Il 2010 comincia con le presenze beneaugurati di tre amabili giganti dell’arte (e discipline contigue) a Roma e Bracciano.
Il primo dei signori ai quali il titolo allude è nato in Pennsylvania nel 1898, il secondo a Genova nel 1921, il terzo nel 1930 a Roma. Non hanno in comune un bel nulla, se non uno stile creativo naturale, sostenuto da un irrefrenabile ingegno personale, avulso dalle mode e profondamente attratto dalla ricerca e dalla sperimentazione. Ma, anche, si direbbe accomunarli, una tendenza forte alla tridimensionalità del manufatto e una sottile attrazione per ciò che è narrazione, fiaba, meraviglia. Pensandoci bene, tutti e tre, pur essendo di fama e frequentazioni più largamente intercontinentali, possiedono una grande familiarità con la lingua e la cultura francesi e sembrano aver subito l’ influenza dell’arte moderna di quel Paese. Soprattutto, tutti e tre dispongono di una estrema padronanza di repertori figurativi sterminati, che li porta a comporre, con tratto essenziale, immagini dal sottile potere fascinatorio e allusive di un immaginario infantile, fortemente in sintonia con il bambino interiore di ogni tempo.
Ciononostante è curioso che nelle immagini fotografiche in esposizione, nessuno dei tre sorrida mai. Il primo, Alexander Calder, è in mostra al Palazzo delle Esposizioni, Emanuele Luzzati, il secondo, all’Auditorium Parco della Musica e al Castello Odescalchi di Bracciano il terzo, Roberto Capucci.
Alexander Calder
Figlio di uno scultore monumentale similbarocco ed epicizzante e di una ritrattista molto affermata, si diletta, al contrario, nel costruire fin da bambino oggetti minimali, sculturine in fil di ferro e materiale vario (turaccioli di sughero, pezzetti di legno), che evocano genialmente figure e animaletti: i disarmanti giocattolini presenti in mostra, sono doni natalizi costruiti da un Calder undicenne per i genitori, nel 1901. In realtà viene incoraggiato ad un’ attività creativa manuale proprio dalla famiglia, consapevole dell’importanza psicologica e artistica di una competenza manuale. Dopo molti viaggi a Parigi, dove stabilisce rapporti d’amicizia con Leger, Duchamp, Mirò e Mondrian che segneranno profondamente la sua esperienza artistica, vi si trasferisce nel 1926. Le opere presenti in mostra risalenti a quel periodo, sono di una genialità impressionante, come nate sotto un’influsso emotivo straripante e di autentica architettura cubista, a partire dalle sculture in fil di ferro come “Ercole e il leone” o il piccolo ”Elefante”. I primi schizzi di animali, colti in atteggiamenti del tutto fuori repertorio (Un gallo) tradiscono da subito un’originalità di composizione che deriva dal suo consolidato talento nel cogliere proprio il movimento: lo sguardo a posteriori consente di leggere agilmente ciò che diventerà la sua peculiarità artistica. Fu Duchamp ad attribuire, nel ’30, la definizione “mobile” alle sculture cinetiche di Calder, mentre il tratto di Mirò è visibile nelle rare gouaches in mostra e in molti dei mobiles presenti, definiti da Sartre “ piccole feste private” o anche “motivi jazz, unici ed effimeri”: ma le stesse forme di Mondrian colpiscono il genio creativo del giovane Alexander, il quale quasi “le tira fuori dal quadro, le scolpisce e costruisce un sistema di ingranaggi a motore, mettendo così in movimento l’arte astratta una volta per sempre”.
La rassegna romana, che ricostruisce le tappe fondamentali del percorso artistico di Calder, inclusi piccoli bronzi del ’30 (i primi due un vero incanto) , stabiles (sculture da terra così chiamate da Hans Arp) e opere monumentali, è curata dal nipote dell’artista Alexander S.C. Rower, presidente della Fondazione Calder di New York: “ Assimilando proprietà subliminali come la gravità, l’equilibrio e lo spazio negativo, le sculture di Calder creano una nuova esperienza dell’oggetto e dell’ambiente. Questa mostra è un invito a partecipare a questa esperienza viscerale, ad entrare profondamente nella straordinaria padronanza dell’ energia e dello spazio che contraddistingueva mio nonno.” Ma non mancano le foto di Ugo Mulas a documentare spaccati di vita dello scultore, nei suoi studi parigini, magnifici e disordinati, in compagnia della moglie Louise, nipote di Henry James, o anche in prossimità dei suoi mobiles monumentali, come il “Teodelapio” della stazione di Spoleto, essenziale, suggestiva icona dell’omonimo duca longobardo del 604.
E se resta sensazionale in apertura espositiva l’ enorme mobile (8 metri di diametro) dell’aeroporto di Pittsbourg, sospeso sulla testa dei visitatori, per nessuna ragione va trascurato il filmato di squisita confezione che, al piano superiore, li intrattiene sulla biografia e le opere dello scultore, scomparso a New York nel 1976. Manca solo l’opera teatrale e lirica “Work in progress” che Massimo Bogianckino volle nel 1968 per l’Opera di Roma e per la quale Calder non si limitò a disegnare le scene, scegliendo anche le musiche.
Lele Luzzati
Se di Calder manca proprio il documento sull’attività teatrale, di Luzzati possediamo invece (oltre alle numerose opere d’arredo per ambienti navali e pubblici), qualcosa come cinquecento scenografie per prosa, lirica e danza, destinate all’Italia e all’estero, più d’un film d’animazione e svariati libri per l’infanzia: scenografo e costumista, illustratore e scrittore, ceramista e decoratore, autore di cinema d’animazione e di teatro, realizza nel corso della sua vita un numero sterminato di esperienze e manufatti.
Nato nel 1921 a Genova, si trasferisce a Losanna nel 1940 a causa delle leggi razziali. E’ in questa città che si diploma all’Ecole des Beaux Arts, stringendo con altri rifugiati, artisticamente versatili, un primo, importante, sodalizio destinato a resistere per tutta la vita: Alessandro Fersen, Aldo Trionfo e Guido Lopez.
Cinque anni dopo torna in Italia, dove con Fersen progetta l’apertura di un teatro ebraico e rappresenta la “Lea Lebowitz”, che gli varrà l’apertura delle porte del teatro ufficiale. Dal ’49 al ’53 pone le basi della sua molteplice attività, collaborando con il giornalino L’Israel dei bambini (sul quale appaiono le Avventure dell’Asino Goz) e partecipando a messe in scena di Vittorio Gassman, Fersen, Corrado Pavolini e Matteo Maria Giulini, i quali ultimi lo coinvolgono nell’impianto della loro Diavolessa per la Biennale di Venezia al Teatro La Fenice); contemporaneamente, iniziata ad Albisola l’attività di ceramista, realizza un pannello per la stanza dei bambini della nave Andrea Doria. Sarà il primo di molti contributi d’arredo per le navi Marco Polo, Leonardo da Vinci, Michelangelo, in collaborazione con gli architetti Pulitzer e Zoncada. Nel decennio che segue vince a Cannes il primo premio per la ceramica, espone insieme a Lucio Fontana e Aligi Sassu, pubblica per l’Age d’or di Achille Perilli la prima cartella di litografie (Viaggio alla città di Safed) e realizza con Giulio Gianini I Paladini di Francia: primo film animato che diventerà anche il suo primo libro, pubblicato dall’editore Mursia. E insieme a Gianini pochissimi anni dopo crea i formidabili e indimenticati titoli di testa per l’Armata Brancaleone di Mario Monicelli. Le successive opere d’animazione, La gazza ladra e Pulcinella, ottengono entrambe la nomination all’Oscar e Luzzati viene nominato negli anni novanta membro dell’AGI (Alleance Graphique Intenationale) e dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, mentre l’Università di Genova gli conferisce una laurea in architettura honoris causa e il Centre Pompidou di Parigi allestisce una mostra in suo onore, a cura dell’Unione Teatri d’Europa, che si sposterà a Roma, Firenze, Bellinzona, Milano, Salonicco.
Inizia intanto la collaborazione con il Teatro alla Scala di Milano e il lungo sodalizio con Franco Enriquez, con il quale fonda la Compagnia dei Quattro, insiema a Valeria Moriconi e Glauco Mauri. E’ ancora la volta del Premio San Genesio per il Teatro, e dell’impegno nel campo della Lirica, attraverso la messa in scena di opere di Verdi, Rossini, Mozart. Nel 1976 da vita al teatro della Tosse di Genova, insieme a Tonino Conte, Aldo Trionfo, Rita Cirio. Nello stesso anno vede la luce l’adorabile pubblicazione “Dodici Cenerentole in cerca d’autore”, su testi di Rita Cirio e nello stile “a la maniere de”, che diventerà uno spettacolo diretto da Filippo Crivelli. Nel 1988 illustra per le Edizioni Olivetti le Fiabe scelte dei Fratelli Grimm e in seguito, per le Edizioni Nuages, Candido, Pinocchio, Alice nel Paese delle Meraviglie, Decamerone e Peter Pan. Il primo e unico spettacolo interamente scritto e illustrato per il teatro è del 1990. Si tratta di “La mia scena è un bosco” e lo stesso Luzzati, che pure ama nel tratto ispirarsi a Chagall, si esprime al riguardo in un modo che ricorda intensamente Rauschemberg, Andersen, Carrol e un certo Magritte: “al posto degli alberi ci sono vecchi mobili raccattati da tutti i robivecchi d’Italia, pile di sedie, armadi accatastati uno sull’altro, vecchi banchi di scuola, comodini da notte, spalliere di letti, perfino vecchie auto rovesciate…un raggio di luna illumina l’anta di un armadio che si apre lentamente al suono di un carillon e appare Papageno: agita i suoi campanellini e da sotto le sedie, da sotto i banchi, escono a quattro zampe, piano, piano, tutti gli altri personaggi: Tamino, Puck, la Donna serpente, Calibano, il Mostro Turchino, Drosselmeyer, Pamina, Paragone,Truffaldino e tutti gli altri…” Finalmente per il Comune di Torino, nel 1997, allestisce in Piazza Carlo Felice un grande Presepio nel quale mescola, ai personaggi tradizionali, le figure delle favole più conosciute. La Fondazione Cinema per Roma dedica questo Natale a Emanuele Luzzati, con un vero e proprio Festival, intitolato “Fantasie”, in programma all’Auditorium Parco della Musica. Dal foyer alle aree espositive sono in mostra bozzetti, disegni, litografie scenografie che riguardano tre momenti del modo artistico di Luzzati: gli esordi sopra indicati nella sala Auditorium arte ( Candide, Viaggio nella città di Safed, I Paladini di Francia, tavole inedite per le Fiabe di Calvino, le prime ceramiche di Anguissola) il cinema d’animazione nel Foyer Sinopoli (all’interno della scenografia del bosco si trovano i disegni originali ispirati alle sinfonie di Rossini e Mozart per La gazza ladra e Pulcinella, con i disegni per le pubblicazioni sulle fiabe) e il teatro ancora nella sala Auditorium arte (Tre pannelli polimaterici intitolati “C’era una volta il teatro”, tra i quali anche “La carriera di un libertino”, esposto alla Biennale di Venezia del ’72 e bozzetti e figurini del Golem che riprendono il ghetto della vecchia Praga). Altre scenografie sono esposte nel Teatro dell’Auditorium e finalmente nella Cavea il famoso Presepe di Torino accoglie bimbi e adulti con l’incanto di un’opera “legata alla ritualità cristiana, ma raccontata da un’ uomo di religione ebraica”, in un mondo personalissimo “in cui personaggi classici e religiosi convivono insieme a quelli delle fiabe”.
Roberto Capucci
In uno dei più prestigiosi manieri d’Europa, il Castello Odescalchi di Bracciano, sono esposti fino a parte di gennaio, bozzetti e manufatti scaturiti dalle straordinarie ricerche estetiche di un artista indipendente e geniale, come Roberto Capucci. L’affascinante retrospettiva, all’altezza del difficile titolo di “Sovrana Eleganza”, approda a Bracciano dopo aver affrontato Palazzo Strozzi a Firenze, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Museo Fortuny di Venezia, il Victoria and Albert Museum di Londra ed è stata personalmente curata dal “grande scultore dell’haute couture made in Italy”. I sessantasei abiti-scultura e i 25 figurini di costumi teatrali inediti, distribuiti all’interno dei saloni rinascimentali, rappresentano una selezione di abiti umanamente definibili solo con attributi vicini al “meraviglioso” o all’”incredibile”, quanto a facoltà creativa e sapienza artigianale. Trattasi in realtà di oggetti da fiaba. Abiti “arancia” , “nuvola” o “fiore” o “farfalla” che come le arance aprono e chiudono a sezioni-spicchio le gonne a palloncino, come nuvole sovrappongono strati e strati di sete colorate di infinite diverse nouances appositamente inventate, come fiori colorati perdono o vedono spuntare parti nuove di sé. Nei fatti Capucci “ lavora il tessuto come fa lo scultore con il marmo e colora le stoffe come fa un pittore con la sua tela”. Ma si tratta di una di quelle rare situazioni in cui occorre vedere per credere. Non a caso dopo gli studi al liceo artistico, si distinse nella scultura all’Accademia di Belle Arti, con Marino Mazzacurati. E a soli 19 anni fondò la prima casa di moda, per ottenere nel’57 l’Oscar della Moda per la sua Linea a scatola, aprendo negli anni ’60 il suo secondo atelier a Parigi……
Appassionato ricercatore, collabora pochissimo con lo spettacolo nonostante le numerose e ingenti proposte….tanto da far dire a Ronconi: “Se quei disegni arrivassero, realizzati in palcoscenico, credo che il pubblico dovrebbe dire di essere stato toccato raramente - o forse mai- da un simile incanto, una fascinazione così inquietante e sottile, magari talvolta anche leggermente perversa, come quella che proviene da ciò che hai disegnato”.
E misteriosi restano i 25 disegni inediti di costumi teatrali, che sembrano alludere, chissà, ai costumi teatrali disegnati da Giacomo Balla. Disegni così belli e sconosciuti, da riuscire a colpire la fantasia di un altro esigentissimo studioso della forma, com’era Carmelo Bene, che li mise in scena, in fac-simile, nella prima edizione della sua Cena delle beffe.
Tre amabili giganti
- Scritto da Daniela Pandolfi