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Tra mille difficoltà Gianni Salvo dirige ancora oggi a Catania il “suo” Piccolo Teatro, (un’istituzione del teatro siciliano) e continua a confrontarsi originalmente con la tradizione del teatro occidentale. C’è una cifra che connota essenzialmente la sua pratica registica: il gusto per la parola teatrale, il gusto per la risonanza d’arte di una parola che in scena si fa materia, azione, corpo, silenzio, tempo, immagine. Val la pena di ricordarle queste coordinate prima di dire brevemente di “Le Antigoni” lo spettacolo che s’è visto il 22 e il 23 marzo scorso al Piccolo Teatro di Catania: in scena, con Tiziana Bellassai e Maria Rita Sgarlato (Antigone), ci sono Antonio Caruso (Creonte, Coro) e lo stesso Gianni Salvo (lo sconosciuto), le musiche sono di Pietro Cavaliere, costumi e maschere di Oriana Sessa. Si tratta di una riscrittura, dell’ennesima riscrittura di Antigone certo, ma non è un’operazione gratuita, perché questa operazione si dispiega come un percorso di riflessione poetica e politica all’interno del grande campo di significazioni, vive e brucianti, che il mito di Antigone continua a contenere e a proporre. Si parte da Sofocle, perché non potrebbe essere diversamente, perché la sua Antigone è un archetipo per il teatro e la cultura occidentali, perché è il campo che accoglie infinite possibilità di variazione e perché la voragine di senso che il drammaturgo attico ha scavato, disegnando quella ragazza che si ribella al potere in nome di leggi sacrosante e non aggirabili, è ancora oggi lungi dall’esser stata esplorata e decifrata fino in fondo. Quindi si passa a Brecht, alla sua eroina che svela la miseria umanissima e tutta ideologica del potere. Ed infine la potenza speculativa di Maria Zambrano e della sua riflessione poetico-filosofica (contenuta nel libretto “La tomba di Antigone” del 1967) che esplora il luogo della sepoltura e il momento successivo alla chiusura dell’antro mortale: quel luogo oscuro cambia segno e, con una straordinaria torsione intellettuale, vive e si trasforma in spazio di ascolto e consapevolezza, di accoglienza, di rinnovata relazione con gli altri protagonisti della tragedia.  C’è un gioco che Salvo propone al pubblico, allegandone le regole al foglio di sala, un gioco piccolo e amaro: il premio “Creonte d’oro” da assegnare al politico che meglio ha contribuito con la sua opera fattiva alla chiusura di almeno un teatro, alla trasformazione di un teatro in un discoteca, in un albergo di lusso e via elencando le miserie di un ceto politico che (tra tracotanza, immobilismo riformatore, malafede, ignoranza e sciatteria) sta distruggendo una tradizione d’arte che, pur nella sepoltura in cui è stata cacciata, continua a vivere e a dialogare col mondo. Si esce dal teatro dopo lo spettacolo, si rilegge quel piccolo scherzo ed allora si capisce qualcosa in più del fascino di ciò che s’è visto, della sua necessità politica e del dolore composto che la saggezza registica di Gianni Salvo ha saputo trasformare in teatro.