Con toni pacati, la voce quasi un sussurro, César Brie, racconta (in un monologo di cui è anche autore) il massacro avvenuto l’11 settembre del 2008, sulle rive del fiume Tahuamanu, a Porvenir, villaggio nel Pando, regione amazzonica boliviana. Tredici morti, decine di scomparsi e centinaia di feriti. I tentativi di redistribuzione delle terre da parte
dell’attuale presidente Evo Morales, hanno scatenato una fortissima contrapposizione civile nel paese, esplosa nel massacro dei campesinos. César Brie, si fa portavoce di quegli uomini, di quelle donne di quei bambini, a cui anche dopo la morte è stata negata la parola. Sulle dinamiche di quel giorno Brie ha indagato, cercando di capire, cercando di conoscere, tra testimonianze incoerenti, falsi referti medici, autopsie occultate o volutamente imprecise. Ne è scaturito uno spettacolo e un documentario che è costato a Brie e alla sua famiglia, intimidazioni e minacce di morte dagli attivisti di destra, ma pure la perdita dell’appoggio del governo, di cui Brie non ha esitato a denunciare le responsabilità.
La regia assume le forme di un lavoro artigianale, con semplicità ed essenzialità si narrano fatti drammatici. La verità è sospesa, difficile da raggiungere, si è preferito ignorare, e così gli oggetti di scena pendono dall’alto: ciotole, vestiti, cibi, simboli di un popolo a cui non è stata data ancora giustizia. L’impianto scenico si presenta così, mobile, etereo, quasi inafferrabile come la verità su questa drammatica vicenda. Luci, ombre, chiaroscuri, forme, si articolano fra vuoti e pieni per evocare atmosfere che ogni spettatore può collegare, interpretare in base alla sua percezione. Gli oggetti scenici assumono un valore simbolico, la recitazione impalpabile, svaporata quasi come in un sogno ci aiuta a comprendere una verità negata. Un perimetro di foglie secche delimita lo spazio scenico e Brie, a piedi scalzi, in prima persona, narra i fatti, i presupposti socio-politici dello scontro civile. Sul palcoscenico a sinistra e a destra alcune panchine, gli spettatori possono sedere anche lì e come in una assemblea pubblica a poco a poco entrano in contatto con quella realtà sospesa, celata. Meglio non sapere, qualcuno avrebbe preferito così. Brie alterna lo sguardo del narratore a quello dei personaggi, sottolineando i fraseggi con cunei di luci, (curati da Marco Buldrassi) musiche, silenzi. Le suggestive musiche di Manuel Estrada e Pablo Brie, orientano l’immaginario dello spettatore, la sua percezione. Gli spettatori si trovano in una dimensione onirica che restituisce umanità a quelle vittime dimenticate, che hanno perso la vita per reclamare un loro diritto. La loro vita in pochi gesti: uno straccio rosso agitato in una danza sensuale per evocare un uomo che, morto quel giorno, canta la sua passione per le donne, il volto carico di dignità di una madre che reclama il corpo del figlio, l’acqua sul viso spruzzata anche a terra, ai piedi degli spettatori, per cancellare il sangue della violenza. Una poetica senza eccessi, una visone che illumina e sviluppa la vicenda al meglio. César Brie con gli occhi di luce, ancora una volta, ci ricorda che chi sta zitto, non è muto.
Milano, Campo Teatrale, 16 gennaio 2014