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Sono le cinque e mezza di un pomeriggio qualunque e sul palco del Piccolo di via Rovello siedono quattro signori che, con sguardo quasi stupito, osservano la sala gremita: studenti, teatranti, esperti e curiosi giunti per ascoltare Luca Ronconi e Rafael Spregelburd che, col supporto di Paolo Di Stefano e Sergio Escobar, si confrontano su Panico. Rafael Spregelburd è appassionante, sulla pagina scritta così come dal vivo. Per chi ancora non lo conoscesse consiglio di leggerlo (Eptalogia di Hieronymus Bosch edita Ubulibri), di seguirlo (sul web si trovano interviste e dichiarazioni), di andare a vedere Panico con la regia di Luca Ronconi in scena al Piccolo Teatro fino al 10 febbraio.
Non è questa la sede per il mio personale panegirico a Rafael Spregelburd, mi limiterò a riportare la conversazione avvenuta lo scorso giovedì pomeriggio dando maggiore spazio all’autore, ospite d’onore di quella sala gremita.
Di Stefano: Cosa c’è in comune tra Bosch, pittore fiammingo vissuto a cavallo tra il ‘400 e il ‘500, e te, drammaturgo argentino di quarant’anni?
Spregelburd: Ispirandomi alla Ruota dei sette peccati capitali di Bosch ho voluto attuare una traduzione tra il 1400 e l’oggi. La pittura di Bosch non assomiglia alla pittura a lui precedente né a quella successiva, è una pittura che nasce in un periodo di crisi, la crisi che porrà fine al Medioevo. La crisi che stiamo vivendo noi è la crisi della “modernità”, ma sembra che neanche la pittura abbia niente da dire a riguardo. Io parlo di “modernità” perché in Argentina la “post modernità” non è mai arrivata. Oggi ci educano a valori che non sono più nostri ma che sono fondamento non fondante della modernità. Che fare? Dovrei scrivere secondo parametri che non condivido? No, scrivo di un’epoca che non conosco.
D: Che rapporto c’è tra panico e accidia?
S: Volevo scrivere un’opera per ogni peccato, ma in alcune scene non si capisce assolutamente niente, si capisce solo se uno possiede la chiave di lettura. Quella di Bosch è una pittura simbolica ma che all’epoca era di immediata comprensione per tutti, per esempio il colore giallo voleva subito significare l’oro. A me piace la perdita del dizionario, dei punti di riferimento. Così ho iniziato a guardare le scene del quadro di Bosch dimenticandomi il loro significato e ho iniziato a nominare i vari peccati con parole a caso. Ho capito che qualsiasi parola astratta aveva una relazione con il peccato in questione. La relazione tra modestia e superbia è evidente, più spesso ho preferito relazioni non lineari. Al tempo di Bosch l’accidioso era colui che non faceva lo sforzo di leggere la Bibbia e per questo si rivolgeva a frati e monaci. Io ho rimpiazzato la parola accidia con la parola panico in modo del tutto arbitrario. I personaggi di Panico non riescono a vedere un fatto semplicissimo, e cioè che moriremo. I vivi hanno paura dei morti e i morti hanno paura di essere morti. Quand’è che è avvenuto questo cambio di prospettiva? Quand’è che abbiamo rimpiazzato il mondo spirituale col mondo del terrore?
D: Uno dei temi di Panico è la compresenza di fattori tra loro opposti: alto e basso, tragico e comico, corporalità e spiritualità, etc. È una caratteristica che fa parte della poetica di Rafael Spregelburd?
S: Non lo so neanch’io cosa fa parte della poetica di Rafael Spregelburd. So che nel mio teatro uso spessissimo la parola “mentre” piuttosto che la congiunzione “e”. Nel mio teatro tutto accade contemporaneamente. Questa consapevolezza è in linea con la compresenza di diversi elementi che hai notato in Panico.
D: Il tuo teatro è un teatro attuale o è un teatro che ha in sé già il superamento di questa attualità?
S: L’attualità è un prodotto, è la confezione. La parola che dovremmo usare è realtà, quello che dovremmo fare è l’attualizzazione della realtà. Anche se tutto questo può sembrare un paradosso perché il teatro è il contrario della realtà, il teatro è pura illusione. Inoltre al giorno d’oggi non esiste più un’idea condivisa e così la rappresentazione della realtà entra in crisi. Allora forse dovremmo presentare piuttosto che rappresentare. Ma sembra che in teatro non si possa presentare e basta, io lo faccio e poi mi dicono che i miei spettacoli non si capiscono.
Luca Ronconi: A tale proposito, ciò che mi preme dire è che il teatro non deve essere immediatamente comprensibile, il teatro, e quello di Spregelburd lo fa, deve persistere nella memoria. Il teatro che faccio è un teatro sempre attuale, mai effimero.
D: Come ti relazioni a un altro grande artista argentino come Luis Borges?
S: Borges ha avuto il grandissimo merito di liberare gli argentini dal pesante spirito del luogo. Borges ha ambientato i suoi racconti in qualsiasi parte del mondo egli volesse, non per forza in Argentina, non per forza in un contesto di povertà. Di questa liberazione io sono figlio e gliene sarò sempre grato. Un altro motivo per cui Borges è conosciuto, oltre ovviamente al fatto di essere un validissimo scrittore, è lo studio del labirinto; Borges ha detto che il labirinto più complesso è la linea retta. Io di linee rette non so niente.
R: Una parola, nonché un concetto, che odio in certi tipi di teatro è il sottotesto. È una cosa che mi innervosisce il sottotesto. Le opere di Spregelburd si sviluppano in estensione e non in una finta profondità. L’abisso sta nell’orizzontalità, lì bisogna scavare.
Escobar: Vorrei concludere con un pensiero rivolto al pubblico, perché è per il pubblico che facciamo teatro, anzi, per i pubblici. Il teatro di Spregelburd portato al Piccolo da me e Luca è un teatro dove la gente va per riconoscersi, dove magari un po’ ci si perde perché è un teatro ad imbuto, un teatro capovolto, dove il banale di tutti i giorni contiene il trascendente, ma è un teatro che incontra il consenso della gente, e uso volutamente questa parola: gente, proprio per indicare un gruppo di persone vario per cultura, età e formazione, che poi è il gruppo eterogeneo che dovrebbe andare a teatro sempre.