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Esplicita di una precisa mentalità è l’indagine commissionata dal Ministero per i beni e le attività Culturali, Ufficio Studi e Osservatorio dello Spettacolo, alla Fondazione Rosselli nel 2004, pubblicata da Electa Mondadori, intitolata “Il pubblico del teatro in Italia. Il quadro attuale e gli scenari futuri”, a cura di Fabiana Sciarelli e Walter Tortorella.

Scrive Michele Trimarchi in “Dalla maschera al byte: c’è futuro per il teatro?”:
“Le modalità di realizzazione dello spettacolo dal vivo sono state spesso, e deliberatamente, modificate in virtù dell’esigenza di far incontrare il prodotto teatrale e le aspettative percettive degli spettatori. (…) Il prodotto teatrale ha bisogno di ulteriori adeguamenti? La tecnologia, le percezioni, i processi cognitivi e gli stili di vita richiedono che il prodotto teatrale cambi veste per mantenere fertile e ricca la propria sostanza estetica e culturale?” Le risposte saranno: sì e sì. Il perché è presto detto: “Non è il teatro a essere incompreso; esso è spesso arroccato su una tradizione asserita ma posticcia, e rifiuta di considerare – al contrario di quanto ha fatto più volte in passato – i mutamenti della temperie sociale e culturale. (…) La rabbia del teatro è semplicemente derivante dai numeri: la televisione fronteggia grandi masse di spettatori, il teatro fa enormi sforzi per riempire le sale, milioni contro migliaia di individui. Da qui l’arroccamento e la consolazione: il teatro è colto, dunque per pochi; la televisione è volgare e attira gli ignoranti. La realtà suggerisce una semplice osservazione. Gli spettatori teatrali sono al tempo stesso spettatori televisivi. (…) La televisione è diventata, per una scelta comoda e di retroguardia, l’incubo del teatro, il quale le invidia l’audience, i mezzi finanziarî, i compensi professionali, l’attenzione della stampa.”
Un teatro, quindi, arrabbiato e invidioso, frustrato e incapace di cambiare le sorti del proprio fallimento.
“In questo senso, il teatro dovrebbe utilmente considerare sé stesso come un comparto produttivo industriale piuttosto che come un settore rientrante nel campo culturale.”
Un teatro che sforna prodotti in base a ricerche di mercato sui desideri della popolazione che comunque potrebbe rispondere ancora: no, grazie, abbiamo già la televisione, il cinema, il calcio e facebook.

Luisa Romano e Walter Tortorella in “Il teatro: un attore e uno spettatore”.
“Lo spettatore non è solo l’elemento fondamentale della rappresentazione teatrale, ma è legato in maniera indissolubile alla nascita stessa del teatro: “questo tipo di arte esiste dal momento in cui lo spettatore si separa dall’attore” (Schechner).”
C’è, quindi, una fase antecedente, in cui ci sono solo “attori”, uomini-personaggio in azione, che assorbono nel gruppo eventuali spettatori.
“La ritrosia, da parte dei produttori di teatro, a prestare attenzione ai gusti del pubblico, in particolare, ovviamente, di quella fetta della popolazione che potremmo definire di pubblico potenziale, è stata spesso giustificata dal rifiuto di voler seguire le direzioni imposte dal mercato e amplificate dai media, tendenti ad appiattire e omologare gusti, senso critico e capacità di giudizio.
La questione, a ben guardare, invece, appare molto meno manichea di come viene prospettata da tali prese di posizione non esenti da un certo snobismo; se è vero, infatti, che obbedire ciecamente alle leggi del mercato può portare ad un abbassamento della qualità dell’offerta, è anche vero che una delle caratteristiche che definiscono tale qualità è proprio la capacità comunicativa, la capacità di catturare le emozioni non solo di coloro che sono avvezzi al linguaggio teatrale e artistico in genere, attraverso una profondità artistica che si traduce in semplicità espressiva. In questo senso il pubblico può addirittura considerarsi come parametro per valutare la qualità di un’opera.”
Un teatro ottuso e snob, che dovrebbe invece aprirsi con “semplicità espressiva” ai gusti dei potenziali spettatori, gli unici che possono esprimere giudizi sulla qualità dell’opera. In pratica, un teatro che si prostituisce per avere il plauso della massa.
“È sbagliato pensare il lavoro dell’artista come qualcosa che termina sul palcoscenico a prescindere da come si venderanno i biglietti, se si considera che il teatro è essenzialmente dialogo, spazio di comunicazione, un’arte, insomma, squisitamente sociale. L’essenza del teatro sta proprio nel fenomeno del contagio, della suggestione, del “giudizio condiviso”, che non può verificarsi in individui isolati, ma nell’ “essere” pubblico.
L’allontanamento del pubblico dal teatro è lampante se confrontato con il consumo di altre forme di intrattenimento, come il cinema e la televisione.”
Un teatro la cui anima non è l’artista, ma il botteghino. Un teatro che deve prostrarsi di fronte a televisione e cinema.
“Si è sempre affermato con insistenza che il cinema prima, e la televisione poi, hanno sottratto pubblico al teatro; se questo è in parte vero, bisogna però precisare che, ancor più che sottrarre pubblico, televisione e cinema hanno “trasformato” tale pubblico, hanno creato una nuova estetica mediatica di massa in contrapposizione con l’estetica teatrale.”

Il teatro deve quindi adeguarsi ai desideri più superficiali del pubblico, alle necessità dell’industria dello spettacolo, alle richieste censorie dei politici, alle basse aspettative di cultura delle masse, alle mode, al consumo più volgare e ignorante.
Il teatro deve formare la massa degli spettatori dalla quale è condizionato, in un circolo vizioso che ha già dato i suoi frutti nella televisione, nel cinema e nella letteratura. La produzione legata alle ricerche di mercato (volte a identificare il target numericamente più pingue a prescindere dalla qualità dei desideri e quindi dalla qualità del prodotto ipotizzabile) ci ha servito su vassoi d’oro la volgarità dei reality, la prepotenza zotica dei dibattiti, la violenza del cinema, i cinepanettoni, i libri analfabeti, la letteratura illetterata… e vorrebbe che nelle sale teatrali imperversassero drammi salottieri, musical e varietà di cattivo gusto.
Un dato: il 30% è andato a teatro almeno una volta, il 30% non è mai andato a teatro nella propria vita.

Se questo è il prezzo per riempire le sale, meglio tenersi stretto il 30% e mantenere un’identità dignitosa e artistica, ignorando i successi televisivi e cinematografici, ignorando soprattutto il successo, che è diventato una macchina schiacciasassi che livella ogni tentativo di emergere dalla letamaia di soldi e potere.
Ma davvero il teatro ha bisogno del pubblico per esistere? Sì e no. C’è una forma di teatro partecipativa nella quale chi si riunisce non lo fa per dividersi tra attori e spettatori, ma per prendere parte a un “agone” parlato-recitato e gestualizzato-agito durante il quale gli attori-agonisti raccontano una storia che viene rivissuta a livello espositivo e ritmico insieme, narrativo e suggestivo.
Ma questo teatro che recupera una purezza mitica del raccontare ed essere raccontato, dell’esporre ed essere esposto, del trasdurre l’energia muscolare in energia verbale e viceversa, e perciò di fare circolare la storia come visione dinamica… non è argomento di questa pagina sul pubblico. Lo si troverà più avanti e forse avrà il nome di Teatro Tutto.
Non faccio a meno del pubblico, l’esibizione (l’agone), è comunque una forma di spettacolo-gara che richiede dei testimoni. Posso però fare a meno della relazione attore-pubblico. Non in senso naturalista, per cui la quarta parete mi assicura uno spaccato sulla realtà, quasi una fotocopia della vita di tutti i giorni, che il pubblico contempla con vivo piacere, come se fosse davanti a uno specchio nel quale si riflettono la sua stessa vita e quelle degli altri. Anche perché la quarta parete non elimina le convenzioni teatrali di finzione, dato che la gestualità e i movimenti degli attori sono comunque strutturati in funzione della presenza del pubblico oltre la linea di ribalta.
Chi ha infranto la quarta parete ha fatto di tutto per stabilire con il pubblico una relazione diretta. Ha cercato il coinvolgimento critico (Brecht), il coinvolgimento emotivo o spirituale (Living, Grotowski), quello ludico (mimi, commedie, cabaret), o polemico (Dada, Futurismo).
Il pubblico ha sempre condizionato in modo importante la drammaturgia.
Ma vale la pena di subordinare l’arte a una platea che spesso: non vuole essere coinvolta se non a livello epidermico (teatro da crociera); non vuole essere turbata; attende disperatamente la battuta che faccia ridere; non vuole pensare; non vuole cambiare; non vuole novità; non vuole stranezze.
La presenza di un pubblico “medio” costituisce un grosso problema per l’attore: l’ansia della sua entità numerica (fare “merda” per ingraziarsi il pubblico), l’ansia per la riuscita dello spettacolo (quasi un’umiliazione auspicare che il pubblico capisca e gradisca), l’ansia per i rumori di sala (troppo silenzio, troppo brusio), l’ansia per l’applauso fuori posto o per l’applauso mancante, l’ansia per chi si alza e se ne va, l’ansia per le recensioni del giorno dopo…
Il pubblico è un bestione che riempie la sala con un corpaccione invadente e sornione, di intelligenza spesso bassa, di ferocità invece alta, di umore variabile, di carattere spinoso, dai gusti prostituibili, dai giudizi insensati, dalla cultura carente, dalla sensibilità psicotica, dalla personalità labile.
Via, via il pubblico dalla testa. Via il pubblico dagli occhi. Via il pubblico dal cuore degli attori. Liberiamo gli attori dalla sua presenza condizionante. Gli attori non si rivolgano più a un pubblico ridotto e trascurabile, ma a un pubblico incommensurabile, quale è quello potenziale, quello virtuale, quello universale. Si rivolgano a un pubblico costituito da spettatori di tutte le epoche, scaturiti dal passato e dal futuro, provenienti da tutto il pianeta, e anche da altri pianeti. Recitino per chi non è presente, per chi potrebbe condividere e apprezzare ed è impossibilitato a partecipare alla serata. Evochino fantasmi al posto dei corpi seduti in poltrona e facciano accomodare i fantasmi tutto intorno, in un abbraccio di attenzione comprensiva.
Di un pubblico che non applaude si riempiano le sale, invisibile e discreto, acuto e profondo, che dia forza e amore all’attore.

Quando impartisco le prime istruzioni ai ragazzi di Tecneke (il mio gruppo di giovani dilettanti) per ignorare il pubblico, e anzi toglierselo proprio dalla mente, cancellarlo dalla platea… percepisco la loro perplessità. Hanno battute con le quali si rivolgono direttamente al pubblico, in apparenza. Come fare? Dove dirigere lo sguardo? Li invito a considerare un pubblico circolare; non ha importanza che, al termine di una coreografia si ritrovino con le spalle alla “platea”: devono rivolgersi a un’altra ipotetica platea sul lato opposto. Proviamo. L’effetto, per chi guarda, è buono. Gli osservatori concordano che è molto suggestivo vedere gli attori disposti non più in riga sul proscenio, ma sparsi in posizioni che rompono lo schema di relazione attore-spettatore, il volto rivolto in qualsiasi direzione, gli occhi liberi di non cercare quel punto “sopra le teste” per dare l’impressione a tutti gli spettatori di una comunicazione diretta.
Noto anche un certo sollievo, dopo la perplessità. Il problema del pubblico, ripeto, condiziona sia il professionista sia il dilettante. Per quanto, è pur sempre una relazione emotiva e intellettuale con sconosciuti, non tutti gradevoli, dai quali a volte non si ha un ritorno gentile e rispettoso perlomeno del lavoro svolto. Sconosciuti che giudicano, e che facilmente nascondono il giudizio negativo sotto formule di cortesia ipocrite, rispettose dei più consolidati codici sociali.
Via il pubblico, via.
La scena di Tecneke non ha solo quattro pareti, ha anche un pavimento e un soffitto. È una scatola chiusa, nella quale il pubblico non può entrare. L’unico ruolo che gli è lasciato è quello di spia. Può applaudire o fischiare, gli attori non sentono nulla. Gli attori recitano per un pubblico più vasto. Se lo creano nella mente. In conclusione, recitano per sé stessi. Sono attori e pubblico condensati in un gesto autoespressivo che celebra la forma più alta di comunicazione, quella con il mondo.