Labirinto e vertigine: con queste due parole si può forse sintetizzare il senso profondo di “Telemachia – Ulyssage #3”, lo spettacolo di Claudio Collovà tratto dall’Ulysses di Joyce, che s’è visto dal 14 marzo al 7 aprile a Palermo sulla scena del Teatro Biondo Stabile (in Sala Sthreler). Sintetizzare il senso di uno spettacolo importante e raffinato che,
oggettivamente, non si può e forse nemmeno si deve sintetizzare e che mette il cronista di fronte a una duplice, difficile, scelta: riassumere il tutto per tocchi veloci e lasciare allo spettatore il compito di riconoscere e decifrare la miriade di segni, oppure imbarcarsi in una descrizione analitica di quanto s’è visto, affrontando il rischio che, per quanto si possa esser capaci di leggere in profondità, non si giungerà mai ad aprire del tutto la trama simbolica in cui ci si è imbattuti? Si tratta, in entrambi i casi, di scelte possibili, di percorsi che legittimamente possono seguirsi nel raccontare uno spettacolo, ma crediamo che siano insufficienti entrambi a restituire il senso di un lavoro come questo che, denso e raffinato qual è, meglio si può comprendere se si parte da una considerazione attenta del metodo con cui esso è stato costruito a partire dal romanzo/capolavoro di Joyce. Ecco il nodo, ecco il rovello: trarre uno spettacolo teatrale da un romanzo, rendere evento e azione viva ciò che è racconto e, come di-rebbero gli specialisti, diegesi. Certo è possibile, è un’operazione che il teatro occi-dentale ha realizzato spesso, sin da quando la narrazione aveva la voce e le parole di Omero, e però davvero troppe volte l’ha realizzata con banalità e approssimazione: non si tratta di dar corpo, voce e parole a dei personaggi e poi seguire la traccia della narrazione o anche solo di un segmento della narrazione, no, si tratta piuttosto di co-struire (non ri-costruire) le possibilità interne di un accadimento conservando della narrazione non (tanto) la concretezza dei materiali narrativi, ma lo sguardo sul mondo che l’ha resa possibile e, se si vuole, necessaria. Detto in altro modo, non si tratta di ricostruire, dal vivo e come in tridimensionale, un testo e un percorso narrativi ma sostanzialmente di mettere in scena il dato cognitivo ed emozionale che quella narrazione ha stimolato nel regista teatrale; non la narrazione, ma l’esperienza della narrazione e a partire dalla consapevolezza che di essa il regista teatrale realizza nel tempo.
Da questo punto di vista allora lo spettacolo di cui scriviamo appare esemplare: quello di Claudio Collovà con Joyce non è un incontro tra i tanti possibili, ma un a-more vero e profondo, un amore antico, radicato e disperato, quasi ossessivo, coltivato per anni. Per altro - è giusto dirlo - benissimo ha fatto il Biondo Stabile di Palermo a capire questa passione e a permettere al regista di tramutarla in teatro con un progetto di respiro triennale che ha già visto la messinscena di “Uomini al buio – Ade” nel 2010 e di “Artista da giovane” del 2011. Il percorso drammaturgico di questa Telemachia si dipana con ritmo costante e regolare amplificando, in repentine epifanie, gli smarrimenti e gli echi interiori che il testo joyciano (colto nei tre capitoli iniziali della cosiddetta “Telemachia”) suscita e che si sono sedimentati nella memoria artistica del regista. Una memoria artistica che tuttavia non è, né resta, inerte e che anzi, senza farsi sopraffare supinamente dalla grandezza letteraria del testo, attinge ad altre esperienze teatrali ed artistiche e giustamente interloquisce, a diversi livelli di profondità, con esse: anzitutto il mai troppo amato Amleto shakespiriano e la raffinata conoscenza della pittura che caratterizza il teatro di Collovà. Sicché, sin dall’inizio, Domenico Bravo mette in chiaro che di teatro vero si tratta, chiarisce che lui è l’irlandese Stephen Dedalus, certo nella Martello Tower, ma è anche Amleto in Danimarca e che la bellissima donna distesa, immobile, remota, sul catafalco davanti a lui (di chiarissimo, affascinante gusto preraffaellita) è sua madre, ma è anche Ophelia ed ancora è Molly Bloom. La complessità del registro linguistico, emozionale ed intellettuale, in cui Collovà innesta tutto lo spettacolo si dispiega da qui in poi, uniformemente e coralmente, segno dopo segno: nei gesti, nelle azioni, nelle parole, nella stessa straordinaria forza scenica di Sergio Basile (un Leopold Bloom/Ulysses, d’ironia amara e corrosiva) e di Luigi Mezzanotte (molto bravo nella sua capacità d’essere di volta in volta il compagno di stanza Buck Mulligan, il cinico preside Mr. Deasy, il Cittadino), nella sensibilità coloristica e nella perfetta rispondenza del taglio delle luci di Pietro Sperduti, nel denso respiro magmatico, allusivo e mai mimetico, delle atmosfere musicali di Giu-seppe Rizzo, nella struttura artistica, quasi autonoma nella sua bellezza, dell’impianto scenografico (una striscia d’acqua, che è la spiaggia di Sandymount strand e molto, molto altro, e una libreria-ragnatela abitata da fantasmi di vecchie carte sospese di diseguale dimensione) realizzato da Enzo Venezia.