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A primo acchito il titolo di questo spettacolo suona come un dolce nome di donna. E dolce appare il sottofondo sonoro di questo lavoro, quello del mare. MARI dunque, parola che ai più ricorda una donna, è in realtà la trasposizione in dialetto siciliano della parola “Mare”. “U mari”,  sulla cui riva ci portano Tino Caspanello e Cinzia Muscolino,  è quello del testo che ha ricevuto nel 2003 il Premio speciale della giuria al Premio Riccione. La drammaturgia di Caspanello, insieme alla Muscolino e ad altri attori, è sempre pluripremiata. Ricordiamo MALASTRADA per esempio, e anche lì  il sottofondo sonoro è notevolmente presente. Ma se in questo testo, osservato e apprezzato durante la scorsa stagione, è il presunto ponte di Messina ad echeggiare nella nera notte siciliana, con riferimenti che vanno dall’ambientalismo al concetto di partenza e distacco, stavolta è il mare stesso, registrato davvero a Punta Faro, quella più estrema della costa messinese, ad essere costante nelle nostre orecchie. Drammaturgia del “non confine”, se così possiamo azzardare, lo spettacolo di Caspanello, che ne è anche interprete, non ha definizioni e caratterizzazioni specifiche,  né geografiche, né umane. Non fatevi ingannare dalla lingua siciliana, fonte originaria di questi testi e tappeto sonoro su cui si poggiano i concetti universali di questa drammaturgia. Il dialetto non dà confine, né limite linguistico: si parla il messinese. Dialetto quasi “atonico” che si differenzia dal catanese, ascendente e “saltellante”, e dal palermitano, discendente e drammatico, così come amano sottolineare divertiti i due attori. Ma non esiste confine neanche visivo. La rassegna IL TEATRO CERCA CASA ambienta la profondità di questo testo all’interno di appartamenti napoletani: tre repliche, 10-11-13 gennaio, tre sold out. Come si fa ad adattare un testo di “non-confine” in uno spazio ristretto d’appartamento? Qui sta la magia. Un telo nero è cielo, ma è anche terra e mare: allora dove sta il confine? Nelle nere notti sulla “rina” ( sabbia), che siano isolane o di costa continentale, lo sciabordio del mare è l’unico segno sonoro del confine terra-acqua. Il confine non visibile viene invece profondamente evidenziato, come un taglio netto, nel rapporto tra i due personaggi: marito e moglie, senza nome ed età. Modelli universali in cui il campanilismo regionale è un errore di lettura. Il buio del non confine “cielo-mare-terra” è lo sfondo del loro rapporto, non distrutto, ma sopito. Come se il lumicino da pescatore acceso sulla spiaggia sia ancora la fiamma di ardore non spenta, così come il rosso delle scarpe e del golfino della protagonista siano il magma pronto a sgorgare. Donna, atavica portatrice del cambiamento. Qualcosa pulsa ancora. Non parliamo di rapporto coniugale ma bensì di incomunicabilità, o meglio, di comunicazione “rattrappita”. Bisogna davvero parlare attraverso le parole per comprendersi e far comprendere? Il tira e molla tra troppe parole e silenzio assoluto non trova, tra i due personaggi simbolo, un mescolamento equilibrato. Due palle da biliardo che rimbalzano, cozzano, si allontanano, si riavvicinano, così come quel filo da pesca tirato, teso, attorcigliato di nuovo, ma immerso sempre nel mare. “Pigghia e lassa” ( prendi e lascia), come si dice in siciliano.  Ed è proprio Lui, che qui vorremmo personificare, perché questo testo sarebbe incompleto senza il terzo protagonista, u mari, che fonde e scioglie l’incomunicabilità. I due personaggi si incontrano nello sguardo e nel contatto con l’acqua,  immergendo le loro mani in un punto della riva, quella oscura, invisibile ma rumorosa, dove due realtà senza confine si incontrano, così come si incontrano terra e mare. Un “battesimo” simbolico, nel profondo significato che ha l’acqua e la spiaggia nella cultura di origine del drammaturgo. Non si parla di Sicilia ma di profonda liricità mescolata a temi universali. La scelta di un dialetto arido, senza coloriture, con una ripetizione ossessiva di parole, semplici e scarne, spezzettate, è la tecnica visiva e sonora attraverso cui la parola diventa personaggio: la velocità della quotidianità viene rallentata fino a diventare, a tratti, momenti di silenzio nero e profondo. La ritmica recitativa, infatti, coglie accelerazioni improvvise nel momento in cui i due protagonisti sembrano incrociarsi e sfiorarsi, per poi decadere nel rallentamento del silenzio. Gli attori sottolineano, in una piccola conversazione post spettacolo, che questa Sicilia diffusa secondo cliché banali e ormai sorpassati, qui non ha motivo di essere messa in scena. Non si porta la cultura siciliana davanti al pubblico, nonostante l’origine sia quella, ma si portano dei concetti intimi ed universali allo stesso tempo, attraverso una lingua altra. La lingua siciliana, che per la sua caratterizzazione di koinè linguistica tende ad essere confinata entro limiti geografici, qui viene utilizzata nella sua purezza più scarna proprio perché deve essere compresa ovunque. Non soffermiamoci sulla parola siciliana ma piuttosto sul concetto e sul modo di dire siciliano che diventa insegnamento antico e universale. Il mare, dunque, rappresenta un luogo di “non confine”, anche per questa lingua: il senso  profondo del “mare-pubblico” che attraverso l’acqua comunica e assorbe, lega e fonde ma soprattutto diffonde. ( foto di Cesare Abbate)

"Mari"
Teatro Pubblico incanto
drammaturgia di Tino Caspanello
con Tino Caspanello e Cinzia Muscolino
Premio speciale della Giuria – Premio Riccione 2003
con  Cinzia Muscolino e Tino Caspanello
costumi: Cinzia Muscolino
elaborazione del suono: Giovanni Renzo
scena e regia: Tino Caspanello