Stupri, pedofilia, abusi, soprusi, menagement violento, mobbing, delusioni, frustrazioni, esclusioni, aggressioni, discriminazioni di ogni genere – chi più ne ha più ne metta - sono fatti all’ordine del giorno delle cronache giornalistiche. Si tratta di eventi che producono disagio, stress, disturbi della personalità, depressioni, traumi, patologie del corpo e della mente (corpo/mente, perché anche la mente è corpo) che lasciano segni indelebili e in alcuni casi sono causa di morte violenta o di suicidio - realizzato o immaginato -, come nel caso di France Telecom, che ha messo in atto una sciagurata gestione del personale provocando in un anno e mezzo diciotto suicidi e alcuni tentati suicidi. Dato il complesso degli eventi: una tragedia umana. Un problema gigantesco, risolvibile con una rivoluzione copernicana.
L’autorità trasformata in autoritarismo, il piacere sostituito dall’edonismo, lo sviluppo sociale non coincidente con un reale progresso umano sono fattori ricorrenti in ogni ambiente della comunità organizzata. Si va sulla carraia della quantità dei numeri (vendite, fatturato, ricchezza, successo) e dei comportamenti aggressivi che si trasformano in una qualità di vita inaccettabile. La quantità si trasforma in una qualità che nega gli uomini come creature umane che, oltre ad un corpo, hanno un’anima. Un corpo e un’anima da curare e da salvaguardare. Quanti sono gli imprenditori che considerano i loro lavoratori un capitale prezioso da conservare, necessario alla prosperità aziendale? Quante sono le famiglie in cui l’esercizio dell’autorità paterna e/o materna genera comportamenti che favoriscono la crescita armoniosa e lo sviluppo fiorente delle personalità infantili o giovanili? Quante sono le scuole che hanno insegnanti che sono anche e soprattutto educatori? E quanti sono i politici che conoscono la dualità della natura e della cultura umana? Non riescono a farci riempire la pancia, figuriamoci se possono pensare alla parte immateriale della nostra vita terrena! Rincorrono i problemi, invece di prevenirli e non riescono ad orientare i provvedimenti a beneficio del popolo degli individui che li ha delegati a tenere in doverosa considerazione la loro vita materiale e immateriale. Parlano, promettono e mentono come cattivi attori. Non sono credibili. E, nonostante la reiterata retorica della “questione morale”, se non sono corrotti, diventano corruttori. Solo il Papa, di tanto in tanto, si occupa dell’anima, ma lo fa sul versante metafisico-religioso, non su quello antropologico che è fatto di atteggiamenti mentali e di comportamenti sociali.
Sul versante delle patologie del corpo – determinate da variegate e tragiche disattenzioni - vorrei fare un ragionamento, applicandolo alla sfera specifica della creazione artistica, meglio della formazione incentrata sull’atto totale dell’attore che prende in esame la parte materiale e immateriale dell’essere un umano, assunto nella sua interezza, e che può essere preventivato dal drammaturgo nel fase della scrittura del testo in una prospettiva di “collaborazione” tra scrittura drammaturgica e scrittura scenica. La gravità e la visibilità sensibile delle patologie sono direttamente proporzionali alla intensità dell’offesa ricevuta e si manifestano nel precipizio della carne con la frantumazione del corpo, la perdita della unitarietà corpo/mente e la mancata accensione delle pareti interne del corpo attraverso il lavoro sulle azioni fisiche e l’autogestione dei processi organici, fino all’opoteosi del corpo glorioso.
Viviamo insomma in una società materialistica e violenta. C’è poca anima, poca solidarietà, poca filia. Molti valori non sono fattualmente condivisi. Le persone, in larga misura, soffrono. Sono umiliate, ignorate, deluse, ferite nel corpo e nell’anima. E, si sa, quando l’anima soffre, anche il corpo soffre. E quando l’anima muore anche il corpo muore. Una parte delle persone umiliate e offese sopportano e reagiscono. Altre, se non cadono come corpi morti che cadono, muoiono nell’anima, perdendo tono ed energia. Allora il corpo/mente si ammala, produce patologie che rappresentano un problema sociale, ma che sono il problema, il vero grande problema dei giovani che – in teatro - intendono avviare un efficace percorso formativo. In questo ambito c’è una regola fondamentale: se non domini il corpo, il corpo ti domina e t’impedisce di fare quello che sarebbe utile fare. Da amico il corpo diventa nemico.
In occasione dei numerosi provini che ho fatto per la definizione di cast artistici e nell’ambito dell’attività decennale svolta nella Scuola d’Arte, quanti giovani ho visto con il corpo spezzato, segmentato, diviso, che sfuggiva al controllo della mente a causa delle “perdite” verificatesi evidentemente nel corso dell’infanzia o della giovinezza e determinate dal “male di vivere”. Traumi, umiliazioni e sofferenze di ogni genere, fisiche e metafisiche, provocano danni a volte insuperabili. La gestione e il controllo della vita extra-quotidiana, rappresentata dalla creazione artistica e suffragata, come ho accennato, dall’atto totale dell’attore, risulta di conseguenza estremamente difficile, se non addirittura impossibile.
Sulle resistenze psico-fisiche Grotowski ha detto parole estremamente chiare e ha dimostrato, dopo il 1961, con la prassi delle azioni fisiche e con la scoperta del movimento della creazione artistica dalla cosa al come (non viceversa) quanto sia importante, e lungo, e duro il lavoro per liberarsene e per divenire nel tempo persone capaci di plasmare l’energia vitale nelle forme di una vigorosa, credibile e seducente espressione artistica. Solo un corpo liberato da quelle resistenze è nella condizione di autogestire i processi organici e la produzione delle forme organiche.
Ed è a questo attore che penso, come molti altri drammaturghi, per realizzare la citata collaborazione tra testo e scena senza soggiacere all’ansia di vittoria che vedrebbe l’uno prevalere sull’altra. Un attore, la cui figura e le cui abilità artistiche possono essere messe nel preventivo della scrittura drammaturgica perché risulti – assieme allo spettatore - al centro della scrittura scenica come una delle tecniche fondamentali del fare teatro. Un attore, dotato di capacità particolari, funzionali alla realizzazione di un determinato genere di teatro o di un genere che va al di là dei generi perché ne comprende più di uno e che chiamo teatro d’arte.
In modo assolutamente inconcludente aggiungo una riflessione che è schematica, data l’estrema sintesi. Riguarda la formazione professionale, attorno alla quale – altro che aprire generiche scuole di teatro in ogni Comune d’Italia! – andrebbe fatto un ragionamento critico, severo, sulle modalità di realizzazione e sulle finalità di carattere generale. Penso che i teatri possibili non abbiano bisogno di attori, registi o drammaturghi, ma di uomini. Invece di formare gli artisti, bisognerebbe formare gli uomini. Ma questo è un altro discorso che non può essere fatto in questa sede.
Le patologie del corpo/mente
- Scritto da Alfio Petrini