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Ci sono spettacoli che in apparenza hanno tutto, ma proprio tutto (testo importante e ben congegnato, regia, attori, scenografie, scelta di musiche) per poter funzionare eppure non funzionano, o non funzionano fino in fondo. Parliamo dello spettacolo che s’è visto il 12 dicembre scorso agli “Studios” di Viagrande in provincia di Catania, ovvero “Lo sfascio”: testo di Gianni Clementi, che firma la regia insieme con Saverio Di Biagio; in scena ci sono Nicolas Vaporidis (Diecilire, ovvero un giovane tossico di borgata che vive di espedienti), Alessio Di Clemente (Fosco, amante della bella vita e fedifrago), Augusto Fornari (Manlio, handicappato e puerile nella sua sostanziale estraneità al degrado che lo circonda), Riccardo De Filippis (il poliziotto Ugo) e Jennifer Mischiati (nei tre ruoli femminili della moglie umiliata e tradita, dell’amante frivola e occasionale e della terrorista in coma); le scene iperrealistiche sono di Carmelo Giammello, le musiche sono curate da Davide Cavuti, i costumi da Andrea Stanisci. Già il titolo esprime quasi tutto di quel che andrà in scena: l’ambientazione (uno sfasciacarrozze della periferia degradata di Roma), il taglio linguistico (spiccatamente romanesco con una compulsiva tendenza al vuoto turpiloquio), il risvolto di senso legato alla lettura di un periodo cupo della storia italiana, gli anni settanta, in cui si intravedono in nuce,  le prime avvisaglie di un degrado, di uno “sfascio” appunto, culturale, morale e politico che probabilmente anticipa molti dei mali che il nostro paese di trova ad affrontare oggi. Il congegno drammaturgico gira intorno alla realizzazione di una rapina ad una gioielleria (proposta e quasi imposta dal poliziotto che si trova a dover pagare un grosso debito di gioco) e scatta quando il terzetto di rapinatori si ritrova in casa, vestita da hostess, una misteriosa donna (probabilmente una terrorista in fuga) già in coma. L’unico spiraglio di positività è proprio legato alla figura di Manlio che, col suo innocente candore, trasforma in speranza la violenza da cui è circondato e a cui egli stesso, tragicamente, finisce col partecipare. Perché allora questo spettacolo non convince del tutto? Perché troppo, e troppo da vicino, segue movenze, modalità interpretative, ritmi e luoghi comuni di film per la televisione - più o meno recenti e che non val la pena di citare perché ben noti -, mentre tralascia di approfondire e di sottolineare proprio il cuore teatrale e tragico della vicenda, ovvero il gesto violento, seppur innocente (e persino amoroso), di Manlio. Un gesto che ha, e avrebbe avuto valore, respiro poetico e senso teatrale in sé, anche indipendentemente dall’ulteriore esito positivo che comporta.