Scrivere di danza, raccontare di uno spettacolo di danza contemporanea, è un’operazione paradossale: si tratta in qualche modo di verbalizzare un accadimento scenico concepito dal suo creatore proprio rifuggendo – quasi programmaticamente - ogni possibile verbalizzazione, ogni concettualizzazione mimetica esatta o troppo stringente.
Per scriverne, o parlarne, è quindi quasi giocoforza percorrere la via delle metafore e/o delle similitudini, cercare di decrittare le allusioni, oppure costeggiare le periferie dello spettacolo rielaborando i materiali extra scenici che il coreografo mette a disposizione del pubblico per offrire qualche appiglio a un tipo di comprensione che non vuol fermarsi all’impressione, al racconto dell’emozione, alla sensualità di ciò che si coglie in scena. Poi, certo, è anche vero che la danza, come ogni arte, non è solo creazione di realtà, ma è anche legame profondo con una tradizione, è essa stessa un linguaggio che si tramanda, ch’è fornito di una propria sintassi, che si possiede o no, e che e si può insegnare ed apprendere. Tuttavia il problema resta intero, e resta soprattutto se ci si vuol porre in spirito di autenticità di fronte ad una coreografia della quale pur si avverte chiaramente l’impegno morale, la profondità della lettura del mondo da cui sgorga, l’intensità comunicativa.
È esemplare da questo punto di vista “Sonate Bach di fronte al dolore degli altri”, la straordinaria e complessa coreografia di Virgilio Sieni che s’è vista il 12 luglio scorso al Ba-glio Di Stefano di Gibellina, nel contesto della XXXII edizione delle Orestiadi. Sono quattro gli elementi, concettuali prima che linguistici, che l’artista mette dinamicamente in relazione: la densità colta e carnale delle sonate di Bach (BWV 1027, 1028, 1029, suonate in scena da Mariodavide Leonardi alla viola e da Alessia Zanghì al pianoforte) in rapporto a un uso sa-piente dei silenzi; uno spazio scenico manifestamente ridotto e definito; undici epigrafi che rammemorano luoghi (Sarajevo, Kigali in Rwanda, Srebrenica, Tel Aviv, Jenin, Baghdad, I-stanbul, Beslan, Gaza, Bentalha, Kabul) e date di eventi bellici sanguinosi accaduti nel ven-tennio appena trascorso (ed in questa direzione va anche il frammento del bellissimo docu-mentario girato nel ’94 da Adriano Sofri “I cani e i bambini di Sarajevo”); una sensibilità pit-torica per l’impasto luce/buio/colori che rimanda all’arte tardo-medievale o quella rinasci-mentale e manierista; una danza (interpeti all’altezza: Giulia Mureddu, Sara Sguotti, Jari Boldrini, Nicola Cisternino) che resta strutturalmente composta, pur contendo fremiti, con-torsioni, blocchi, stupori, lacerazioni, e che si dispiega su almeno due macro-direttrici gestuali fondamentali: il sostenere e l’abbandonarsi di corpi attraversati dal dolore e la memoria viva di una dimensione popolare, sociale, persino ingenua del danzare. Il risultato è una coreo-grafia che, tenendosi estranea a ogni forma di pathos facile, costringe il pubblico a interrogarsi sul senso del male che è insito nelle pieghe più recondite della cultura occidentale (anche in quelle delle pagine più straordinarie e struggenti come può essere la musica di Bach) e che da essa può deflagrare in orrore e disumanità. Un orrore e una disumanità che solo la memoria può alleviare e solo il grado zero del corpo e del gesto può inserire in un respiro di compassione, di rinascita e di speranza.
Una temperie intellettuale simile è quella che ha caratterizzato il secondo spettacolo di Sieni a Gibellina (in scena, sempre al Baglio Di Stefano, il 13 luglio), “Di fronte agli occhi degli altri”: una serie di improvvisazioni di e con lo stesso coreografo (accompagnato in scena dalla straordinaria poesia del violoncello di Naomi Berrill) nata come progetto di lungo respiro teso a legare il lavoro dell’artista a momenti e luoghi del dolore, della sua condivisione e della sua memoria: «Lo spettacolo – spiega lo stesso Sieni - nasce su invito del Museo della Memoria di Bologna, come testimonianza e denuncia della tragedia di Ustica del 27 giugno 1980 dove morirono 81 passeggeri innocenti durante uno scontro militare aereo, come accertato dalla magistratura. E’ dunque partendo dall’esperienza commossa di Bologna che nasce l’intenzione di continuare questo percorso attraverso altre opportunità d’incontro. Il titolo dello spettacolo si ispira al libro di Susan Sontag “Davanti al dolore degli altri”, ri-flessione sul senso della bellezza nella fotografia come documento degli eventi tragici. Voler incontrare queste persone che con la loro esistenza ci rammentano la necessità di condivisione negli eventi e nelle tragedie, diviene per me un “gioco del tatto” che continuamente vuol rendere dignità, libertà e riscatto alla condizione di appartenere ad un corpo».
Nel segmento di Gibellina il nodo propulsivo è stato, ovviamente, il dialogo con una comunità attraversata dalla devastazione naturale del terremoto del Belice (del gennaio del ’68) e dall’umiliazione di una ricostruzione mai completata. In scena con Sieni persone an-ziane e di mezza età protagoniste di quella terribile vicenda e dalle quali, dal colloquio tattile e corporeo con le quali, l’artista ha tratto linfa e pensiero per le sue improvvisazioni. Un’operazione coreografica complessa certo, e non del tutto convincente, eppure comprensiva di alcune stimmate del DNA più autentico delle maggiori esperienze dell’arte contemporanea: l’ autoconsapevolezza critica di una prassi che è continuamente attraversata dalla domanda su cosa è arte in questo mondo, la dimensione processuale del fare artistico che rimanda ogni formalizzazione definitiva, l’attraversamento politico, moralmente responsabile e consape-volmente meta-teatrale di ogni barriera di verosimiglianza che sposterebbe l’arte sul piano della menzogna.
Danzare di fronte al dolore
- Scritto da Paolo Randazzo
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