Nuova epifania, dal 12 al 21 luglio, di questo ormai ineludibile incontro con il teatro nelle sue mille metamorfosi che come i bracci di un grande estuario confluiscono e si placano nel mare della consapevolezza di sé stessi. È questo ormai un evento che non va presentato perché di per sé trova fluidamente e liberamente il suo giusto spazio
nella storia del teatro e dunque di ciascuno di noi. Questa edizione è ora avviata al suo baricentro temporale e significativo, pertanto queste brevi cronache iniziano dal pomeriggio di un 14 luglio.
LA VOCE LATTEA
Ecco una delle mille metamorfosi in cui il teatro pare perdersi, fin quasi a rendersi irriconoscibile, per poi recuperarsi quasi spontaneamente nelle essenziali dinamiche e dimensioni spirituali che sempre lo sottintendono. Francesca Proia presenta per due giorni allo spazio Musas questo suo singolare progetto che aveva già anticipato a Ipercorpo 2013 di Forlì, ospite di Città di Ebla. Un teatro essenziale, ridotto alla vibrazione della presenza, di performer e pubblico, che si realizza poi nella fascinatoria vibrazione della sua voce in grado di risuonare tanto di profondità da inquietare e placare. L'origine ovvero la finalità terapeutica che è insita nel progetto, che trae la sua sintassi da pratiche tra lo yoga e la tensione mistica, si trasforma così per forza propria in tensione di conoscenza in cui paradossalmente è propria l'efficacia straniante della performance a produrre consapevolezza. Lo spettacolo tra l'altro è custodito, come una perla nella sua conchiglia, all'interno di una sorta di laboratorio, The hall of growing happines, che si sviluppa per tutto l'arco del festival.
IN ASCOLTO
E' uno dei momenti in cui si sta sviluppando un interessante, e dall'assai lungo respiro, progetto di Virgilio Sieni, qui nella veste esclusiva di coreografo e maestro, che ha nello specifico come suo oggetto i movimenti appunto dell'ascolto, trasfigurati dalle giovanissime, e brave, danzatrici in tensione interiore quasi che il suono fosse una semplice guida, una sorta di richiamo verso le ebbrezze del corpo danzante, la cui bellezza non può più essere ascoltata ma può solo essere guardata. Spettacolo di danza breve ed intenso che ben si inscrive nella ricerca di Sieni sull'arte del gesto e sulla sua trasmissione. Protagoniste, poco più che bambine, Noemi Biancotti e Linda Pierucci.
ART YOU LOST
Sempre a proposito di metamorfosi, qui addirittura lo spettacolo non c'è, o meglio non c'è ancora. Pazienza, lo stiamo facendo. Lacasadargilla, Muta Imago, Luca Brinchi Roberta Zanardo (Santasangre) e Matteo Angius hanno infatti ideato un percorso, prima fisico nei corridoi della Scuola Elementare di Santarcangelo e poi psichico nei meandri meno luminosi della nostra coscienza, che come il cammino di Santiago vuole essere preparatorio e forse anche liberatorio, al cui culmine, che coinvolge circa mille persone disposte a donare, separandosene, un oggetto caro, e solo allora, il teatro acquista senso compiuto. È come anticipare il rito della drammaturgia dal suo manifestarsi al suo nascere e formarsi quasi nelle viscere di una comunità di singolarità reciprocamente ignote ma in essenza condivise. È un percorso molto coinvolgente e spiazzante ma coerentemente arricchente.
THE HONEY QUENN
Paradossalmente quasi con Gertjan Franciscus Van Gennip, performer olandese dalla fortissima vocazione figurativa, torniamo ad un teatro più tradizionalmente e ritualmente articolato in sintassi drammaturgica trasfigurata in sapienza recitativa, dagli evidenti e talora a fatica sostenibili connotati corporei. Al fondo della Grotta Municipale, in una sorta di strano santuario pagano, Van Gennip attende il suo piccolo pubblico quasi per raccontare della scommessa che l'umanità ha sottoscritto con la natura e che ciascuno di noi ha sottoscritto con il proprio corpo. Questi diventa così il luogo non dell'identità bensì della perenne metamorfosi, trasformazione, sovrapposizione e condivisione di maschile e femminile o di natura umana e natura animale. Ispirato alla notissima frase di Albert Einstein (“se le api scomparissero dalla faccia della terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita”) per il performer olandese, mostruosa ape regina, su un divano dalle reminiscenze Kafkiane, ricoperta dal suo proprio miele, la scommessa sembrerebbe persa quasi che la continua traslitterazione di genere e natura fosse ormai fuori controllo e la ricerca di un ancoraggio nel proprio corpo, fisico e psicologico/drammaturgico, senza esito. Spettacolo intenso ed inquietante, aperto a mille domande.
Lunedì 15 luglio. Santarcangelo è immersa nel suo festival e quasi trasfigura tra installazioni che si aprono in continuità nelle prospettive più impreviste ed una comunità che si rispecchia provvida e paradossale.
POP UP
Spazio Liviana Conti, drammaturgia progetto ideata da I Sacchi di Sabbia di Giulia Gallo e Giovanni Guerrieri. In scena Beatrice Baruffini e Serena Guardone. Tra i tanti bracci del suo ampio delta che si nasconde dentro al mare, il teatro tenta di ritrovare, per ritrovar sé stesso, lo spettacolo per bambini penetrando così quella terra comune tra infanzia ed età adulta che è il narrare ed il rappresentare, in quel mondo che sembra non avere confini. Lo ritrova qui a partire dalla materialità del libro animato, il pop up appunto, trasfigurato in caleidoscopio pittorico in cui il potere simbolico del colore, giallo, azzurro, rosso e grigio, moltiplica i mondi come l'onda dello stagno o l'eco in una grotta in apparenza senza fine. È dunque un reinventare la semplicità del narrare drammaturgico e figurativo che rimane l'essenza a volte dimenticata del fare teatro. Brave le due protagoniste a moltiplicare l'efficacia metaforica della narrazione quasi trasformando in maschera il loro stesso corpo.
CLIMA
Coreografia azione del gruppo MK da una idea di Michele di Stefano. Brevissima, meno di cinque minuti, ed improvvisa fa della contingenza un modello, anzi un progetto di definizione, destrutturazione e riscoperta dei luoghi ovvero del luogo dell'esistere. Quasi come un “accidente” la danza infine sembra crearlo quel luogo dal nulla che ci assedia. “Tattica” è l'intenzione dichiarata, ma diventa una strategia di conoscenza che nasce da una sorta di inaspettata ridislocazione della coscienza.
LA SAGRA DELLA PRIMAVERA
L'occasione è il centenario della Sagra della primavera di Stravinskij ed anche della esecuzione geniale di Nijinsky il creatore del balletto moderno e l'iniziatore di una nuova storia. Il sottotitolo e “paura e delirio a Las Vegas”. Cristina Rizzo, danzatrice di grande qualità tecnica ed artistica, sembra confrontarsi qui, ed affrontare il problema, della dissoluzione delle vecchie regole, o forse delle regole tout court, che per la musica e per la danza questo anniversario comporta. Lo fa a partire dalla dissociazione tra suoni (la musica non è diffusa nella sala ma tramite cuffie individuali) e movimento che si sviluppa nel vuoto non solo fisico ma anche sonoro. Il problema è allora quello del significato e del senso ultimo del movimento in assenza di regole, della sua capacità di creare uno spazio e di un tempo condiviso oltre la realtà distorta e divenuta quasi inconoscibile e incomunicabile. La danzatrice sembra così tentare e ritrovare, al di là dell'apparente delirio del corpo, un senso nell'equilibrio, prima intimo e poi espressivo, che guida l'evoluzione e la coreografia nello spazio scenico. È o può, infine, diventare un dono per tutti noi, per aiutarci a vedere quando ascoltiamo e ad ascoltare quando vediamo.
Martedì 16 luglio. Nel ventre del festival la quattordicesima edizione del Premio Scenario che, in un certo senso, ne alimenta la sopravvivenza in una continua attivazione di nuova linfa drammaturgica e di sapienza attoriale. In una prevalenza di monologhi sintatticamente prossimi al teatro di narrazione, il filo sotterraneo che sembra legare i primi sei spettacoli finalisti è quello della ricerca di un luogo, che sia della mente e della memoria singolare e collettiva, ovvero esistenziale, psicologico ma insieme sperato e geograficamente concreto, un luogo di identità e consapevolezza perduto in una contemporaneità che rende tutto fragile e precario (parola questa ormai significativa oltre ogni aspettativa), perché sembra rendere tutto esterno, esteriore e quindi estraneo a ciascuno di noi. Sintomatico al riguardo l'abbinamento quest'anno al “Premio Scenario” del “Premio Scenario per Ustica”, luogo divenuto simbolo della perdita, cui quattro dei lavori finalisti partecipano. Sei dunque i finalisti della prima giornata.
BISCOTTI INTEGRALI PER LA LIBERTA'
Drammaturgia di Guendalina Tondo per la compagnia Thon Gu. In scena, sola, la stessa drammaturga e regista, inattuale e quasi inappropriata, ma fascinatoria nel suo abito bianco da vecchio film melo'. È il mondo descritto attraverso una scatola di biscotti, segno ineludibile della proiezione, oltre e al di fuori di noi, dei nostri sentimenti, trasformati in desideri ritmati dalla pubblicità. Come in un film senza narrazione, in cui ci perdiamo nel fumo di una sigaretta, instabile e provvisorio, o nella melodia che ci abbandona perché non sappiamo ballare il tango. Spettacolo interessante che sembra non avere tempo, né inizio né fine.
CINQUE AGOSTO
Di e con Serena Di Gregorio. Una data come luogo metaforico della memoria e quindi della esistenza, del vivere avendo un senso e avendone coscienza. La drammaturga fissa questo luogo come un inizio, quasi che il futuro non fosse che un passato ancora da venire. Invidia dunque la vecchiaia che questo futuro divenuto passato lo possiede, quasi che la giovinezza essendone priva fosse pericolosamente mancante di un baricentro di senso. La festa della Madonna della Neve proietta così in una dimensione metafisica il tempo concreto salvaguardandolo quasi dalla morte. Però in fondo il passato davanti a noi è terra incognita ma ancora piena di speranza. Buona la scrittura anche scenica e apprezzabile la recitazione.
QUELLO CHE DI PIU' GRANDE L'UOMO HA REALIZZATO SULLA TERRA
Silvia Costa e Giacomo Garaffoni firmano anche la regia di questa inquieta loro drammaturgia. In scena insieme a loro Laura Dondoli e Sergio Policicchio. Finalmente un luogo geometricamente definito ma sospeso nel vuoto e nel tempo. Un luogo da riempire, in cui gli oggetti si devono far carico di rappresentarci nei nostri intimi sentimenti, nelle relazioni che nello spazio fisico svelano gli intrecci e le contrapposizioni psicologiche. Un drammaturgia dello sguardo che allo sguardo si sottrae, mentre gli attori con le spalle al pubblico dialogano con le proprie ombre. Una scrittura anch'essa sospesa che si accende nel corso del suo farsi e si spegne nel suo compiersi. Ma forse i sentimenti e la nostra essenziale consapevolezza non sono abbastanza forti ed il luogo si chiude in scena e nella nostra mente. Drammaturgia molto pensata e geometrica in cui forse il pathos e la nostra inquietudine un po' si perdono.
UNMONTE
Di e con Elisa Porciatti. Unmonte è una banca e quale banca, una banca che si è fatta città ed esistenza, paragone e discrimine esistenziale fino a tutto assorbire e a tutto disperdere nel suo crollo. Qui diventa anche una narrazione, la narrazione della vita di chi in essa si è perduto, depositandovi e così definendo il valore della propria esistenza, ma anche la narrazione di chi smaschera le parole che tale narrazione hanno retto e sostenuto da sempre. È abile Elisa Porciatti a recuperare il senso concreto di quelle parole, il loro essere voci dell'esistere, dell'essere interiore prima che dell'apparire esterno. Unmonte calcola e conta il tempo e così lo annulla, lo sguardo dell'ironia ci recupera al luogo della vita. Questa intrigante drammaturgia sembra così invitarci a guardare.
L'UOMO DEL DILUVIO
Un progetto di Valerio Malorni da lui stesso interpretato. Il diluvio come una tangente di fuga diventata però senza altra giustificazione (Noè almeno lo aveva interpellato Dio stesso) che non sia lo stesso fuggire. Una vasca che diventa l'arca biblica per una fuga solitaria che non salva il mondo ma prende atto con rabbia che forse un mondo non c'è più, ci sono solo persone (sette miliardi nel mondo, 18 nel condominio, 3 nell'appartamento) che non conosciamo, che non ci vengono fatte conoscere e per le quali non possiamo decidere. Non c'è punto di partenza e neanche punto di arrivo in questa fuga. Monologo rabbioso, quasi rivendicativo in cui la acuta ironia tempera spigoli e rientranze, la storia di un uomo, come scrive lo stesso drammaturgo, che non vuole Dio ma che, forse, non ne può fare a meno.
TRENOFERMO A-KATZELMACHER
Una drammaturgia collettiva del gruppo nO (Dance first. Think later), ideata da Dario Aita. Agglomerati di case che non fanno una città, né un paese riconoscibile. Dentro un affastellarsi di linguaggi dialettali o generazionali che non dialogano tra di loro, ma si comprendono reciprocamente dalle loro, talora assordanti e sgradevoli, sonorità. La periferia del mondo e la periferia della mente capaci ancora di sognare ma senza obiettivi e senza destinazione, come un treno regionale che sembra sempre fermo in stazioni solo virtualmente esistenti, e quindi senza destino. Bravi i 10 protagonisti che non citiamo per ragioni di spazio, bravi nella mimica, nella gestione del corpo e dei movimenti scenici evidentemente auto-diretti. Un periferia peraltro divenuta fin troppo simbolicamente usata ed abusata verso cui anche l'indignazione sembra depotenziata fino all'assorbimento.
Mercoledì 17 luglio, ultimo giorno per i finalisti del Premio Scenario che saranno premiati domani 18 luglio. Alcune note, come dire, di servizio. I lavori finalisti, undici, sono stati selezionati a partire da 177 proposte ridotte a 48 progetti semifinalisti, lungo un percorso organizzato dai soci della Associazione Scenario. La giuria del premio vede come suo presidente l'attore Arturo Cirillo, affiancato da Stefano Cipiciani, Isabella Lagattola, Rodolfo Sacchettini e Cristina Valenti che assegneranno i due premi previsti quest'anno, “Scenario” e “Scenario per Ustica”, e selezioneranno altri due progetti che insieme formeranno la “Generazione Scenario 2013” destinata ad essere ospitata in un circuito di Festival estivi. Quegli stessi quattro progetti, nella loro forma compiuta, debutteranno nel prossimo inverno promossi dalla Associazione. Cinque gli spettacoli di oggi, tra il Teatro Petrella di Longiano e lo spazio de “il lavatoio” di Santarcangelo, anch'essi sotto il segno del disambientamento, che attraversa, in una quasi disperata ricerca di sé, la sensibilità di questi giovani drammaturghi talora troppo attenti ad un io travolto e stravolto da una comune condizione-sensazione di precarietà.
M.E.D.E.A. Big Oil
Drammaturgia scritta e diretta da Terry Paternoster che ne è protagonista insieme al Collettivo InternoEnki di Roma. Il territorio stravolto da una modernità bugiarda, che sconvolge anche la percezione della propria intima geografia interiore, è l'occasione per rivisitare il mito di Medea, madre tradita che sacrifica i suoi figli. Testo ben scritto che abilmente riutilizza ed amalgama nella riproposizione scenica una lingua ormai imbastardita che di materno ha solo le sonorità della memoria. Ben recitato e organizzato nei suoi movimenti, quasi un mulinello in perenne rotazione verso un centro che stenta a ritrovarsi, è uno spettacolo che inquieta e a volte commuove sapendo riorganizzare in maniera innovativa modalità tradizionali del racconto con le esigenze di una drammaturgia che si completi sulla scena di fronte e a contatto con lo spettatore. Un lavoro maturo.
MIO FIGLIO ERA COME UN PADRE PER ME
Pièce dei Fratelli Dalla Via, Marta e Diego, che ne sono anche registi e protagonisti in scena. A partire dalla corrispondenza tra famiglia e luogo i due giovani drammaturghi cercano di sondare la dissoluzione dei legami familiari nella dissoluzione di una economia un tempo florida. È una sorda lotta tra genitori e figli, un desiderio di morte e di parricidio in una epoca in cui anche il parricidio non è più il tragico spezzarsi di un tabù interiore, ma solo un affare di eventuale convenienza economica. Così i genitori si suicidano privando quei due figli disperati anche del gesto definitivo a lungo immaginato. Uno spettacolo che cerca di disperatamente ritrovare nei relitti del contemporaneo il senso di una tragedia perduta. Buono il testo e anche la recitazione.
BOY DISAPPEARS
Ideato, scritto e diretto da Anita Otto, con Michele Balducci, Marco Barzan e Laura Pizzirani. Spettacolo dalle molte, forse troppo multiformi, ambizioni, ha al suo centro l'analisi dello sradicamento che sembra ossessionare i protagonisti, sradicamento dalla terra di nascita, sradicamento dall'infanzia e dunque infine sradicamento dalla vita. Il testo ha un suo equilibrio ma la trascrizione scenica talora scivola nel retorico, sensazione questa accentuata dalla ancora acerba formazione dei protagonisti, ricchi di qualità non ancora espresse. Così il senso rischia di perdersi in un eccesso di riferimenti segnici e simbolici.
ALICE DISAMBIENTATA
Titolo inquietante ma assai appropriato al contesto, per questo lavoro di e con Ilaria Dalle Donne. Una scrittura scenica appunto inquietante che trasfigura un match di box in una ricerca angosciata di un punto di equilibrio esterno ma soprattutto interiore. Localizzare il proprio sé è fatica improba meglio sperimentare e affastellare, del sé, immagini e sonorità che riempiano se non il cuore almeno le orecchie. Fino al recupero dell'unica leva possibile per sollevare questo mondo opprimente, la memoria e l'infanzia segnata di fiabe. Ilaria Dalle Donne sa ben gestire i tempi del proprio corpo piegandoli efficacemente alle esigenze significative e sceniche.
W (prova di resistenza)
L'ultimo spettacolo finalista è ancora un monologo ed un monologo al femminile. Di e con Beatrice Baruffini la drammaturgia compie il salto più tradizionale alla ricerca di sé, cioè quello verso la storia come baricentro di una identità singolare e insieme collettiva. Soprattutto la storia come ribellione nel segno della giustizia, ribellioni anche sfortunate come gli eventi della Parma rossa del 1922 di fronte ai fascisti di Italo Balbo. La Baruffini sceglie, per ritrovarsi e riscrivere la storia, l'oggetto più comune della nostra casa, il mattone forato, fondamento, difesa e resistenza dell'intimità psicologica e della comunità politica. Uno spettacolo semplice ma intrigante in cui la narrazione si fa cosa concreta.
La serata ha poi riservato la vera sorpresa della giornata, il ritrovarsi improvviso della piazza come centro di conoscenza e come motore di una teatralità collettiva che scuote le coscienze e promuove il movimento. È andato in scena in Piazza Ganganelli il “Pinocchio” delle Albe, anzi il “Pinocchio” della non scuola di Santarcangelo sotto la guida di Alessandro Argnani, attore del Teatro delle Albe. Il Pinocchio come ogni frutto della non scuola è ciò che essendo sempre uguale a sé stesso non è mai la stessa cosa, in fondo come ciascuno di noi quando è capace di guardarsi dentro. È la sincerità dei nostri pinocchi anche quando sembrano dire bugie. La piazza si è così ritrovata ed il teatro ha ritrovato, ancora una volta, la sua piazza spesso negletta e dimenticata. D'altra parte è stato sintomatico e non casuale che il giorno precedente quella stessa piazza avesse apprezzato il raro “Moliere”di Mnouchkine finalmente guarda in alto mentre attori girovaghi coltivano i sogni della sua, piccola e poi sempre più grande, comunità. È stato molto bello vedere la gioia della guida e la gioia di quei piccoli asini sapienti della non scuola con le loro magliette rosse e i costumi cuciti dalla inarrestabile fantasia di un pubblico incontenibile oltre ogni aspettativa e, e questo era nelle aspettative perché iscritto nei ritmi della non scuola, sempre più entusiasta e numerosissimo. I frutti delle Albe crescono sani e così i suoi molteplici figli. Balli canti e piroette, parole e musica, domatori e animali fantastici, semplicemente il teatro che sconfigge la morte.