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Come si percepisce, come si sente davvero, come si esprime con verità il dolore di chi si ama? Come si fa a star vicini a chi soffre? Forse occorre dimenticare distanza e paura, e imparare ad avere coraggio e follia quanto basta, occorre provare a toccarle con le mani le piaghe di chi soffre: dei malati, dei poveri, dei sofferenti, degli altri. È chiaro che questi interrogativi stanno alla base di un’interpretazione libera e autentica del Cristianesimo ed è chiaro che non si sta dentro la fede cristiana se non avendo risposto positivamente e con slancio a questi interrogativi. Tutto il resto è secondario. Questo è quanto vien fatto di pensare dopo aver visto “Fratellini”, lo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Francesco Silvestri con in scena anche Vincenzo Tumino, ch’è andato in scena a Modica, sabato e domenica 18 e 19 maggio, nello spazio scenico dell’ex chiesa di San Niccolò ed Erasmo. Silvestri (classe 1958) è un attore e drammaturgo napoletano, un artista di vaglia che, trasferitosi a Modica da qualche anno, ha accettato di rimettersi in gioco nella cittadina siciliana e dirigere la giovane accademia teatrale “Clarence”. Nello spettacolo (un pezzo teatrale che ha avuto successo di pubblico e critica negli anni scorsi) interpreta Gildo, un giovane affetto da una lieve menomazione psichica, che ogni giorno, col pretesto di andare a messa, va a trovare in ospedale il fratello malato terminale di Aids. Non va a messa però ma a trovare in ospedale il fratello e ciò che accade in quella stanza d’ospedale è una cristianissima e lacerante liturgia d’amore: Gildo parla con quel cristo di suo fratello, cerca di farlo mangiare, gli recita la messa a modo suo, gli canta le canzoni che a messa avrebbe sentito, gli sistema il letto, si chiede perché non gli hanno mai dato un preservativo, ovvero l’unica medicina che avrebbe potuto aiutarlo, e poi lo pulisce, gli cambia lenzuola e pigiama, gli cura le piaghe, gli pulisce la stanza, quella stanza che per gli altri è infettata e impraticabile, prova a farlo sorridere, a farlo ridere e volare col dono di un coloratissimo aquilone, e ci riesce davvero, miracolosamente. E tuttavia si tratterebbe di un miracolo afasico, sterile e davvero impossibile da vivere e far vivere nella sua meravigliosa semplicità se a dargli voce, corpo, parole e ipnotica, teatralissima, musicalità, non fosse la splendida prova d’attore cui Silvestri dà luogo, recitando questo (quasi) monologo in uno stretto dialetto napoletano che è tutto materia e struttura musicale e quindi comprensibilissimo nella sua forza teatrale e nella capacità di comunicare anche quando le parole non appaiono intellegibili. Ma le parole non servono alla follia dell’amore e possono essere persino superflue in teatro.