Pippo Delbono è ormai un marchio di fabbrica, sinonimo di teatro ambivalente, pugni nello stomaco e candore infantile, delicatezza umana e crudezza dell’esistenza. Il Piccolo Teatro di Milano gli rende il giusto merito ospitando due spettacoli, il bellissimo Racconti di giugno e, in prima nazionale, Orchidee, oltre a tre film
Guerra, Grido, Amore Carne e a un incontro con il pubblico.
«Orchidee e Racconti di giugno sono diversi punti di vista da cui osservo una medesima realtà, la nostra, un tempo in cui tutto è diventato uguale, piatto, uniforme, uno strato di fango, in politica come nei sentimenti, nella società come nel salotto di casa. Il teatro, per me, rappresenta l’alternativa. È la via all’essenza delle cose». Così Delbono parla dei due spettacoli teatrali, che funzionano di fatto come un pendant.
Il più recente, in prima nazionale al Piccolo, Orchidee, pare non aggiungere niente di più di quel mix personale e riconoscibile che costituisce la formula di Delbono.
Così, in scena ci sono gli immancabili Pepe e Bobò, insieme ad un cast di attori vastissimo (Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Ilaria Distante, Simone Goggiano,Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Julia Morawietz, Gianni Parenti, Grazia Spinella e naturalmente Delbono).
La disabilità viene riscattata dalla normalità del diverso, dove non è valore aggiuntivo né legittimante essere uguale all’altro, ma anzi l’umano emerge proprio nelle diversità/peculiarità/stranezza di cui ciascuno è portatore.
Ciascuno pare recitare se stesso, a cominciare da Delbono che torna a narrare i temi caldi della sua produzione, il rapporto con la madre, la sua agonia, l’omosessualità e il trastullo giovanile nelle droghe, la dimensione universalistica di condivisione con gli altri.
Il linguaggio è volutamente anti-teatrale. Video autoprodotti, immagini in collage, voci fuori campo e scena vuota per lunghi minuti lasciano spazio a momenti di danza e canto. Se forse la cornice del Piccolo Teatro, così ufficiale e solenne, non pare delle più valorizzanti per questo linguaggio frammentato e “com-patetico”, resta l’effetto generale dell’operazione teatrale di Delbono.
La sgradevolezza è la porta degli Inferi. La madre morente, il suo corpo sofferente, Delbono e compagni che paiono portare nel corpo i segni del dolore dell’anima: questo c’è in quel mondo infernale che si apre sulla scena, un viaggio vorticoso e tutt’altro che riposante nei meandri di quel disagio del contemporaneo che trasuda moderna alienazione.
Come un moderno farmaco dell’esistenza, l’amaro lascia posto alla guarigione dell’animo, come alleggerito da tanta gravità in una sorta di catarsi da tragedia antica.
La morale? Non c’è causa e non c’è soluzione, non c’è rimedio né medicina, c’est vivre qui derange.
foto Karine De Villers e Mario Brenta