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La casa delle nuvole rosse è un luogo fecondo di dolore e di speranza, di verità e men-zogna, di lotte e sconfitte, di attraversamenti e passioni, di persone, uomini e donne, che pos-sono guardarsi allo specchio (lo specchio della finzione teatrale) riuscendo a dirsi la verità, soltanto la verità finalmente. Parliamo dell’interessante spettacolo teatrale che s’è visto a Noto (Sr) dal 16 al 20 agosto scorso nei locali ampi e affascinanti dell’ex Cantina sperimentale abbandonata da tempo: un antico opificio temporaneamente riattato a luogo di incontro e a scena teatrale. L’operazione è stata diretta dalla regista siracusana Lisa Romano, che ne ha curato anche la drammaturgia insieme con Massimiliano Nicosia, le scene sono state curate da Roberto Gallo, Lucia Tiralongo, Raffaella Piccione, Mela Salemi (ovvero da “Scena appa-rente”, l’ensemble siracusano di scenografia e design che negli anni ha sempre dimostrato grandi potenzialità e qualità artistiche), in scena lo stesso Nicosia (Capocomico), Alice Ferlito (Barista), Doriana La Fauci (Olga), Valentina Grillo (Ragazza muta), Liliana Biglio (Ines), Raffaele Schiavo (Uomo della Luce), Sandro Maccarrone (Chitarrista), Francesco Bernava (Antonio), Cristiano Laiontini (Violentatore). Cuore concettuale dello spettacolo è il tema dei femminicidî, un tema quanto mai attuale che però, giustamente, Lisa Romano ha preferito de-clinare sotto la specie, più ampia e profonda, degli amoricidî, ovvero di quegli episodi di quanto mai tragica attualità in cui sostanzialmente un amore malato (avvelenato di menzogna e di paura ed incapace di accettare l’alterità e il cambiamento) ha portato alla violenza (fisica o psicologica, poco importa), all’annientamento e alla tragica uccisione di una persona e in particolar modo di una donna. La caratteristica più rilevante dello spettacolo è data allora dal-la sua complessa costruzione prismatica elaborata sulla base drammaturgica unitaria (ma forse un po’ troppo fragile e vaga) del rapporto tra luce e ombra, sacro e profano, esterno e interno. Questo rapporto viene quindi scenicamente risolto individuando un’aerea comune (lo splendido patio dell’edificio) in cui si canta, si suona, si beve, si balla e si fa festa, artisti e pubblico insieme, seduttori e sedotti, insieme vittime e carnefici, ed ancora si fa memoria (una memoria critica e creativa) di pagine celebri della letteratura (la vicenda di Adamo ed Eva nella Bibbia, Aristofane, Tertulliano) e del cinema (Fellini, Chaplin, Almodovar) e altre stanze da attraversare e vivere progressivamente e contemporaneamente, da soli o a piccoli gruppi, in cui queste due dimensioni precipitano in storie (perfomances) singolari di donne e uomini che in questo dualismo si sono persi e, quasi sempre, fatti male: la storia di Olga, bambina e poi donna d’estrazione alto-borghese, schiacciata dalla violenza psicologica e fisica prima del padre e poi del marito; la storia della giovane Ines attratta, nella sua dolcezza pasticciona e nella sua fragilità provinciale, da un amore prima virtuale e poi omicida; la storia del carabiniere Antonio che per il suo lavoro fa quotidianamente i conti con abusi e violenze; la dura confessione del violentatore e la presenza,  muta e straziata, della donna vittima di quotidiana violenza; la “stanza della luce”, infine, in cui attraverso l’azione fisica del canto guidato e improvvisato si viene in contatto con la radice di ogni violenza, ovvero con la nostra incapacità d’essere integralmente autentici, senza maschere, di accettarci e di accettare l’alterità assoluta e la libertà di chi ci sta accanto.