Tempi maturi
di Allegra de Mandato
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« […] ma so che significa passare le giornate senza testimoni,
sdraiati a guardare il soffitto per ore,
con la paura di non esistere più».
Emmanuel Carrère
Un attore pedala incessantemente su dei rulli. È in bilico, costantemente in pericolo di caduta. Se smette di pedalare, cade.
I rulli poggiano su uno specchio di plexiglass. L’attore porta delle cuffiette. Il rumore dei pedali è il suo tappeto sonoro.
Improvvisamente parla.
Sono un attore e uno sportivo amatoriale, che non vuole dire dilettante, dilettante è una categoria, dilettante vuol dire essere uno sportivo per diletto vuol dire che presto se tutto va bene sarai uno sportivo per lavoro.
Io no, pratico sport amatoriale, ma non vuol dire che io mi diverta, mi distraggo, io faccio sport per distrarmi dalla mia vita e dai miei fallimenti, con la forza e l’energia che non si dovrebbe mettere nelle cose da cui non si pretende in cambio il successo, io invece pretendo il successo almeno lì. Qualcosa di più che uno sfogo alle frustrazioni, qualcosa di vicino alla droga… qualcosa di molto vicino alla droga.
«Essere drogati non vuol dire solo essere tossici e per essere tossici non c’è bisogno di essere drogati…»
L’ha detto il Calciatore, il calciatore con la faccia da pugile infelice, non capivo bene ma annuivo.
Io faccio tutto a livello agonistico, poi non vinco quasi mai, ma quando vinco io è per quel momento lì che vivo. Ad un certo punto ho avuto chiaro che il mondo si divide in due categorie di persone quelli che vogliono vincere e ne fanno la loro ragione di vita, ce la mettono tutta, s’impegnano, sono ambiziosi e costruttivi; e quelli come me, che vogliono vincere ma non ce la mettono tutta, quasi mai, che s’incazzano se non vincono e vivono in un perenne senso di fallimento. Profezie che si auto-avverano. Non ci credo, ma a lamentarmi mi sfogo e non costa niente. Perlomeno a me non costa niente, a chi ascolta forse sì, ma me ne frego. Me ne sono sempre fregato.
Ho passato questi ultimi dieci anni di vita, tra teatro, sport, morti, gare, televisione, anni così, anni che sono passati e me ne sono accorto, me ne sono accorto eccome. Avevo trentacinque anni, dieci anni fa. Avevo trentacinque anni, quando è morto mio padre. Quel punto tra l’indefinito e la tensione, un indistinto.
2006. È mattina, sono in ospedale, ho fatto io la notte con mio padre, negli ultimi giorni dorme quasi sempre, non parla quasi più, sono abituato a stare lì e guardarlo dormire in silenzio, mi sono addormentato anch’io, sono stufo, non ne posso più dell’ospedale, dei turni, mi sento stanco di aspettare la morte ma in fondo mi sembra quasi una liberazione… Sento una voce squillante che mi sveglia:
«Cosa fai nomade? Dormi?»
Mio padre mi chiamava “nomade”, perché per lui il mio stare sempre in giro per lavoro o per le gare o per niente, era nomadismo, mi dava fastidio quel giudizio ma in quel momento mi ha sorpreso, non parlava da giorni o se parlava rantolava, ora sembra quasi che fosse ringiovanito nella voce.
«Papà, sei sveglio?»
«Sono le 11, mi sembra l’ora. Perché non facciamo una passeggiata, c’è il sole?»
«Sei sicuro?»
«Sicuro».
Lo aiuto a mettersi nella sedia a rotelle con la flebo e lo porto fuori nel giardino dell’ospedale, è fine agosto, c’è il sole, è stata un’estate fredda, si sta bene…
«Com’è andato lo spettacolo?»
«Quale spettacolo?»
«Non lo so, qual è l’ultimo spettacolo che hai fatto?»
«Il monologo, sulla guerra…»
«E com’è andato? Quanta gente c’era?» Sempre stato interessato ai numeri.
«Sì papà, era quasi pieno…» Non era del tutto falso, era una sala da trenta persone e ce n’erano una ventina, “quasi pieno”.
«Bene, sono contento. Pensavo che ora che sto meglio potrei venire a vederti…»
«Sarebbe bello papà».
Si è addormentato sulla sedia a rotelle al sole, l’ho riportato in camera.
«Suo padre è morto», un’infermiera è venuta a dircelo.
«Ma stava bene… mi ha parlato, è voluto andare in giardino…»
«Succede a volte, si chiama lucidità terminale, è una specie di atto finale per i malati terminali, l’ultimo saluto, succede anche ai malati di Alzheimer, prima di morire sembrano essere guariti… è un regalo».
Bel regalo del cazzo, l’illusione di qualcosa di meglio e poi la mazzata. Il suo atto finale era un bluff…
Mio padre era uno che reggeva tutto in piedi, io non sono stato proprio un mantenuto ma avevo le spalle coperte, me ne hanno fatto sempre una colpa tutti, tutti tranne mio padre. La sua malattia sembrava un incidente di percorso, nessuno gli ha dato peso, finché non è crollato… Il cancro non l’ho capito fino alla fine, so che è stupido e infantile ma è la verità. La malattia mi ha paralizzato, vedere il corpo malato di mio padre ha fatto cominciare la mia paura, mi sono sentito per la prima volta paralizzato.
«Non rallentare, se rallenti ancora un po’ ti fermi», mio padre non mi ha insegnato quasi niente ma mi ha insegnato a guidare, io andavo piano, avevo paura, lui m’incitava ad andare più veloce. Correvo bene solo in bicicletta, se non andavo quattro ore poi stavo male, una mancanza ancora più grande di quel buco indistinto che già sentivo.
Prima erano tempi superficiali quasi felici, ora cominciavano i tempi duri, i tempi in cui diventi quello che sei, in cui ti diventa chiaro quello che sei… Io sono uno che ha paura. Sono uno che quando ha paura non reagisce, si ferma e guarda. «Sarebbe bello», l’ultima frase che ho detto a mio padre… potevo fare di meglio, come sempre.
«Se hai paura di fallire stai ben certo di una cosa: stai già fallendo», il Calciatore la pensava così. Il Calciatore avrebbe saputo cosa dire al padre che stava morendo…
Una volta mi ha detto che tu non puoi impedire alle cose di succedere ma puoi impedire a te stesso di essere presente quando succedono. Mi sono sentito sempre così. Adesso dieci anni dopo la morte di mio padre sono paralizzato come allora, sta succedendo di nuovo, è una nascita non una morte ma la questione è la stessa, immobilità, mi muovo ma sto fermo.
Impedisco a me stesso di essere presente, il travaglio è iniziato da un’ora, io sono a centocinquanta chilometri. Ero lì quando si sono rotte le acque, siamo andati in ospedale, in macchina tutto si stava bagnando, uno strano odore inondava tutto, l’ho lasciata in ospedale, dovevo andare a girare quella scena, dovevo per forza, non si poteva fermare tutta la troupe per me, dovevo…
«Non puoi chiedere almeno?»
«No… non si chiedono queste cose… poi non si lavora più…»
« Ma poi torni?»
«Vado, giro la scena e torno».
Centocinquanta chilometri ad andare e centocinquanta chilometri a tornare, l’odore non se ne va, la macchina puzza di qualcosa che non so definire ma non credo se ne andrà facilmente. No, non è una metafora, non è l’odore della paura, è odore di liquidi umani… non è cattivo è solo mai sentito prima.
Arrivo, il regista mi guarda, ho la faccia stravolta.
«Sta nascendo mio figlio».
«Potevi dirlo ti spostavamo la tua scena… non sei il protagonista…»
Potevo dirlo ma non volevo dirlo, sorrido. Sorride anche lui, un sorriso da presa per il culo.
«Giriamo subito e ti lasciamo andare, eh papà, ti aspetta il ruolo più importante della tua vita…»
Annuisco.
Giro la scenetta e riparto.
Dieci anni fa, ero figlio di mio padre, sono stato figlio di mio padre anche dopo la sua morte. Come se non mi avesse lasciato orfano. Ora mi sento orfano, ora che sto per diventare padre. Prima che mio padre morisse, prima che si ammalasse, prima di tutto avevo deciso che non volevo figli, c’era stato un aborto, con l’Attrice, ci siamo conosciuti durante uno spettacolo, il mio primo spettacolo con un ruolo decente, lei è appariscente, alta, bionda, rideva sempre… non mi piaceva. Una sera sono finito a casa sua dopo una replica, era una mansarda, piena di libri, piena di foto, non sembrava casa sua, abbiamo scopato, abbiamo parlato, l’ho amata, mi ha distrutto. Quando ho scoperto che non era casa sua, che avevo ragione, che era ospite, era troppo tardi, ero già catturato. Tempi di contraddizioni.
Dopo due anni di alti e bassi, all’improvviso è rimasta incinta, ne abbiamo parlato per un po’ poi abbiamo deciso per un aborto, deciso più da lei che da me, ma solo perché io non decido, io aspetto che qualcuno decida per me, lei non se la sentiva, io sono rimasto in silenzio, ha abortito. Io ho impedito al mio corpo di essere lì. Ho pedalato cinquanta chilometri mentre lei abortiva. Non ho vomitato sul ciglio della strada come nei film americani, pedalavo sempre più veloce, se fossi stato in gara, avrei potuto vincere. La nascita l’abbiamo evitata, per poter vivere il successo, l’abbiamo rimandata a data da destinarsi. L’Attrice ha ripreso a lavorare dal giorno dopo, prove, spettacoli, applausi. Io preparavo provini che non facevo, ero fermo. Erano tempi così, tempi fermi.
Il problema per me è l’inizio, sempre stato, il primo giorno di scuola, il giorno in cui inizio a fare sport, il giorno in cui inizio a fare sesso, il giorno in cui devo iniziare un lavoro. Il lunedì che per gli attori è di riposo e se stai lavorando va bene, ma quando non lavori, è solo il giorno in cui tutti ricominciano a lavorare e io no, io mi sveglio per dovere di essere come gli altri e poi inizio a pensare a cosa fare. Bicicletta, immaginare su cosa potrei lavorare, o immaginare di cambiare lavoro. La bicicletta non l’ho mai usata per spostarmi, non sono un ecologista. Per spostarmi uso la macchina. Per vincere, per sopravvivere, uso la bicicletta.
La morte non mi toccava da vicino, era qualcosa che tenevo alla larga, fino a che non si è avvicinata di colpo. Mi si è appiccicata addosso come una stigmate, è naturale perdere un padre soprattutto se non hai otto anni ma per me è stato innaturale.
«A cosa stai pensando?»
«Penso a mio padre. Stava morendo e ora è morto».
«Mi dispiace».
«Pensavo che mentre stava morendo fosse la parte peggiore, invece è peggio adesso che è morto».
«Posso aiutarti?»
«Dormi qui?»
Ne ho scopate a decine così, non era un trucco, il Calciatore sembrava ammirato quando gliel’ho raccontato: «Bel trucco». Non era un trucco, non volevo dormire da solo, il sesso era il preliminare per non passare la notte da solo, un gran bel preliminare ma solo un preliminare, la scopata era un effetto collaterale. La mia pausa di lutto era fatta di quattro o cinque ore di bicicletta al giorno, tra le colline di mio padre, andavo veloce non velocissimo perché il passaggio successivo era bere e mangiare tanto. La domenica facevo le mie gare, t’iscrivi, pettorale e via, tra uomini di tutte le età che si cambiano in macchina, che la sera prima non hanno bevuto o mangiato o scopato, perché il vero amatore è della categoria che s’impegna, fa sacrifici per vincere. All’alba della domenica si alza con il buio, lui non ci pensa neanche a dormire fino a tardi, alla colazione al bar o al giornale letto con calma, il ciclista amatoriale la domenica la condensa in quelle due/tre ore, e se vince ne vale la pena. Se vinci ne vale sempre la pena. Macina le frustrazioni della settimana in una bella volata: se vinci, la domenica prende il sapore della vittoria; se perdi, torni a casa e riprendi ad aspettare la domenica dopo.
Ho vinto, quella volta ho vinto, nonostante avessi bevuto e scopato la sera prima, era morto mio padre da tre giorni, ho pedalato rivivendo sulla pelle la malattia, quasi due anni, rivivendo gli ospedali, la fatica di essere tornato a casa, è stata una delle cose più belle della mia vita, se ci penso è una follia ma è la verità. Una corsa vicino a casa in mezzo a mille conoscenti. Un bluff, nella fuga ho lasciato sfogare gli altri. Non ho saltato un cambio. Quando toccava a me non schiacciavo a tutta… Un coglione di una squadra avversaria grida che lui non fa la volata… Capisco subito che è il primo a farla. Non fai un bluff a chi sta bluffando. Parte un corridore, il suo scatto è fiacco subito sono alla sua ruota e rilancio con uno scatto secco. C’è una curva stretta a trecento metri dal traguardo. Allargo, piego a destra col ginocchio che vede l’asfalto. Non mi volto neppure un istante e tagliando il traguardo urlo. Un urlo che libera tutto, che brucia la gola che parte dalle viscere. Ho vinto. Quella gioia dura venti minuti dopo che la gara è finita ma tu la vuoi riavere indietro. «Non c’è bisogno di drogarsi per essere un tossico».
Sono tornato a Roma, sono entrato in un’agenzia per attori ma non facevo quasi niente. L’Attrice lei sì stava facendo carriera, in teatro, lei era ambiziosa, faceva parte di quella categoria che ce la mette tutta per vincere, non le capita e basta lei lo fa capitare.
«Bisogna darsi al cento per cento in questo lavoro, non puoi perdere tutto il tempo che perdi tu in bicicletta… devi stare sul pezzo…»
Io continuavo a fare le mie gare e a non andare da nessuna parte, a cercare quei venti minuti di gioia. Ma non vincevo più.
Io ho studiato in un’accademia di teatro, avevo talento, avevo un amico, un attore più vecchio di me, con più esperienza, un mentore. Il Mentore era un attore sicuro di sé, sempre sul pezzo, era l’attore perfetto.
«Tu non devi paragonarti a me», mi voleva bene come ad un fratello inferiore non di età, inferiore e basta. Mi piaceva essere la sua ombra, mi faceva sentire meno solo. Io pigro ma con la voglia di primeggiare e lui un fuoriclasse. Insieme eravamo un buffo ossimoro.
La bicicletta ce l’avevo solo io, però. Non era ancora di moda, anche un po’ da sfigati forse. Era il mio sport. Lo sport, era sempre lì. Reparto palliativi, l’ultimo reparto di mio padre, cos’è un palliativo?
«Un palliativo è solo aspettare di morire. Siamo tutti in un reparto palliativi senza saperlo». Il Calciatore, liquidava tutto così con una frase ad effetto, con grande allegria, con una contagiosa voglia di vivere, siamo tutti in un reparto palliativi.
Anche prima che mio padre si ammalasse a Roma in quella casa, una casa non ancora arredata ma piena di fantasmi non stavo già più bene. L’Attrice se n’era andata, ospitavo un amico, attore anche lui, bello anche lui, occhi azzurri anche lui, sorriso americano, riceveva copioni su copioni, cinema, televisione… Veniva da una famiglia umile, aveva fatto l’operaio, era il suo riscatto, una bella storia. Io prima di entrare in accademia ero quasi entrato al centro sperimentale di cinema, primo escluso tra gli idonei, idoneo ma non ammesso: non avevo una bella storia di povertà alle spalle, non avevo ambizione, non ero figlio d’arte. Non era una bella storia la mia, di riscatto non c’era nulla… L’ex operaio aveva il suo riscatto, la sua ambizione e io avevo del talento.
«Sei bravo ma se non lo sa nessuno a cosa ti serve? Devi farti vedere, tutte quelle ore in bicicletta ti servono nel lavoro?»
«Mi servono a prepararmi, è un training…» Era una battuta, io il training ho sempre pensato che fosse una cazzata, lui ha sorriso compiaciuto.
«Molto zen in effetti…»
È suonato il telefono. I tempi stavano per cambiare.
«Cancro».
«Arrivo».
Non è stata una scusa per scappare, non sono cinico, magari lo fossi, io volevo davvero stare vicino a mio padre. Due anni di malattia, ho visto morire mio padre, ho visto mia madre dimagrire e sentirsi inutile, c’ero ma impedivo al mio corpo di essere davvero lì. Al funerale c’era tanta gente, io ho messo degli occhiali da sole scuri, non volevo che la gente mi guardasse negli occhi. L’Attrice è venuta, mi ha abbracciato, era piena di profumo, ha salutato tutti come se fosse a Cannes, con la mano, è ripartita subito.
«Scusa ma stasera abbiamo replica…» ha sorriso, volevo darle un pugno e al tempo stesso volevo scoparla. Mi è venuto da ridere, così, totalmente fuori luogo.
Volevo impedire al mio corpo di essere lì, volevo solo cambiarmi e andare qualche ora in bicicletta, pisciare nell’erba, respirare le colline, stare lontano, invece ho raggiunto mia madre. Ho fatto quello che bisogna fare, non sono un rivoluzionario.
È venuto anche il Mentore, era molto elegante, anche lui forse pensava di essere a Cannes, «sono attori…» ho sentito qualcuno che lo diceva dal pubblico, so che non era il pubblico di uno spettacolo ma lo sembrava, il grande spettacolo della morte, venghino siori venghino! Poi, come da tutti gli spettacoli, se ne sono andati tutti, è rimasta sola la malinconia del dopo… non ho dormito, ho fatto la valigia e sono tornato a Roma.
L’ex operaio se ne sta andando via, per fare l’attore non puoi vivere in periferia, devi stare nelle zone giuste, chissenefrega se la periferia è comoda per uscire in bicicletta. Mi ha abbracciato, ma era freddo, ho pensato che il suo segreto fosse la freddezza, lui avrebbe sempre vinto, qualunque cosa avesse fatto.
Volevo capire come si fa ad avere successo, nello sport devi essere cattivo, la cattiveria è alla base, la cattiveria è un valore positivo. «Ha avuto la giusta cattiveria» …non ce l’ho mai, non so essere cattivo, non so andare fino in fondo.
Io non so stare da solo tranne quando faccio sport, lì riesco a stare bene anche da solo, mi distrae dalla morte.
«La morte è sempre lì solo che tu non la vedi finché non ti riguarda, un po’ come la vita… per quello facciamo sport, perché ci sembra di vivere al massimo». Il Calciatore non parlava solo per frasi ad effetto, io ho sempre odiato chi parla per frasi ad effetto e luoghi comuni ma lui era tutto tranne che un luogo comune e sembrava sempre improvvisare. L’ultima volta che ci siamo visti, è l’unica volta in cui mi ha guardato: non mi vedeva, era mezzo cieco, vedeva delle macchie, cecità bianca, ma mi guardava.
«Tutti parlano di sport ma se non lo fai all’eccesso lo sport non lo capisci, se non arrivi al limite non capisci… se tu dei bambini li metti in un campetto, loro possono giocare per ore ma quando cresci non ti basta giocare, non ti basta vincere, non ti bastano i soldi, ti stanchi, non sei come i bambini, hai bisogno di avere qualcosa in cambio dallo sport».
«Tu, cos’hai avuto in cambio?»
«Ricchezza, fama, e poi fango e malattia. Hai mai giocato a calcio?»
«No, solo sport individuali…»
«Peccato, la squadra è bella, non è la famiglia e non sono degli amici, vinci insieme e perdi insieme. Pochi giudizi».
Volevo chiedergli dov’era la squadra ora che era ridotto così, ma non è stato zitto. Il Calciatore mi raccontava quello che voleva, in quelle notti, ho iniziato anch’io a raccontargli di me, della bicicletta. Tutta la notte senza dormire, ma senza quell’ansia dell’insonnia che mi veniva quando ero da solo.
«Ma in bicicletta vai sempre da solo?».
Non sempre, a fare le gare c’è un mio amico, è un ingegnere, lui viene con me, è un ciclista amatoriale che non fa parte di nessuna delle due categorie, di vincere non gliene fregava proprio niente, lui si divertiva e basta ad andare in bicicletta …parlavamo molto, mi prendeva in giro, mi voleva bene: «Ti fai troppi problemi, sei fortunato a fare il mestiere che vuoi… molti cambiano per necessità». Con lui non mi sentivo un fallito, mi sentivo uno fortunato. Era grosso ma alleggeriva tutto, strana dote. Sembrava sereno. Io non ero mai stato sereno.
Mi sembrava solo un giorno dalla morte di mio padre, non ho fatto quasi niente eppure il tempo è passato lo stesso, mi hanno preso per uno spettacolo teatrale.
«Ti pagano poco, non ne vale la pena», il Mentore mi sconsigliava di fare quel ruolo, «non è neanche il protagonista, è anche vero che tu sei un caratterista non un protagonista…»
«Dici?»
«Sì hai quella bella faccia di gomma…»
‘Bella-faccia-di-gomma’, non mi aveva proprio lusingato, lui stava facendo il protagonista nel nuovo spettacolo di un regista russo, prendeva la paga di un attore da stabile, io non stavo facendo niente, anche quel poco avrebbe dato un senso alle mie giornate.
«Forse hai ragione ma ho bisogno di lavorare».
«Aspetta e arriverà qualcosa di meglio».
Ho rifiutato la parte, per mesi non ho lavorato nell’attesa di qualcosa di meglio che non arrivava mai. Poi è arrivato qualcosa di diverso, mentre sto facendo un monologo che parla di doping, la metafora del fatto che in qualche modo siamo tutti drogati, un po’ come diceva il Calciatore, “tossici senza drogarsi”, la medicalizzazione dello sport, quello che sembra sano in realtà è marcio, la gente esce dicendo il ciclismo è una roba da tossici. La metafora non funziona, ma un tipo del ministero lo vede: «Mi piace, parli dritto negli occhi della gente, perché non lavori a un video per noi?».
Diecimila euro, bicicletta pagata e la paga di un anno di teatro. La bicicletta serve a qualcosa. Tempi di guadagni.
Sono andato a vedere il Mentore ad un festival qualunque, lì ho conosciuto una ragazza bella e giovane, una fanciulla, vuole fare la regista e scrive, fa avanti e indietro dalla Francia, è piena di entusiasmo, mi chiama per sostituire un attore in una performance che ha scritto: «Facciamo un monologo insieme, che dici?»
Penso che sono stanco dei monologhi, della gente che parla da sola… ma non lo dico.
«Sarebbe bello», le rispondo come ho risposto a mio padre prima che morisse, una frase che non vuol dire un cazzo. Dormiamo insieme.
La Fanciulla mi tira fuori da quella nebbia in cui mi infila il sentirmi un perenne fallito, lei è curiosa, passo ore a spiegarle il ciclismo, ascolta e prende appunti, stiamo lavorando ad un nuovo video per il ministero. Coordino i lavori, le riprese le fa lei, le sceneggiature le scrive lei, lei monta il video… E io? Io coordino.
Ho fatto una cosa da vincente, da freddo, la cattiveria che serve a vincere, ho scopato con la mia agente, non so sfruttare il momento, la cosa mi sfugge di mano, lei vorrebbe che diventassimo amanti, io la evito, continuo a sentire la Fanciulla, sta per tornare a vivere in Italia. Vuole incontrare per un documentario un ex calciatore di serie A che si è ammalato per il doping di squadra, che ha partecipato alla scandalo del calcio scommesse denunciandolo, uno che può raccontare tante cose.
«Vai a incontrarlo tu… così mi dici se ne vale la pena… se ha una bella storia da raccontare… sta a Lucca…».
Glielo devo un favore, ci vado. Ecco come ho conosciuto il Calciatore. Gliel’ho rubato, un’altra cosa da freddo.
«Siediti pure lì… tanto vicino o lontano io vedo solo macchie».
Mi siedo e accendo la fotocamera mi piace l’idea di farlo di nascosto, non gli dico che lo sto riprendendo, quasi non parla, però mi sento stranamente sereno davanti a quest’uomo che non dice quasi niente. Mi viene da piangere, non piango.
«Posso tornare?»
«Torna di notte la prossima volta, io non dormo mai la notte… non riesco, dormo la mattina, la notte parlo volentieri».
«Anch’io non dormo la notte soprattutto se sono da solo».
«Io sono sempre da solo».
«E allora con chi parla di notte?»
«Dammi del tu, parlo da solo».
Strano tipo, non so se mi piace. Non so se torno, ma voglio tenermelo per me. Telefono alla Fanciulla: «Non ti è utile, non parla, lascialo perdere…» Mi ringrazia. Mi sento in colpa, dura meno dei venti minuti di gioia che non riesco a replicare…
Sto lavorando con un musicista, ha sessant’anni, vive con tre gatti, coltiva kiwi e beve una grappa ogni mattina appena sveglio, una sera mi guarda negli occhi: «Sei un enfant de riche», eh? «sei un figlio di papà» …è vero. Ma che cazzo vuoi? «dovresti cercare di non esserlo…» Ma vaffanculo. Ci rimango male però. Poi penso che non ho più un padre per cui non sono più un figlio né di ricchi né di poveri, «sei un figlio di puttana allora», la vuole buttare in rissa, ha bevuto e vuole litigare, voglio litigare anch’io, ci spintoniamo, lui mi dà un pugno, me ne vado.
«Come te lo sei fatto quello?» il Calciatore indica il livido sull’occhio.
«Ma tu non eri quasi cieco…?»
«Quasi».
Glielo racconto.
«Enfant de riche? cosa vuole dire?» Ride, non l’avevo mai sentito ridere. «Meglio per te, essere figli di poveri fa schifo».
«Com’è che sei arrivato in serie A?»
«Ero bravo. Tutto qui».
«Anch’io sono bravo ma non faccio i teatri di serie A».
«Nello sport se sei bravo conta qualcosa… devi anche renderti conto di essere bravo, tu lo sai che sei bravo?»
«Credo di sì».
«Devono crederlo anche gli altri».
Sono in bicicletta con l’Ingegnere, sto per chiedergli se secondo lui sono bravo, ma parla lui.
«So che ho qualcosa che non va, ma non so ancora cosa».
«Non sarà niente… Sei preoccupato?» non l’ho mai visto preoccupato.
«Non lo so… sono stanco». Pedaliamo in silenzio.
«Tu pensi che io sia un privilegiato?»
«Sì».
«E perché io mi sento un fallito?»
«Una cosa non esclude l’altra». Ride.
Mi chiamano per un provino, una spalla, un personaggio fisso in una fiction, saluto l’Ingegnere, mi abbraccia. È l’ultima volta che ci vediamo, ma in quel momento non lo so.
Parto e faccio il provino. Non ho dato il mio meglio. Non so neanche quale sia il mio meglio. Mi sento di merda, bevo una birra e parto per Lucca. Arrivo di notte, la luce a casa del Calciatore è spenta, si accende e mi sembra di vedere una donna, non entro, dormo un paio d’ore in macchina e riparto. Mi viene da piangere ma sorrido.
È sera, aspetto che sia notte in una trattoria, non voglio cambiare il nostro orario.
«Ieri notte, sono venuto ma era tutto spento, non ho voluto disturbare».
«Hai fatto bene, dormivo, mi ero addormentato, a volte mi capita, mi avresti dato molto fastidio…»
«Ti piace il ciclismo?»
«È un bello sport… ma per me lo sport non dev’essere bello, la letteratura, il tuo mestiere, l’arte devono essere belli, lo sport no».
«Sai ho mandato affanculo un po’ di persone…»
«Quelle giuste?»
«Credo di sì».
«Bravo…»
«Vorrei essere come te, con quello sguardo, quella faccia con il naso da pugile, farei il protagonista in qualche film se avessi avuto quella faccia».
«La faccia non conta niente, arriva un momento in cui devi giocarti tutto. Arriverà e allora la faccia non conterà niente».
«Com’è vincere?» glielo chiedo a bruciapelo, sta morendo di sport, lo sappiamo tutti e due che lo sport l’ha ucciso, ma è stato comunque un vincente.
«È bello, è la cosa più bella di tutte, questa è la verità. Ma la fregatura è che dura poco, e non basta mai. E non è per tutti. Tu… ciclista… giri a vuoto, non hai scopo…»
«E il doping che scopo ha avuto?»
«Non lo so, ci davano delle boccette da bere, sembrava aranciata e le bevevamo, poi ci usciva dalla bocca una bava che ce la dovevamo staccare con le mani altrimenti non respiravi… non facevamo domande. Capivamo forse ma non facevamo niente… lo scopo era vincere, a qualsiasi costo».
«Era anche il tuo scopo? Volevi solo vincere?»
«Non l’ho trovato, chi lo trova è fortunato… io mi sono sporcato con quel fango… ora credo che sporcarmi fosse il mio destino… e tu? Non sei stanco di essere pulito?»
Avrei voluto chiedergli di quella donna che ho intravisto ma sto zitto e me ne vado.
Adesso mentre guido verso l’ospedale, ripenso alle notti dal Calciatore e penso che quando ho una bicicletta sotto il culo la mia mente è libera, ora è affollata, voglio sapere come va in ospedale, non riesco a impedire al mio corpo di essere presente.
«Come va? tutto bene?»
«Sì la dilatazione è ancora solo di cinque centimetri… secondo me arrivi in tempo!»
La dilatazione… il tempo… mi fa impressione il pensiero di qualcuno che esce dal corpo di qualcun altro. A me il dolore fa paura, sto sudando.
«Arrivo tra poco…»
Dopo la morte di mio padre io perdo il conto del tempo che passa, sono forse passati tre anni e io recito ancora poco, ho cambiato di nuovo agente, non mi chiama mai: «Se so qualcosa ti faccio sapere… cercano attori napoletani, siciliani, al massimo calabresi… non hai lo sguardo giusto per quel personaggio… parli qualche dialetto?… cercano attori del nord ma sotto i trent’anni… sarebbe un ruolo giusto per te ma sei troppo giovane per il personaggio… lo sai fare lo storpio?».
L’attore operaio ha una parte fissa in una nuova fiction… in una bella storia di riscatto… vaffanculo il riscatto.
L’Ingegnere ha il cancro, l’ha scoperto dopo che sono partito, poco dopo quell’ultima pedalata insieme, non gli sto vicino, non ce la faccio, la malattia non riesco a riviverla. Faccio quasi come se non lo sapessi, come se non stesse succedendo. Se non lo so, non posso farci niente; quando lo chiamo gli parlo di sport, di politica, di doping… di cazzate. Mi telefona una sera, ha un filo di voce: «Uno scopo vale più della felicità. Trovati uno scopo…»
Uno scopo… Lui e il Calciatore si assomigliano, sono due opposti che si assomigliano, io sono in mezzo… né carne né pesce.
La Fanciulla mi guarda: «Sei triste?»
Vorrei raccontarle che le ho rubato una buona storia, che lei al Calciatore avrebbe fatto le domande giuste, che era un buon incontro, che ci tirava fuori un bel documentario, che io videoregistro conversazioni di nascosto, come un ladro, ho trovato una specie di padre cattivo, di giudice sportivo, di eroe senza eroismo, non saprei neanche dire che cos’è ma è una delle cose che mi fa andare avanti…
«Sto bene».
Io e il Mentore abbiamo litigato, ha vinto un premio e non l’ho chiamato, mi hanno preso a fare una fiction, «gli serve uno che sa andare in bicicletta».
Il Mentore mi chiede quanto mi pagano, «poco… per essere televisione».
Vaffanculo, tu e il tuo premio del cazzo, glielo dico e mi pento subito, non ci parliamo più, non sono più un fratello per lui, non sono più un amico inferiore di età e di capacità, divento un estraneo. Tempo dopo lo incontro su un set, sorrido e lo saluto, lui chiude la porta della sua roulotte, me la chiude in faccia. Estranei.
L’Ingegnere è morto, io spero non abbia sofferto troppo. All’improvviso spero un sacco di cose. spero che i chilometri fatti in bicicletta facciano prendere sonno. Spero che sarò felice ad un certo punto, che questi tempi di merda servano a quello. So che lo sport, il successo sono la stessa cosa nella mia vita, lo sfogo alle frustrazioni, il palliativo, il bisogno di vincere fanno parte di tutto, coprono tutto come un cazzo di pregnante. So solo che lo sport mi fa sopravvivere, mi fa sentire di avere un potere sulle cose, mi fa sentire vivo. Lo odio e ne ho bisogno, lo amo e mi restituisce indietro quello che promette. Sudore, adrenalina, sconfitta, vittoria, stanchezza e energia. Mi sento vivo. Mi sento forte, mi dopa senza bisogno del doping. Forse è quello il vero doping, la dipendenza. Vorrei piangere, ma non ci riesco.
Rivedo l’Attrice, lei piange, scopiamo, mi fa tenerezza, non sta più con il regista, sembra impaurita. È un saluto forse, scoprirò presto che non è affatto un saluto. L’attrice rimane incinta dopo quella scopata, questa volta lo vuole tenere.
«Diventerai padre alla fine».
Otto mesi difficili, quando ho detto alla Fanciulla che l’avevo tradita e l’Attrice era incinta non ha urlato, sembrava liberata.
«Credo che tu mi abbia amata, come hai vissuto… senza scopo. Senza un perché».
Sono stato zitto, credo più che altro di averla amata di merda e nel momento sbagliato. «Il Calciatore quello che mi hai mandato a conoscere, l’ho incontrato spesso, era una bella storia, non è vero che non parlava, me la sono tenuta per me». Mi sembrava il segreto più rilevante.
«Chissenefrega coglione».
Io e l’Attrice non ci proviamo neanche a tornare insieme, è come se le cose non stiano capitando a me. Vado a trovare mio padre e l’Ingegnere al cimitero, lascio dei fiori.
Una notte sono andato dal Calciatore per dirgli che avrò un figlio e mi ha aperto una donna, quella che avevo intravisto dalla finestra, è sua moglie, non era vero che era solo, cazzate, le ho chiesto se era vero che stava per morire.
«Non morirà, diventerà completamente cieco ma non morirà».
Mi aveva raccontato quello che voleva, quello che lo faceva sentire un eroe.
«Non abbiamo mai avuto figli, siamo soli insieme. Sa che lo riprendi, gli piace l’idea di lasciare una traccia. Nello sport o sei un eroe o non lo sei. Lui non lo è mai stato».
Sa che lo riprendo. “Chissenefrega coglione”. Ha ragione la Fanciulla, il Calciatore mi ha usato per sentirsi un eroe, per sentirsi vivo. Lui ha usato me e non viceversa. Me ne vado, non gli dico niente. Saluto la moglie e me ne vado.
«Io aspetto un figlio».
La moglie sorride: «Che bella notizia, vuoi che lo svegli?»
«No, grazie».
I mesi passano all’Attrice cresce la pancia e io non torno più dal Calciatore. Fino a stanotte.
Adesso dovrei essere in ospedale a dire cose tipo «respira, andrà tutto bene, bravissima» e invece sono davanti a casa del Calciatore, non so perché, la luce è accesa, suona il telefono: «Ci sono complicazioni, le fanno un cesareo d’urgenza… quando arrivi?»
“Non puoi impedire alle cose di succedere puoi solo decidere di non esserci…”
Ora devo essere nelle cose che succedono, risalgo in macchina e faccio manovra, mi allontano da casa del Calciatore, accelero. Ripenso a quando mio padre mi ha insegnato a guidare, al suo bluff prima di morire, all’Ingegnere, alla Fanciulla, al Mentore, al Calciatore, che è stato un rifugio nel buio. Sono quasi in ospedale. Quando arrivo in ospedale è già tardi, è tutto finito. Non sono arrivato in tempo, lui è già lì, è color cenere, sembra che arrivi da lontano, piange, me lo mettono in braccio, smette di piangere, piango io di stanchezza, come se improvvisamente questi dieci anni scivolassero via.
«Non abbiamo scelto il nome», l’Attrice ha uno sguardo d’acqua.
«Emilio» come mio padre, quel “Sarebbe bello” che gli ho detto prende un senso.
Non so se sarà bello, non so se durerà solo venti minuti ma voglio esserci, per la prima volta.
“Non voglio impedire a me stesso di essere nelle cose”.
“È arrivato il momento in cui giocarsi tutto ed è vero: la faccia non conta niente”.
E anche se lo sport non è quello che sembra a chi ne fa poco o non lo fa, lo sport per me è più di quello che si può raccontare.
Sono stati tempi difficili, tempi superficiali, tempi di attesa, tempi acerbi, ma so che ora i tempi sono maturi.