Il Teatro della Gioventù TKC, sulla scia della sua rivisitazione del miglior teatro europeo ed anglosassone del '900, tenta la nuova strada del dramma con questo testo, reso famoso dal film omonimo sceneggiato dallo stesso drammaturgo, dell'inglese Patrick Marber, proposto in una fascia oraria inusuale, premio spero alla continua sperimentazione
della compagnia di Massimo Chiesa, quella delle 19, talora in abbinamento al successivo spettacolo delle 21.
Drammaturgia aspra, a volte cattiva, quella del giovane londinese, in una lingua dalle cadenze secche che la traduzione di Ivan Cotroneo pare valorizzare, ma che non contraddice lo spirito del cartellone genovese, anzi lo integra mantenendo intatto l'interesse di un pubblico nuovo, anche lontano dal teatro tradizionale, che sembra rispondere alle migliori aspettative e che mostra di gradire anche 'oltre' la commedia.
È un gioco di coppie e di reciproci rispecchiamenti e disvelamenti, in cui il disconoscimento dell'altro è l'ultima risorsa per recuperare un senso di sé al di là della semplice contingenza esistenziale, un gioco che ricorda lo Shakespeare del 'sogno' a partire dal numero dei protagonisti che si inseguono senza mai raggiungersi e senza mai raggiungere sé stessi.
Un gioco però privato della 'copertura' onirica ed ironica del classico, di quell'essere e andare in un altro mondo, il 'bosco', per poi ritornare alla vita rielaborando la propria essenza. Non vi è qui copertura alcuna in un mondo che pare senza alternative, dominato dalla virtualità ed in cui l'amore non si riconosce al di là del sesso e della prestazione.
Quasi ossessivo ne risulta il richiamo, la richiesta di conferma che sostituisce l'essere 'bravo' con l'esistere e l'essere, nel continuo rincorrersi ed abbandonarsi, sostituire e sostituirsi di quattro giovani il cui unico filo rosso, l'unico orizzonte, pare essere la morte (Dan è un giornalista di necrologi per il quale il necrologio ricostruisce la vita, rifondandola post mortem) ed un piccolo cimitero di eroi quotidiani, e per i quali l'assenza è fondamento identitario.
Costruita per quadri rapidi e in fondo cinematografici dalla bella regia di Massimo Chiesa, la scrittura scenica, amalgamata dalle belle musiche che accompagnano i cambi di scenografia, ben asseconda la scrittura drammaturgica, dandole profondità psicologica e vicinanza esistenziale.
È dunque ed in fondo una narrazione, se vogliamo molto poco generazionale, di perdita in cui i quattro protagonisti sembrano riconoscersi solo al momento della fuga e dell'abbandono, e chiusa significativamente dalla morte di Alice, la più giovane e fragile, l'unica forse confidente con i suoi sentimenti.
Il raggiungere è un abbandonare ed in questo l'amore si dissolve, ed è ancora un richiamo al bardo del già citato sogno che voglio riproporre:
“Prima di mirare gli occhi di Ermia
Demetrio grandinava giuramenti
d'esser soltanto mio. E quando
la grandine sentì il calore d'Ermia,
tutto si sciolse e giù precipitarono i suoi voti.”
In scena quattro giovani e bravi attori, dalle esperienze diverse, Daniela Camera (Alice), Elisabetta Fusari (Anna), Daniele Pitari (Larry) e Luca Sannino (Dan) che si muovono con disinvoltura e sapienza nella bella scenografia di Laura Paola Borrello e tra le luci, a volte figurative, di Danilo Raja.
Un bello spettacolo, che certamente premierà la compagnia e cui un pubblico che man mano va abituandosi allo strano orario ha tributato una buona accoglienza.
Foto Filippo Torello Rovereto