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In prima nazionale alla sala Campana del teatro della Tosse di Genova, dal 25 marzo al 6 aprile, questa drammaturgia della svizzera Emanuelle Delle Piane, tradotta dall'autrice insieme a Marco Cappelletti, che analizza in profondità uno dei paradossi della nostra contemporaneità,

quella dell'oblio della morte, della sua scomparsa dall'orizzonte e come orizzonte della vita, infine della sua perdita di senso che è causa ed effetto, in una reciproca gerarchia non definibile, della perdita di senso della vita stessa.
La morte è dunque l'eterodossa protagonista di nove drammetti, o quadri dalla sintassi latamente surrealista o grottesca, dai protagonisti senza nome, una morte diventata evento occasionale, marcatamente economico nel suo accadere, la cui intrinseca e seducente inevitabilità è declinata in contingenza e così allontanata ed abbandonata all'occasionalità.
Un oggetto di chiacchiera e di negoziazione da cui trarre più o meno vantaggio, un oggetto di cui lo spettacolo squaderna in un  certo senso l'assurdità.
Dalla piètas indifferente di una coppia altrove imprigionata, ad aspiranti suicidi sempre rimandati, ad apparizioni misteriose indaffarate intorno all'estetica delle esequie, alla difficoltà a gestire una relazione affettiva sulla soglia della morte, fino al rigetto del cadavere come altro da noi e portatore di angoscia. Il segno pertanto di una solitudine profonda ed incomunicabile che ci circonda, e che ricorda un recente film che sempre intorno alla morte e al suo rapporto, significante ed escatologico, con la vita ruota, quello “Still Life” di Uberto Pasolini.
Un testo complesso, dunque, che rappresenta e intercetta l'evoluzione del nostro immaginario, ormai indotto, rispetto alla morte, dallo stupore e il riso di un Moliére di fronte alla commedia dell'arte che ci rende confidenti con la morte stessa, alla indecifrabilità del Becque de “Les corbeaux”(I corvi) fino alla dispersione esistenzialista ed heideggeriana di un esserci privato di confini.
Nove quadri che in effetti rielaborano la nostra principale difesa rispetto alla angoscia della morte, il riso, un riso però che si è trasformato da strumento di elaborazione ed introiezione a strumento di oblio e allontanamento.
La trascrizione scenica, comunque apprezzabile nel suo insieme, dei tre giovani registi dello spettacolo, Yuri D'agostino, Elisa D'Andrea e Elisabetta Granara, se un limite rivela è forse proprio questo limite, di aver enfatizzato il rapporto tra comicità e morte sbilanciandosi sulla prima, a ripetuta difesa forse anche intima, così da rischiare in qualche occasione di allontanare troppo la protagonista profonda della drammaturgia.
Hanno scelto una sintassi scenica agile e accattivante che rende tollerabile, più con l'ironia che con il grottesco, il coraggio della drammaturga nel metterci di fronte al paradosso di non conoscere più ciò che inevitabilmente ci attende, mentre d'altra parte cerca di preservare il ritmo psicologico ed armonico evocato già dal titolo rischia senza strappare il filo della nostra riflessione.
Bravi i protagonisti in palcoscenico, Sara Cianfriglia, Mauro Lamantia, Aldo Ottobrino e Sarah Pesca, in tutte le tonalità recitative sperimentate, e bravi gli altri collaboratori di questa produzione interessante della Fondazione Luzzati - Teatro della Tosse, da Paola Ratto per le scene a Daniela De Blasio per i costumi, da Matteo Attolini per luci e fonica a Carlo Garrone per le costruzioni. Lunghi e convinti gli applausi del pubblico dell'esordio.

Foto Andrea Corbetta