brevi momenti di pausa nei discorsi del personaggio;
- discorsi interrotti o sospesi.
Commiserare, piangere, pregare
*Stalingrado, 31 gennaio 1943. La più grande battaglia della seconda guerra mondiale è finita. L’Armata Rossa ha vinto. La Sesta Armata tedesca, uno dei corpi più prestigiosi della Wehrmacht, è stata sconfitta e le sorti dell’intero conflitto capovolte. Il suo comandante, il feldmaresciallo Friedrich Paulus, insieme a ventiquattro generali e a novantamila soldati, è stato fatto prigioniero. Nei giorni successivi, dopo un breve interrogatorio, Paulus è stato condotto dai russi in un’isba dove, rimasto solo sotto però la stretta sorveglianza dei vincitori, riflette ad alta voce sulla guerra e sulla battaglia.*
Mi chiameranno traditore e codardo: traditore perché non ho obbedito totalmente al nostro Führer Adolf Hitler; codardo perché invece di combattere fino alla fine mi sono arreso. Ma a chiamarmi traditore e codardo saranno sempre e soltanto coloro i quali non hanno combattuto questa guerra e questa battaglia: quelli che non sono mai stati a Stalingrado, ma che parleranno sempre di Stalingrado; quelli che non hanno conosciuto Stalingrado, ma che pretenderanno sempre di raccontare Stalingrado; quelli che non hanno nessuna memoria di Stalingrado, ma vorranno sempre ricordare Stalingrado… Perché soltanto quelli come me, che hanno fatto questa guerra e che hanno combattuto a Stalingrado, sanno che Stalingrado non si può nominare, non si può narrare, non si può ricordare… Stalingrado si può solo commiserare, si può solo piangere, si può solo pregare.
Primo momento. Storia di una guerra
Tutto iniziò il 22 giugno 1941: quel giorno le forze armate di terra e di cielo della Germania oltrepassarono la frontiera con l’Unione Sovietica e dettero inizio a una guerra preventiva con il giusto scopo di respingere l’invasione russa, che era imminente e inevitabile e con l’obiettivo di ottenere un vantaggio strategico prima che la minaccia dell’invasione nemica si concretizzasse… D’altra parte c’erano tutte le condizioni per iniziare un conflitto preventivo: la natura e l’entità della minaccia; l’assoluta certezza che questa minaccia diventasse realtà; l’impossibilità a non usare la forza. Per la nostra causa avevamo messo in piedi il più grande schieramento di soldati e di armi della Storia: tre milioni di uomini con settemila cannoni, tremila carri armati e duemila aerei suddivisi in tre grandi gruppi d’armate. Davanti a noi c’erano un esercito e un’aeronautica altrettanto grandi, ma poco addestrati e mal comandati, pianure sconfinate e un clima terribile, che però non ci spaventavano e tre città dove entrare da vincitori: Mosca, Leningrado, Kiev. La nostra avanzata, condotta secondo gli schemi della guerra lampo, fu veloce e travolgente: i nostri panzer, seguiti dalla fanteria e dall’artiglieria, misero in atto un’azione a tenaglia formando delle sacche dove centinaia di migliaia di soldati russi rimasero accerchiati e finirono nostri prigionieri. Sembravamo invincibili. Poi, le cose iniziarono a cambiare un po’. Anche se accerchiato il nemico non si arrendeva più e continuava a combattere con ostinazione e coraggio fino alla morte oppure, sempre più frequentemente, fuggiva davanti alla nostra avanzata, lasciandosi dietro città, campagne, strade e ferrovie incendiate e devastate, dove non c’era nulla da mangiare; oltre ai soldati ci trovammo addosso anche la popolazione civile, centinaia di migliaia di uomini e di donne organizzati militarmente e votati all’estremo sacrificio per la salvezza del loro paese in quella che i russi chiamavano guerra partigiana: una guerra insidiosa e mortale, che veniva condotta nelle nostre retrovie con la tecnica della guerriglia e che ci costringeva a sottrarre dal fronte molti reparti per fronteggiarla. Un mese dopo l’inizio delle operazioni ci furono altri cambiamenti. La nostra guerra lampo si fermò davanti a Smolensk, lungo la via che porta a Mosca. Questa città resistette ai nostri attacchi, ci ridusse la libertà di manovra, ci sconvolse la tabella di marcia e permise al nemico di far affluire le sue riserve in difesa di Mosca. Poi accadde dell’altro: il Führer abbandonò l’idea di conquistare la capitale dei russi, preferendo a essa l’Ucraina, la città di Leningrado, la Crimea e il Caucaso. La situazione tornò in nostro favore: con la nostra guerra lampo e la nostra manovra a tenaglia, già sperimentata con successo, conquistammo l’Ucraina, ricca di granai ed entrammo nella sua capitale Kiev, nel corso di una battaglia di dimensioni enormi, ci spingemmo molto a nord verso la storica città di Leningrado, che iniziammo a cingere d’assedio, conquistammo la Crimea, porta d’accesso al petrolio del Caucaso, ponemmo l’assedio a Sebastopoli. All’improvviso il Führer ebbe un ripensamento: occupare Mosca. Dopo aver conquistato il cuore industriale del nemico voleva conquistarne il cuore politico, prima dell’arrivo del tradizionale alleato dei russi: il Generale Inverno. A ottobre riuscimmo ancora ad avanzare, intrappolando in una gigantesca sacca il nemico, che però continuava a combattere, ma cadde la prima neve che si trasformò subito in fango, il quale rallentò pericolosamente la nostra avanzata. I russi ne approfittarono subito per riorganizzarsi e passare al contrattacco con nuovi tipi di carri armati. A novembre il termometro scese a quaranta gradi sotto zero. I nostri soldati non avevano divise ed equipaggiamenti adeguati, le armi automatiche si inceppavano, i carri armati affondavano nella neve: eravamo a qualche decina di chilometri dalla capitale sovietica. In quella difficile situazione la nostra industria di guerra ci venne comunque in aiuto, dotandoci di tutto ciò che era necessario per vivere e per combattere a temperature polari, ma a Mosca, superbamente difesa da imponenti fortificazioni e da truppe fresche, non riuscimmo a entrare e, per la prima volta, dovemmo ritirarci. Nel gennaio 1942 i russi ci attaccarono. Si combatté per diversi mesi: un alternarsi di offensive e controffensive, di accerchiamenti e di sfondamenti sia da parte nostra, che da parte del nemico, il quale riuscì nel suo intento principale: quello di bloccare le nostre truppe che, nonostante tutto, avevano continuato a minacciare Mosca, ma che alla fine furono costrette a indietreggiare anche se a nord e a sud continuavano ad assediare Leningrado, che resisteva, e Sebastopoli, che cadde all’inizio della stagione estiva. A luglio il Führer scatenò l’offensiva d’estate: l’obiettivo era quello di mettere le mani sui pozzi petroliferi del Caucaso oltre a occupare il bacino industriale del Donez e i campi di grano del Kuban, togliendo al nemico contemporaneamente petrolio, industrie, viveri e permettendoci così di vincere la guerra.
Secondo momento. La città fatale
Comandavo la Sesta Armata della Wehrmacht, un esercito nell’Esercito tedesco: cinque corpi d’armata, con quindici divisioni di fanteria, due motorizzate e tre corazzate per un totale di trecentocinquantamila uomini con migliaia di cannoni, carri armati e automezzi oltre a un forte appoggio aereo. Con questo corpo potentissimo presi parte a molte battaglie vittoriose, come quella di Char’kov, accerchiando e distruggendo intere armate nemiche tanto da meritarmi la Croce di Cavaliere della Croce di Ferro. A metà luglio ricevetti l’ordine tassativo, inderogabile di conquistare una città nodo di comunicazioni ferroviarie e fluviali nonché centro di smistamento di beni e risorse e polo di industrie meccaniche e belliche; una maledetta città, la cui conquista avrebbe permesso di bloccare l’afflusso di petrolio in tutta l’Unione Sovietica, sbarrare il Volga e proteggere le spalle ad altre nostre truppe dirette verso il Caucaso: Stalingrado.
All’inizio andò tutto per il verso giusto, anche se ero preoccupato per la scarsezza di carburante per i miei panzer e per la debolezza di alcuni settori del fronte. A luglio la mia Sesta Armata entrò nella grande ansa del Don, che attraversò nei pressi di Kalač, diretta verso il Volga. Il mio piano per conquistare Stalingrado era militarmente classico: avanzare frontalmente, da ovest verso est, buttare i russi nel fiume dopo aver isolato la città da nord con i panzer del generale Hans Hube e da sud con i panzer del generale Hermann Hoth, raggiungere il Volga in più punti, frazionare le difese nemiche in sacche separate e isolarle dalla riva del fiume. Il mio piano effettivamente funzionò: tra la fine di luglio e la metà di agosto le difese sovietiche nella grande ansa del Don furono distrutte o disperse, anche se i combattimenti furono eccessivamente prolungati per la resistenza accanita del nemico: mi riferirono di soldati russi che con bombe a mano legate alla cintura si gettavano sotto i nostri carri armati. Il 23 agosto i miei panzer irruppero sul Volga a nord di Stalingrado, tagliando fuori la città dai collegamenti da settentrione mentre la Luftwaffe la bombardò a tappeto, riempiendola di incendi abbaglianti e di alte colonne di fumo. Ricordo ancora la strana emozione, un misto di euforia incontenibile e di profondo timore, che provai quando scorsi prima quella città - definita da un mio generale come “uno strano miscuglio di tecnologia moderna in un panorama asiatico” - con i suoi alti palazzi bianchi, le sue sterminate fabbriche irte di ciminiere, i suoi giganteschi silos granari, i suoi enormi depositi di acqua, poi il Volga. Il più grande fiume russo scorreva ai piedi di una riva scoscesa coperta di zattere, di imbarcazioni, di tronchi fluttuanti; l’altra sponda era un dedalo di isole piccole e grandi coperte di giunchi e circondate da canali malinconici che si perdevano all’infinito. Stalingrado stava per diventare nostra. L’accesso alla città era limitato a una angusta apertura, un corridoio largo dai due ai tre chilometri. Per una settimana reparti corazzati e motorizzati della mia Sesta Armata allargarono quella specie di sentiero. Alla fine di agosto, nonostante la resistenza e i contrattacchi del nemico, le mie truppe si posizionarono a ovest e a est di Stalingrado mentre i carri armati di Hube e di Hoth, come previsto dal mio piano, raggiunsero la città e il Volga a nord e a sud. Stalingrado era chiusa ora in una morsa. La città sembrava a portata di mano.
La realtà era però diversa. I nostri attacchi, soprattutto quelli condotti dalla mia Sesta Armata, si susseguirono senza apparenti interruzioni, con frequenti mutamenti di località e di metodo, ma con successi del tutto sproporzionati al prezzo che pagavamo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto di quella lotta immane. A volte i russi cedevano, ma in nessuna occasione i nostri colpi riuscivano a penetrare abbastanza in profondità nel loro schieramento da provocare qualcosa di più di un semplice ripiegamento locale. Nella maggior parte dei casi venivamo respinti o non riuscivamo a conseguire risultati determinanti. Per giorni e giorni la Luftwaffe rovesciò tonnellate e tonnellate di bombe su Stalingrado, trasformando gli incendi iniziali in un immenso braciere da cui si levavano decine di pennacchi di fuoco e di fumo. Tutto bruciava: le case di legno, i palazzi di mattoni, l’asfalto delle strade e delle piazze, i depositi di viveri, di foraggi, di legnami, di petrolio e di benzina, le grandi fabbriche di materiale bellico, gli impianti per la navigazione fluviale, i moli, l’intera flotta mercantile del Volga sulla cui superficie si riversavano torrenti di carburanti in fiamme. La città, che i suoi abitanti chiamavano, a seconda delle circostanze, Regina delle Steppe o Dominatrice del Volga o Porta del Caucaso sembrava stesse vivendo la sua terribile ora di agonia. Ovunque era presente una pesante coltre di fumo e di polvere, che di notte diventava rossastra per il riverbero degli incendi. Spesso i ricognitori della Luftwaffe si vedevano costretti a rinunciare alle loro missioni di osservazione, dal momento che ogni visibilità era impedita da quell’atmosfera densa e cupa. Eppure proprio questo enorme ammasso di macerie fumanti avrebbe offerto a tutto il mondo uno dei più tragici spettacoli della storia militare, destinato ad apparire come qualcosa di miracoloso: a Stalingrado, come aveva detto Goethe a Valmy un secolo e mezzo prima, sarebbe iniziata “un’era nuova nella storia del mondo”.
Terzo momento. L’inferno dei vivi
Era il 16 settembre quando sferrai il primo massiccio attacco frontale contro Stalingrado. Fu l’inizio di nove lunghe, interminabili, terrificanti settimane di combattimenti: settecento attacchi, in media dodici al giorno, e cinque grandi, sanguinosissime battaglie. La mia Sesta Armata si trovava in notevole vantaggio tattico sul nemico: avevo fatto occupare le colline attorno alla città e ciò mi permetteva di disporre di ottimi punti di osservazione dei movimenti dei russi e del traffico sul Volga, di offrire alle mie artiglierie ampi campi di tiro e di mascherare i miei raggruppamenti di forze per gli attacchi; oltre a tutto ciò le mie truppe erano equipaggiate con molti mezzi motorizzati e corazzati dotati di grande mobilità e di grande potenza di fuoco e godevano dell’appoggio della Luftwaffe, che poteva bombardare i centri di resistenza del nemico, le sue basi nelle retrovie, le sue vie di comunicazione. Ben presto Stalingrado divenne una foresta pietrificata di palazzi sventrati, case ridotte a brandelli, ciminiere mozze e annerite, vie e piazze sconvolte, giardini arati dalle esplosioni. Così scriveva un ufficiale dei panzer nel suo diario che trovai per caso tra le macerie dove posi il mio Quartier Generale:
Dio mio, Dio mio perché ci hai abbandonato? Stalingrado non è più una città. Di giorno è una gigantesca nuvola di fumo nero e grigio accecante e soffocante, di notte un’immensa fornace illuminata da fiamme rosse e gialle. Le strade non si misurano più a metri, ma a cadaveri di soldati; anche i cani hanno paura di questo inferno e si gettano spaventati nel Volga mentre le pietre sembrano quasi piangere. Soltanto gli uomini resistono.
Il fronte avversario, sotto l’urto possente dei miei cannoni e dei miei carri armati appoggiati dagli aerei, invece di sgretolarsi tutto insieme si spezzettò in tantissime piccole isole di resistenza costituite dai resti di una strada, di una casa, di una scuola, di una fabbrica. Il nemico, quasi invisibile, era tenacemente asserragliato tra queste rovine, insidiosamente onnipresente, mortalmente pericoloso con le sue guarnigioni e i suoi gruppi d’assalto e di difesa, che prima distruggevano i miei panzer, impossibilitati a muoversi velocemente tra le macerie, poi massacravano con attacchi alle spalle e imboscate i miei soldati rimasti scoperti e senza la protezione dei carri armati. Mi vidi costretto a cambiare tattica, concentrando in settori del fronte molto ristretti una miriade di piccoli reparti che, dotati di armi automatiche e di lanciafiamme e appoggiati da bombardamenti terrestri e aerei sulle prime linee e sulle retrovie del nemico, dovevano falciarne le truppe e incendiarne i nidi di resistenza. Era così iniziata la Rattenkrieg, la guerra dei topi, qualcosa di immensamente terribile che non si era visto neppure nelle trincee della Grande Guerra. La battaglia si era trasformata in una mischia serrata e confusa, di giorno e di notte, con raffiche sparate a bruciapelo, cannonate a breve distanza, lanci di bombe a mano, combattimenti corpo a corpo con baionette e pugnali. Conquistare o riconquistare una casa o una strada diventava, sia per noi che per i russi, un obiettivo che costava decine e decine di vite umane e una volta raggiuntolo tutto ricominciava da capo: il nemico sparava all’impazzata dall’edificio posto di fronte, sbucava come una talpa dalle fogne o dalle cantine, faceva irruzione dalle soffitte, assaliva alle spalle sparando o sgozzando. Qualcuno ha chiamato Stalingrado la Verdun dell’Oriente, ma qui, a differenza del fronte francese del 1916, le linee erano a brevissima distanza: sui due lati di una strada, dall’ingresso al cortile di un edificio, da un piano all’altro di una casa. Ogni uomo sentiva l’avversario camminare, strisciare, respirare, qualche volta giungeva a parlagli, senza essere ovviamente compreso. Quanti morti, migliaia ogni giorno!, sull’antica collina sepolcrale di Mamaev Kurgan, alla Stazione Ferroviaria, al grande Silos di Grano, alla Casa di Pavlov, alla Casa a forma di L, alla Casa dei Ferrovieri, all’acciaieria Ottobre Rosso, alla Fabbrica di Trattori, alla fabbrica di armi Barricata.
A ottobre fummo vicini alla vittoria. Nove decimi della città erano nelle nostre mani, il Volga era stato raggiunto in più punti e il nemico appariva sempre più in difficoltà, dal momento che era asserragliato lungo una sottile striscia urbana fiancheggiante la riva occidentale del Volga e riceveva armi e rinforzi solo grazie ai battelli fluviali che giorno e notte i miei cannoni e la Luftwaffe bombardavano incessantemente. Eppure la sua volontà combattiva non si spegneva, anzi appariva sempre più forte, più determinata; la sua artiglieria sulla riva orientale del Volga era sempre più micidiale, i suoi contrattacchi sempre più frequenti e vittoriosi. E il 19 novembre accadde l’irreparabile. Quel giorno, la mattina presto, con una perfetta scelta di tempo cioè nel periodo tra i primi geli che induriscono il suolo permettendo rapidità di movimenti e le prime grosse nevicate che invece bloccano ogni possibilità di manovra, interminabili colonne di mezzi corazzati sovietici ci vennero addosso. Il nemico manovrò con grande abilità: con una metà delle sue forze penetrò nel nostro schieramento in profondità, con l’altra metà lo superò e lo aggirò. I reparti corazzati della mia Sesta Armata furono ripetutamente sconfitti a nord e a sud del fronte di Stalingrado. In quattro giorni i carri armati russi raggiunsero il Don, minacciarono la sede del mio stesso Comando, conquistarono il ponte di Kalač, dove a luglio eravamo passati noi vincitori, e attraversarono il fiume finendo per congiungersi con le altre colonne russe provenienti da ovest e da est di Stalingrado. Un piano complesso e semplice insieme quello del nemico. Soprattutto un piano mortale.
Quarto momento. Kessel oder Festung Stalingrad
Le parti erano state completamente, drammaticamente, terribilmente ribaltate. La mia Sesta Armata era accerchiata tra il Don e il Volga; soprattutto era letalmente bloccata a Stalingrado. Per i miei soldati il territorio dove si trovavano assediati divenne subito il Kessel, il calderone o sacca; per il nostro Führer Festung Stalingrad, Fortezza Stalingrado, come a sottolineare la risoluta e incrollabile resistenza che la mia Sesta Armata accerchiata e assediata dai russi avrebbe dovuto assumere. In che stato d’animo si trovassero i miei uomini lo testimoniano alcune lettere trovate addosso ad alcuni di loro caduti in combattimento (legge):
Mi sono spaventato quando ho visto la carta. Siamo completamente isolati, senz’aiuto dal di fuori. Hitler ci ha lasciati. Questa lettera parte ancora se l’aeroporto è nelle nostre mani. Siamo nel nord della città. Anche gli uomini della batteria lo intuiscono, ma non lo sanno altrettanto chiaramente e in modo certo come me. È così, dunque, che si prospetta la fine. In prigione io non ci vado. Ieri ho visto quattro uomini fatti prigionieri dai russi, dopo che la nostra fanteria aveva ripreso l’avamposto. No, in prigione io non ci vado. Quando Stalingrado cadrà, tu non lo sentirai e lo leggerai, e allora saprai che non ritornerò.
Ho impersonato la morte sulla scena una cinquantina di volte, ma era solo teatro, e voi sedevate sulle sedie di velluto, lì davanti, e la mia interpretazione della morte vi sembrava sapiente e fedele. È impressionante riconoscere come il teatro avesse poco a che fare con la morte. La morte doveva essere sempre eroica, entusiasmante, trascinatrice, per un fine grande e convincente. In realtà, qui, cos’è? Un crepare, un morire di fame, di gelo, nient’altro che un fatto biologico, come il mangiare e il bere. Cadono come mosche e nessuno pensa a loro, nessuno li seppellisce. Giacciono dappertutto qui attorno senza braccia, senza gambe, senza occhi, con i ventri squarciati. Si dovrebbe girare un film per render impossibile “la più bella morte del mondo”. È una morte bestiale che poi un giorno sarà nobilitata su zoccoli di granito con “guerrieri morenti”, con la testa o il braccio fasciati. Si scriveranno inni, romanzi e si intoneranno canti gloriosi. E nelle chiese si diranno le messe.
Così ora sai che non ritornerò. Sono profondamente sconvolto e dubito veramente di tutto. Un tempo ero fiducioso e forte, ora sono piccolo e sfiduciato. Non capirò molto di quello che succede qui, ma il poco a cui prendo parte è già tanto da non poterlo mandar giù. Non mi si può far credere che i camerati muoiano con sulle labbra la parola Deutschland o Heil Hitler. Si muore, questo sì, non si può negarlo, ma l’ultima parola è per la mamma o per la persona più cara oppure è solo un grido d’aiuto. Ne ho visti cadere e morire centinaia e molti appartenevano come me alla Hitlerjugend, ma tutti, se ne erano ancora capaci, chiamavano aiuto o invocavano il nome di chi però non poteva aiutarli.
Tu sei pastore di anime, padre, e nell’ultima lettera si dice solo la verità oppure ciò che si ritiene vero. Ho cercato Dio in ogni fossa, in ogni casa distrutta, in ogni angolo, in ogni mio camerata, quando stavo in trincea, e nel cielo. Dio non si è mostrato quando il mio cuore gridava a lui. Le case erano distrutte, i camerati erano tanto eroici o così vigliacchi quanto me, sulla terra c’erano fame e omicidio e dal cielo cadevano bombe e fuoco. Soltanto Dio non c’era. No, padre, non c’è nessun Dio. Lo scrivo di nuovo e so che è una cosa terribile e per me irreparabile. E se proprio ci deve essere un Dio, è solo presso di voi, nei libri dei salmi e nelle preghiere, nelle pie parole dei preti e dei pastori, nel suono delle campane e nel profumo dell’incenso. Ma a Stalingrado, Dio non c’è.
Tu sei colonnello, caro papà, e dello Stato Maggiore. Tu sai che significa tutto questo e mi risparmierai quindi spiegazioni che potrebbero sapere di sentimentalismo. È la fine. Penso che potrà durare ancora circa otto giorni, poi l’anello di chiuderà. Non voglio indagare sui motivi pro e contro la nostra situazione. Questi motivi sono perfettamente insignificanti, ora, e di nessuna importanza, ma se potessi aggiungere qualcosa, vorrei dire soltanto: non cercate presso di noi le ragioni di questa situazione, ma presso di voi e presso colui che ne è il responsabile. Tenete alta la testa! Tu, papà, e quelli che sono della tua stessa opinione, state all’erta che non succeda ancora di peggio alla nostra patria. L’inferno del Volga vi sia di ammonimento. Vi prego, non fate che il vento disperda questo insegnamento.
Eravamo in trappola. Una trappola mortale, dalla quale dovevamo però uscire. Insieme ai miei generali feci pressioni sul Führer per mettere in atto una ritirata immediata, dal momento che le mie truppe accerchiate non avrebbero potuto resistere in inverno oltre al fatto che non sarebbe stato possibile organizzare una pronta ed efficace controffensiva di salvataggio. Il 24 novembre arrivò la risposta dal Quartier Generale di Rastenburg: la mia Sesta Armata, che sarebbe stata rifornita attraverso un inverosimile ponte aereo, doveva assolutamente resistere al nemico in attesa di essere liberata dall’accerchiamento e dall’assedio. Le ultime parole del Führer non lasciavano alcuna ombra di dubbio:
Conosco il valore della Sesta Armata e del suo comandante e so che l’una e l’altro faranno il proprio dovere.
Fu così che la mia Sesta Armata non si mosse dalla sacca di Stalingrado. Abbandonai tutti i piani di ritirata, organizzai una difesa in tutte le direzioni, razionalizzai al massimo gli armamenti e gli scarsi rifornimenti a disposizione in attesa dei soccorsi promessi dal Quartier Generale di Rastenburg Il 12 dicembre scattò l’operazione che avrebbe dovuto salvare la mia Sesta Armata, ma le truppe e i panzer inviati a liberarci dall’accerchiamento e dall’assedio dei russi, nonostante alcune vittorie, non riuscirono, per la strenua resistenza della linea difensiva nemica, a raggiungere il perimetro della sacca, fermandosi a quaranta chilometri da Stalingrado nove giorni prima di Natale. Rimaneva una sola via d’uscita: tentare una sortita autonoma, ma ciò era impossibile; la mia Sesta Armata era stata troppo indebolita da mesi di aspri combattimenti e dal gelo devastante e non disponeva più del carburante necessario per muoversi compattamente oltre al fatto che il ponte aereo era completamente fallito. Il destino della mia Sesta Armata era quello di restare a Stalingrado, di battersi fino alla fine a Stalingrado, di morire a Stalingrado.
Quinto momento. L’ora della decisione
Così la mia Sesta Armata si è preparata a combattere, da sola e con quel poco che aveva, una lunga battaglia per la sua salvezza e per la vittoria finale. In realtà era iniziata la sua agonia. Sarebbe durata quarantacinque giorni. Da assedianti eravamo diventati assediati. La guerra dei topi, di giorno e di notte, riprese attorno ai resti di una strada, di una casa, di una scuola, di una fabbrica dove i miei soldati erano asserragliati. I combattimenti, aggravati dalla prostrazione fisica e morale, divennero quasi insostenibili a causa dell’inverno: il sole calava poco dopo mezzogiorno e tra le due e le tre del pomeriggio era già notte fonda. Verso la fine di dicembre ho creato, inverosimilmente, nuovi reparti, i cosiddetti “battaglioni da fortezza”, con uomini della fanteria e dell’artiglieria rimasti senza fucili e senza cannoni, carristi senza panzer, autieri senza autoveicoli, scrivani, contabili, addetti alla logistica mentre i casi di diserzione e di insubordinazione si moltiplicavano come anche le vittime per tifo, pidocchi e dissenteria, che si univano alla fame già da tempo sperimentata. Il Capodanno del 1943 ha portato un freddo micidiale, implacabile, inesorabile: oltre trenta gradi sotto zero. Il mattino dell’8 gennaio tre parlamentari russi con una bandiera bianca si sono presentati alle nostre linee per chiedere la resa. Immediatamente lo ho comunicato al Führer, invocando “libertà d’azione”, un’espressione molto diplomatica con cui ho chiesto il permesso di arrendermi con tutta la mia Sesta Armata, ma la sua risposta è stata negativa. Allo scadere dei termini di questo ultimatum, il nemico ha scatenato un attacco possente appoggiato da un apocalittico bombardamento d’artiglieria, ha invaso Stalingrado, costretto le mie truppe a ritirarsi nella parte più interna della città e conquistato le ultime piste aeree ancora in nostro possesso. La perdita di queste piste ha portato alla riduzione delle razioni giornaliere per i miei uomini: settantacinque grammi di pane, duecento grammi di carne di cavallo compresi gli ossi, dodici grammi di grassi, undici grammi di zucchero, una sigaretta. Il 23 gennaio, per la seconda volta, ho invocato “libertà d’azione” al Führer e per la seconda volta ho ricevuto una risposta negativa. Il 30, improvvisamente, è arrivata la notizia che il Führer mi aveva promosso feldmaresciallo, il grado più alto nella Wehrmacht; la promozione era però accompagnata da uno strano messaggio, che era un tacito invito a farmi saltare le cervella, in virtù anche del fatto che nella storia militare della Germania nessun feldmaresciallo si era mai arreso:
Mio feldmaresciallo Paulus! Il popolo tedesco guarda con profonda commozione alla città di Stalingrado. Come sempre nella storia dell’umanità anche questo sacrificio non sarà vano. La nazione tedesca comprende ora tutta la gravità di questa lotta e farà i massimi sacrifici. Ricordando sempre voi e i vostri soldati.
Non avevo la benché minima intenzione di suicidarmi per fare un piacere a quel caporale diventato padrone della Germania e al quale, in nome di un concetto distorto dell’onore militare e dell’obbedienza totale fino alla morte, interessava soltanto creare un mito e non salvare le vite dei miei soldati. Subito ho inviato un messaggio a Rastenburg in risposta a quanto ricevuto:
Führer! La Sesta Armata, fedele al suo giuramento e consapevole di tutta l’importanza del suo compito, ha tenuto le posizioni fino all’ultimo uomo e fino all’ultima cartuccia, per il Führer e per la Germania, sino alla fine.
Non credo però che il Quartier Generale di Rastenburg abbia compreso le parole del mio messaggio pienamente e nel modo giusto… Alle otto e quindici del 31 gennaio ho tolto ogni dubbio e, pienamente consapevole di disobbedire agli ordini superiori e di non combattere fino alla fine, ho preso la decisone finale, consegnando ai russi la mia pistola, quella stessa arma che avrei dovuto usare contro di me.
Sesto momento. I torti e le ragioni
Era finita. Veramente finita. Questa volta avevamo perso una grande battaglia e l’avevamo persa sanguinosamente, drammaticamente, terribilmente, orribilmente. Per la prima volta avevamo subito noi quello che per tante volte noi avevamo inflitto ai nostri nemici: una sconfitta mortale. Mi chiedo, ora, se come comandante in capo della Sesta Armata, al di là delle parole e degli ordini di chi con arroganza vuole dirigere una guerra senza essere su un vero campo di battaglia, ho fatto il mio dovere… Ebbene a chi dirà che ho condotto l’attacco a Stalingrado soltanto frontalmente, contando troppo sulla potenza di fuoco della mia Sesta Armata e senza aver cercato di isolare i difensori russi dal fiume, rispondo dicendo che la mia condotta della battaglia era obbligata, considerando le risorse di cui disponevo, l’ordine inequivocabile del Führer e la posizione geografica di Stalingrado; a chi dirà che, nonostante le artiglierie, i panzer e gli aerei di cui disponevo, non sono riuscito a stroncare la resistenza dei russi e a seppellirli sotto le macerie di Stalingrado, rispondo dicendo che il terreno dove si è svolta tutta la battaglia cioè la stessa città di Stalingrado era, per la mia Sesta Armata all’attacco, quanto di più insidioso, stretto, chiuso e mortale si possa immaginare; a chi dirà che non ho reagito subito alla controffensiva sovietica del novembre 1942, rispondo dicendo che, pur essendo a un passo dalla vittoria, la mia Sesta Armata era stremata, a corto di armi, di mezzi e di viveri, con il gelido inverno russo che si stava avvicinando a passi da gigante; a chi dirà che non ho predisposto riserve idonee per fronteggiare il nemico, rispondo dicendo che ho gettato nella battaglia tutte le truppe di cui disponevo, come da ordine del Führer, per accelerare la conquista di Stalingrado; a chi dirà che ho guidato i miei uomini in modo troppo distaccato, con scarsa determinazione, senza aver iniettato nei comandi la necessaria energia, rispondo dicendo che, pur avendo condotto la battaglia principalmente dal mio Quartier Generale con assoluta tenacia, sono state frequentissime le mie visite in prima linea; a chi dirà che non ho organizzato una difesa a oltranza galvanizzando le truppe e lasciando al loro destino i feriti e i malati, rispondo dicendo che attendevo i soccorsi che mi erano stati promessi dal Führer e che, come militare e come uomo, non potevo assolutamente condannare a morte migliaia e migliaia di miei soldati; a chi dirà che non ho tentato una sortita, indipendentemente dagli ordini superiori, per salvare almeno una parte della mia Sesta Armata, rispondo dicendo che essa non era affatto nelle condizioni di poterla fare, anche e soprattutto per l’assenza totale dei soccorsi promessi; a chi dirà che non ho formalmente sancito la resa della mia Sesta Armata e che mi sono arreso soltanto a titolo individuale, rispondo dicendo che una resa formale mi era stata sostanzialmente proibita, ma che ho voluto, comunque, con questa resa personale, salvare la mia vita e in particolare quella dei miei ufficiali e dei miei soldati e insieme a loro condividere un’umiliante prigionia: perché talvolta, o sempre!?, è proprio con la lucida ragione e non con l’inutile e folle eroismo, con la ribelle e coraggiosa disobbedienza e non con la valorosa e ottusa obbedienza, soprattutto con la resa consapevolmente scelta e dignitosamente sopportata e non con la morte vanagloriosamente cercata ed esaltata che si acquista l’onore… Il vero onore.
Commiserare, piangere, pregare… Per poi morire
Che cosa dire di più su Stalingrado?... Che mi chiameranno traditore e codardo: traditore perché non ho obbedito totalmente al nostro Führer Adolf Hitler; codardo perché invece di combattere fino alla fine mi sono arreso. Ma a chiamarmi traditore e codardo saranno sempre e soltanto coloro i quali non hanno combattuto questa guerra e questa battaglia: quelli che non sono mai stati a Stalingrado, ma che parleranno sempre di Stalingrado; quelli che non hanno conosciuto Stalingrado, ma che pretenderanno sempre di raccontare Stalingrado; quelli che non hanno nessuna memoria di Stalingrado, ma vorranno sempre ricordare Stalingrado… Perché soltanto quelli come me, che hanno fatto questa guerra e che hanno combattuto a Stalingrado, sanno che Stalingrado non si può nominare, non si può narrare, non si può ricordare… Stalingrado si può solo commiserare, si può solo piangere, si può solo pregare… Per poi morire.