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È un’interrogazione di metodo centrale ed è un percorso di senso e di crescita artistica attraverso il quale, prima o poi, gli artisti della scena si trovano a passare: si può creare uno spettacolo teatrale o, persino, di danza - riassumiamo così – a partire da un romanzo e comunque da una narrazione? Si può trasformare in azione, in evento scenico, il respiro narrativo di un’opera letteraria, senza da una parte snaturare il senso profondo della narrazione (e la sua stessa ragion d’essere nel contesto di una tradizione d’arte) e, d’altra parte, dar vita ad un’altra opera che non può che essere artisticamente inerte e/o inerme? Non si tratta di una domanda di secondaria importanza, vista la massa di operazioni drammaturgiche e teatrali che tuttora vengono continuamente elaborate a partire da romanzi e da narrazioni. E non ci pare che, complessivamente, la risposta possa essere positiva: proprio il respiro narrativo delle opere a cui ci si ispira porta con se, infatti, una riflessione sul significato interno del tempo e quasi una sua originale reinvenzione, laddove invece è nella concretezza stessa del tempo vissuto dagli artisti insieme col pubblico che si colloca l’evento teatrale.
Si tratta di riflessioni, generali certo, tramite le quali è tuttavia possibile provare a esprimere il valore profondo di “Infinitamente piccolo” lo spettacolo di teatro-danza che s’è visto il 7 e l’8 febbraio scorsi nel teatro “Lo Presti” di Lentini, portato in scena da Salvo Romania (danzatore e attore da solo in scena), per la regia di Laura Odierna (produzione Petranura danza) e ispirato alla tragica esperienza, umana prima e oltre che letteraria, dei milioni di ebrei europei che subirono la follia nazista della Shoah e in particolare di Primo Levi così come ebbe a raccontarla dopo in “Se questo è un uomo” “La tregua”. Particolarmente interessante ed efficace nell’economia di questo spettacolo - occorre evidenziarlo - è inoltre lo straordinario lavoro dal vivo dei tre musicisti, Salvo Amore, Stefano Cardillo e Michele Conti che, più che far da contrappunto musicale alla costruzione scenica (recitazione, movimento, danza, scenografia, oggetti di scena, inserti video), concede allo spettacolo profondità, varietà di colori e atmosfere, respiro e prospettiva.
Ma si diceva della difficoltà di portare in scena una narrazione e della positività in tal senso di questa operazione di Odierna e Romania: qual è il campo e il mezzo in cui e con cui questi artisti riescono a superare questa difficoltà e a sintetizzare in uno spettacolo il senso della grande esperienza di Primo Levi? Ovviamente il corpo, il corpo nel suo dinamismo emotivo, nella sua densità concettuale, perché ciò che restituisce questo spettacolo non è una rammemorazione razionale, per quanto partecipe, dell’immane ed infame tragedia di Auschwitz, né - fortunatamente - una celebrazione politicamente corretta del dolore degli ebrei ma, quasi attraverso una torsione lirica e simbolica, il tentativo di recuperare il senso del dolore che ha segnato i corpi e, con essi, la memoria e la cultura (sì, anche la cultura) di milioni di persone. E non c’è da stupirsi che a tale esito possa e sappia giungere proprio un ensemble di teatro-danza, laddove, al contrario, proprio i momenti della recitazione, pur ben congegnati e densi di senso e consapevolezza teatrale, sono quelli più problematici e meno convincenti dello spettacolo.