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Prima metà di maggio movimentata per i ragazzi della compagnia CapoTrave, guidata artisticamente da Luca Ricci, fautrice dell’originale festival Kilowatt (Premio speciale Ubu nel 2010). In primis, sabato 3, è stata al centro della presentazione pubblica del progetto di recupero  e rilancio dell’ex chiesa e di parte dell’ex ospedale della Misercordia

di Sansepolcro (AR): aree che costituiranno una struttura polifunzionale dotata di un teatro e che sarà gestita per un triennio dalla compagine indiziata, assieme all’associazione Laboratori Permanenti. Al prossimo Kilowatt quindi, dal 20 al 27 luglio, dovremmo già vedere parzialmente in funzione tale rinnovato spazio, esito di un lungo lavorio delle varie amministrazioni biturgensi succedutesi negli anni. Alla stessa rassegna, dovremmo anche assistere allo spettacolo vincitore del bando Ne(x)twork: un’iniziativa, con un premio di produzione e ospitalità, tenutasi a Roma e realizzata dallo staff del festival toscano insieme al capitolino Teatro dell’Orologio. Domenica 4, pertanto, POTEVO ESSERE IO di Renata Ciaravino – inscenato dalla sua Compagnia Dionisi di Milano, protagonista Arianna Scommegna – ha prevalso su una rosa di 225 partecipanti e 12 finalisti, sottoposti al giudizio di una trascelta giuria di venti appassionati di teatro “non addetti ai lavori”. Sennonché, giusto la settimana scorsa, s’è consumata una decisa contestazione del verdetto da parte di un paio (almeno) di compagnie partecipanti, le quali hanno sollevato aspri rilievi sulla validità dell’ammissione al bando del progetto avanzato dal collettivo vincitore. La direzione artistica del concorso è così intervenuta a cercare di chiarire la spinosa faccenda, portando argomentazioni e facendo soprattutto valere l’insindacabilità – accettata per contratto dai partecipanti – delle valutazioni sue e della giuria circa le procedure di selezione prima e di susseguente assegnazione finale. Procedure svolte secondo liceità e incontestata buona fede, in ogni caso, nel rispetto di un regolamento su cui sarà bene (in effetti) operare delle migliorie lessicali e di formulazione al fine di renderlo inattaccabile ancorché preciso al millesimo. Difatti la querelle è sorta su un passaggio del bando in cui è controverso se a dovere essere “inedito” è il progetto di lavoro oppure il suo corrispondente risultato scenico. La disputa ha avuto ulteriori code, reazioni e piccati interventi firmati dagli astanti di un incidente – a vederlo da fuori e da lontano, col solo tramite della stampa web – forse resistibile, in cui ognuno ne esce senz’altro malconcio in misure e modi diversi.
Non era nei miei piani dilungarmi sino a questo punto, annotando strascichi siffatti; ma l’accavallarsi nel corso dei giorni delle news e della cronaca agra di tale vicenda teatrale “ai tempi della crisi” ha preso il sopravvento, scavalcandomi. In verità mi premeva, piuttosto, cogliere il destro dell’attualità per giungere a trattare di un’operazione d’altro tipo della compagnia CapoTrave: mi riferisco alla messinscena diretta da Luca Ricci del frastagliato monologo dell’irlandese Enda Walsh, intitolato MISTERMAN, che ho visto al Campo Teatrale di Milano in una delle sue ultime recite della presente stagione di prosa. Lo spettacolo tornerà nel capoluogo lombardo il prossimo novembre al Teatro Litta e, a chi se l’è fatto sfuggire, consiglio di recuperarlo per poterne apprezzare la complessa e striata caratura testuale. Una drammaturgia di flussi discorsivi e onirici trip (per niente desueta e sterilmente criptica, come ha scritto qualcuno) che l’abile regia fa rifluire in scena entro un sottile addensamento d’intrecciati suoni e luminismi tra il pulviscolare e il pastoso. A questi fa da camera di compressione un rarefatto dedalo di allusivi punti spaziali, denotati da un’essenzialità d’arredi e oggetti a cui ancorare con immediatezza la recitazione a più voci e personaggi di Alessandro Roja. Il quale fa rivivere i reiterati incontri, colloqui e percorsi del trentatreenne Thomas fra la gente del suo piccolo universo quotidiano, verso cui serba un odio sostanziale al di là degli edificanti propositi di religioso ecumenismo con cui la avvicina. Datate registrazioni di voci e brani off, rapprese in mangianastri variamente dislocati, irretiscono il protagonista tra misteriosi segmenti audio di episodi passati e conversazioni domestiche con la madre distante e raggelata nella dizione di Daria Deflorian; mentre, appeso come un crocefisso, l’abito issato del padre defunto richiama alla sua memoria lucori di maggiore calore e vicinanza. Nell’attore solitario in scena si condensa tale interiorità franta e spersa, lungo un inanellarsi di dialoghi dove egli si sdoppia assumendo atteggiamenti e vocalità dei vari soggetti incontrati dal personaggio durante la sua giornaliera via crucis. Si dà così incisiva figurazione a un isolamento, a un solipsismo echeggiato dalle assenze che aleggiano sulle sparute sedie vuote poste nei dintorni: segni altresì di una latitanza di ascolto e di partecipe presenza da parte degli altri nei riguardi del pariah, dell’oggetto non identificato di turno. C’è d’altronde della pazzoide insania, senza meno, in Thomas: aggressivo visionario, soldato della fede, “Misterman” della morale religiosa e spirituale volta alla redenzione palingenetica degli individui. Tuttavia “gli altri” – quell’“inferno” di cui Sartre scrisse in suo celebre testo – ovvero le persone che popolano oggi questo tempo e questo mondo indaffarato e ciarliero, rumoroso e stordente, sono in grado di comprendere con viva attenzione e minuziosa sensibilità la follia sospesa nelle fragilità di ognuno, le tensioni eccentriche di un’anima smarrita e le inquietudini di spirito? Interessa a qualcuno capire davvero cosa smuove il didentro di chi si ha intorno e domandarsi il perché sfaccettato di certe condotte aliene o meno dalla presunta normalità? E se sì, a quanti e in che modo, secondo quale umana e nobile profondità che induca ad andare incontro a chi si dibatte fra simili intrichi e dilemmi? È questo, io credo, un gorgo di complessità (e non di ambiguità) che l’opera scenica apre agli sguardi dello spettatore per trarlo a chiedersi in quale misura sia esso stesso, in quanto a sua volta singolo individuo parte di una comunità, comunque responsabile dell’alienazione altrui e della violenza che ne può derivare. Presagito dal rintronare di atmosferici chiaroscuri e sonorità rumoristiche e hard, il finale thriller schiude il grumo di efferatezza annidato nel giovane, stringendone l’itinerario infero in una morsa di buio affogata in ribollenti note molecolari. Se ne riemerge intrisi di un pensiero che scuote semplificazioni e categorie di comodo (erette a difesa delle proprie rassicuranti certezze e del pregiudizio facile), per farsi semmai ricettivi verso il Maelstrom d’irrequietezze racchiuse in ogni persona: vivi, cioè, di un’osservazione fine e di un ascolto vibrante dei moti problematici che possono travolgerla trascinando anche noi.

Foto Paolo Lafratta

MISTERMAN
di Enda Walsh.
Traduzione: Lucia Franchi.
Regia: Luca Ricci.
Scene: Katia Titolo.
Luci: Gianni Staropoli.
Musiche originali ed effetti sonori: Antonello Canteri.
Interpreti: Alessandro Roja; voci off di Daria Deflorian, Irene Splendorini e di Veronica Cruciani, Giordano De Plano, Andrea Di Casa, Federica Festa, Lucia Franchi, Francesco Montanari.
Produzione: CapoTrave e Pierfrancesco Pisani.

Links:
www.capotrave.com
www.pierfrancescopisani.it
www.teatrolitta.it
www.campoteatrale.it
www.teatrorologio.it
www.teatroecritica.net/2013/05/nextwork-la-contestazione-al-premio-le-repliche-della-direzione-e-del-vincitore
www.klpteatro.it/nextwork-e-la-tentazione-di-cadere-rete-dellintrattenimento
www.laboratoripermanenti.it
www.kilowattfestival.it