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Ancora una volta il festival torinese diretto da Beppe Navello si caratterizza per la singolarità e anche la ricercatezza delle proposte, ma soprattutto per la loro coerenza anche estetica che lo trasforma da percorso artistico e teatrale in vero e proprio progetto. Il filo unificante, soprattutto quest'anno, è a mio parere il corpo, quel corpo alienato e sottratto che la nostra contemporaneità ha trasformato in una sorta di pagina bianca sui cui scrivere, e spesso imporre, narrazioni estranee ed in fondo etero-dirette. Così l'arte e l'arte teatrale in particolare, nelle sue innumerevoli manifestazioni, riconquista il corpo, con esso riconciliandoci, come primo e ineludibile promotore di senso, il luogo dell'anima direbbero gli antichi, come creatore di significati, punto di equilibrio e mediatore dunque tra natura e cultura. Intensissimo l'ultimo fine settima di questo evento che “è il teatro europeo nelle dimore sabaude”, come recita la “ditta”, e che si è, nella sua interezza, sviluppato tra il cinque ed il ventuno di luglio.

THE ANIMALS AND CHILDREN TOOK TO THE STREETS
Ideato e prodotto da 1927 giovane compagnia della scena londinese per la prima volta in Italia.  Affascinante miscellanea di linguaggi e coerente sovrapposizione di sintassi che con l'abile utilizzo di una sorta di tecnologica “lanterna magica” che organizza mimo e cartone animato, sonorità dal vivo, ombre cinesi e drammaturgia, e accelerando su alienazione e senso delle perdita, riesce paradossalmente ad intercettare la realtà come pochi spettacoli. Come le migliori favole nere dà  infatti senso psicologico e metaforicamente metafisico all'abbandono delle periferie del mondo e alle paure che i bambini ormai non elaborano ma metamorfizzano, scaricandole sulla nostra inconsapevole e abbandonata sofferenza. Una drammaturgia che quasi viviseziona la lingua del noir anglosassone, ricco di quel humor tetro che consente di sopportare e dunque portare fuori e in cui il tocco dickensiano del salvare gli altri per salvare sé stessi è trascinato via sulle note di un finale inevitabilmente “realista”. Uno spettacolo straordinariamente equilibrato, figurativo che fa del corpo degli attori una elaborata grammatica su cui articolare senza pause l'intera narrazione. Bello il testo, pieno di riferimenti se non di interferenze, bravissime le tre protagoniste per la gestione dei ritmi e della recitazione. Uno spettacolo che riesce a trasfigurare e quindi a renderci comprensibile un mondo che vorremmo dimenticare e di cui il primo nemico, sembrano dirci gli autori, è proprio la retorica del compassionevole.

THE DRY PIECE
Della coreografa israeliana di nascita e olandese di adozione, Keren Levi, che ci mette di fronte al corpo femminile nella sua nudità, privo anche di ogni copertura drammaturgica, rapito al nostro sguardo in forza del suo movimento e costringendo quello stesso nostro sguardo a riposizionarsi e a fare i conti con gli stereotipi di una modernità che fa dell'apparenza un osceno e della esibizione una semplice pornografia. Lo fa, quasi a toglierci ogni difesa e quindi ogni equivoco ed infine ogni “giustificazione”, per andare oltre e sviluppare un discorso sul corpo tout court, discorso in cui il corpo femminile diventa appunto paradigma da superare. Con un affascinante utilizzo della multimedialità, che crea punti di vista inattesi ed improvvisi con cui il nostro sguardo è quasi costretto a fare in conti, non tanto con l'immagine quanto con sé stesso, la Levi disarticola il corpo e lo rende talora diafano, depurandolo non della sua carnalità, che è in sé positiva, ma piuttosto delle nostre interferenze di senso. Il doppio e a volte triplo angolo di visuale riesce dunque quasi ad estrarre e proiettare da quei corpi, che si sfiorano e accavallano, si abbracciano e si allontanano, metaforiche tangenti che paiono movimenti verso il metafisico da un lato e l'intimamente psicologico dall'altro, mostrando dunque insieme la danza del corpo e quella dell'anima che il corpo custodisce e proietta nello spazio e nel tempo del suo esistere.

WASTELAND
Della giovane coreografa e drammaturga olandese Alexandra Broeder. La narrativa, spesso della migliore fantascienza (chi non ricorda “Il villaggio dei dannati”), ha più spesso del teatro analizzato il rapporto, intimamente di potere, tra adulti e bambini scoperchiando in fondo e traslando quel senso di intima e sottile diffidenza, se non di paura, che lo permea e che i bambini dimenticano mentre gli adulti talora coprono con la fantasia della bontà naturale del fanciullo. Qui si attiva l'idea ed il progetto drammaturgico della Broeder a partire da un inatteso ed improvviso, perché senza segnali sintattici, ribaltamento. Siamo portati in gita nel bosco, novelli pollicino, prigionieri su un pullman e condotti in fila per due, tenendoci per mano, fino alla colazione obbligatoria (i bambini “devono” mangiare). Poi siamo privati dei nostri oggetti giocattolo mentre stiamo in silenzio per non disturbare, siamo derisi perché piagnucolosi o indisciplinati, ed infine, quando ormai quasi dipendevano dai nostri bambini accompagnatori, siamo abbandonati nel bosco. Un gioco molto serio, come sono seri i giochi per i bambini finché non crescono, un gioco che abbiamo giocato ritrovando sensazioni perdute e déjà vu dimenticati. Forse non abbiamo ancora capito ma un po', credo, abbiamo imparato. La strada nel bosco è lunga e ignota, vale le pena di mettersi in marcia. Drammaturgia inconsueta e con inconsueti protagonisti (non i bambini, talora gelidi ed inquietanti nel loro colori chiari e accesi, ma noi).

ATTACK IN RACCONIGI
Teatro danza per la drammaturgia e la coreografia di Gabriella Cerritelli. Il corpo nel suo rapporto con lo spazio e soprattutto nella sua relazione con il peso. Il corpo che dunque attacca lo spazio per creare o ritrovare la sua dimensione oltre i limiti della esistenza. La Cerritelli da sorta di minatore prigioniero nelle viscere della sua stessa installazione-luogo si trasforma in corpo libero dalle leggi della gravità e indifferente alla vertigine, la vertigine non del vuoto ma dello spirito che va oltre per creare nuovo e nuovi spazi, ma che infine ritorna al punto di origine come ogni esistenza consapevole.

GANGEWIFRE
Coreografia “sospesa” della finlandese Ilona Jantti, tra fili lanciati tra gli alberi secolari del parco di Racconigi, accompagnata dal violoncello di Stefania Riffero. Qui il rapporto con la spazio sia fa rapporto con la natura con la levità del ragno sulla sua tela. In una malinconica caccia ancora priva della sua preda ma alla ricerca di sé stessa, la Jantti mostra una grande capacità di riannodare il significato del nostro essere in mezzo ad un mondo, prima che tra di noi, noi che senza mondo (senso o significato) non potremmo o dovremmo neanche esserci.

LA BALANCE DE LEVITE'
Di Yoann Bourgeois e Marie Fonte. Con Marie Fonte. Un corpo infine non ha bisogno di spazio in quanto è in grado di crearselo articolandolo nel e dal vuoto. Aiutata dall'antico macchinario che vince il peso della gravità, Marie Fonte ricerca nello spazio che si è creato il proprio equilibrio, che è assenza di moto e quindi assenza di tempo, un punto così intimo in ciascuno di noi da non necessitare di energia alcuna. Agile e perfetta ha disegnato per noi il senso di un cammino che non è né interno né esterno ma sospeso. Alla fine, coerentemente, Yoann Bourgeois ha invitato e indotto molti di noi spettatori alla prova.

In molti dei luoghi visitati insieme al festival, dalla foresta di Venaria reale al Teatro Astra, dalle Officine Grandi Riparazioni al castello di Racconigi con le sue magnifiche cicogne, ci ha accompagnato la “Macchina per il teatro incosciente” una creazione di Luì Angelini e Paola Serafini (La voce delle cose). Disarticolare e dissociare il fare drammaturgico, come da bambini smontavamo gli orologi dei nonni, e farlo nella materialità degli oggetti è evento straniante e ricco di significati. Angelini e la Serafini costruiscono oggetti e storie affidando i primi, con le relative istruzioni, a manipolatori che non conoscono le storie, e queste a spettatori che le ascoltano  guardando i movimenti degli oggetti eseguiti dall'altro. Che sia sincronia da Monade ovvero gioco dalle forti regole, dare senso a ciò che si muove sul palcoscenico è da sempre compito soprattutto di noi spettatori più che di drammaturghi e attori. È “jouer” al teatro.