Quest'anno la consueta esercitazione della Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova ripropone, dal 28 aprile al 4 maggio al teatro Duse, una traduzione/travestimento di Edoardo Sanguineti ed è, questa, una occasione purtroppo ed incomprensibilmente
molto poco praticata anche nella sua città.
Sanguineti o della forza ed autonomia del testo, e definirlo “versione italiana”, come recita la locandina, ci sembra riproporre un ridimensionamento ed una sottovalutazione del suo lavoro drammaturgico, che già Luigi Gozzi, in prefazione al mio volume “Edoardo Sanguineti e il Teatro” del 2003, aveva avuto modo di sottolineare.
Il testo quando ha come finalità la rappresentazione, infatti, è sempre una occasione e quale occasione più “intimidatoria” ed insieme intrigante di questo scritto euripideo, ultimo tra le sue produzioni, che come un lascito mostra il prepotente emergere nel mondo greco della interiorità psicologica, nella forma eruttiva del mistero e della passione cioè dello “strepito”, e l'incongruità di fronte ad essa del pensiero razionale, apollineo e democratico, che attraverso la tragedia aveva saputo organizzare il mito nella sua conoscenza condivisa.
Un mondo che cambia e che non si ritrova e, come tale, un mondo che si riproporrà di nuovo e si ripropone ancora nella nostra contemporaneità, quando eredità e tradizioni si scontrano con nuove conoscenze e sensibilità.
Non dunque il dio, Dioniso, che distrugge l'uomo Penteo ma Penteo che si distrugge incapace di articolare dentro di sé la passione che travolge il suo vecchio mondo, o di elaborare lo strepito che lo rende sordo e cieco di fronte al nuovo mondo che gli è squadernato davanti.
Una tragedia questa del mancato riconoscimento ove come Penteo disconosce Dioniso, ed è disconosciuto e fatto a pezzi dalla madre Agave, così la ragione, il discorso, non riconosce il suo proprio fondamento nell'irrazionale/inconscio, ovvero nella affettività o creatività e distaccandosene violentemente produce il male della propria contraddizione e dissoluzione, perché:
“Un uomo ardito, e abile nelle parole,
diventa un corruttore, per la sua città, quando non ha il senno”
La traduzione, che data il 1968, e la stessa prima committenza, di Luigi Squarzina, avevano avuto la capacità di raccogliere la sfida e cogliere, con le modalità contestuali del “calco” e della “modernizzazione”, l'occasione, e avevano riconosciuto nella necessità di ricondurre il discorso a cadenze e riferimenti moderni, di de-classicizzarlo in sostanza, la possibilità di riaprire la conoscenza ed il valore universale di quelle parole antiche, ovvero, nella esigenza di citabilità e rinnovata agibilità scenica della parola, l'opportunità di riscoprirne il senso profondo, anche attraverso destrutturazioni e sovrapposizioni, dagli Atti degli Apostoli al centone bizantino del “Christus Patiens”.
Questa prima traduzione di Edoardo Sanguineti ha costituito dunque un punto di appoggio ed un varco verso una modalità di rappresentazione originale ed efficace, anche per chi non ne riconosce la paternità, modalità che, a mio avviso, ha comunque rivoluzionato la drammaturgia in Italia.
Una occasione che la messa in scena di Massimo Mesciulam credo non riesca a cogliere appieno, forse per i limiti intrinseci di una esercitazione di fine corso, mantenendosi un tono al di sotto della potenza del testo e del travestimento e oscillando tra la fedeltà filologica ad entrambi, e la tentazione di ricondurre e costringere l'intero discorso scenico ad una più esplicita contemporaneità, con il rischio di trasformare quest'ultima in contingenza storicizzata.
L'uso infatti di cadenze balcaniche e di costumi dalle tonalità nomadi da parte del coro delle Baccanti, encomiabile nel sottolineare forse l'impatto del nuovo, nella forma dello straniero, nella struttura ordinata ma già in crisi della polis greca tra il V e il IV secolo avanti Cristo, nel contempo tradisce forse un eccessivo timore rispetto alla capacità di cogliere il senso universale del singolare e psicologico spavento euripideo.
Come anche la troppo accentuata coloritura dell'esito dell'omicidio da parte di Agave, interpretata da un giovane attore con scelta suggestiva ma isolata, del figlio Penteo, con una scenografia a movimenti quasi splatter, forse ad attenuare nell'ironia della contestuale recitazione l'angoscia del tabù infranto.
È certo una prova impegnativa questa per i giovani della scuola dello Stabile, che hanno dovuto misurarvi la padronanza del corpo e lo spettro ampio della dizione che Sanguineti sa sollecitare ed imporre alla fatica dell'attore.
Un esito comunque soddisfacente da parte di questi giovani che cito tutti, da Michele De Paola (Dioniso) a Matteo Sintucci (Pénteo), da Luigi Bignone (Agave) a Davide Mazzella (Cadmo) e Marco Falcomatà (Tiresia), da Giovanni Malafronte e Giulio Della Monica (i due messaggeri) al coro (Valeria Angelozzi, Rachele Canella, Giulia Eugeni, Alice Giroldini e Valentina Illuminati) organizzato dalle coreografie di Claudia Monti.
Assistente alla regia Alice Giroldini, fonica di Claudio Torlai e luci come di consueto del bravo Sandro Sussi.
Il teatro pieno ne ha premiato l'impegno e sollecitato con molti applausi i margini di ulteriore miglioramento.