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Difficilmente si può capire (ma capire davvero, fino in fondo) quale devastazione sia per una coppia l’arrivo di un figlio handicappato o disabile: quale lacerazione, quale doloroso e inestricabile groviglio di sentimenti e pensieri esso comporti, quali ondate di paure intollerabili, di frustrazione, di amore disarmato, di tenerezza infinita, di fantasmi, di odio feroce, di perdita di senso per il presente, per il futuro e persino per il passato, possano abbattersi addosso ad una madre e a un padre che si trovano a vivere una situazione simile. Sono poche le coppie che, trovandosi a gestire un’esperienza del genere, riescono a trovare un equilibrio autentico e a salvarsi in quanto tali. Di fronte ad una situazione simile, forse, non si può assumere altro atteggiamento che una solidarietà rispettosa, attiva, partecipe, ma silenziosa: nessuna parola può essere del tutto al riparo dalla menzogna (per egoismo, per paura, per debolezza) di fronte a casi del genere. Ma non solo: una tale realtà scaraventa addosso alle persone che si trovano a viverla una tale quantità di domande capitali e brucianti, strutturalmente tragiche, sul senso stesso della vita e dello stare al mondo cui neppure chi ha maturato autentica saggezza interiore, equilibrio e solidi strumenti culturali può agevolmente fornire risposte accettabili. Ecco che, allora, portare in teatro una tale ferita appare operazione coraggiosa e difficilissima, ma è quanto accade in “Se’ nùmmari” (sei numeri), lo spettacolo prodotto dallo Stabile Etneo che s’è visto venerdì 2 maggio a Noto (al Teatro comunale “Tina Di Lorenzo”) prima di passare a Catania dove sarà in scena al Musco fino all’8 maggio. Il testo è di Salvatore Rizzo, la regia (con le scene e i costumi) di Vincenzo Pirrotta, l’interpretazione di Filippo Luna (Orazio, il padre) e di Valeria Contadino (Anna, la madre), le musiche sono di Giacomo Cuticchio. Diciamo subito che si tratta di uno spettacolo ruvidamente potente che affronta la tematica con diretta immediatezza andando subito al cuore vero del problema, alla verità di una specifica e disastrosa condizione umana e non indugiando in nessun momento in falsi pietismi o in solidarietà di facciata; e questo, certo, è un bene e fa bene a quella necessaria dimensione di verità, al di fuori della quale si tradirebbe l’assunto stesso di un’operazione del genere e la si ribalterebbe in pornografia. La verità dunque, senza infingimenti, anche quando è brutta, dolorosa e persino terribile ad accettarsi: la verità di una madre e di un padre che, dopo più di diciotto anni passati ad accudire esclusivamente e amorosamente il figlio tetraplegico, a nutrirlo, a proteggerlo gelosamente, anni in cui si sono letteralmente dimenticati di loro stessi, dei loro corpi, del loro amore, della loro intimità, in un solo istante scivolano nella follia del male, si perdono e, colpevolmente, lo perdono, di fronte al sogno di una vita da benestanti, un sogno improvvisamente divenuto possibilità reale grazie a una vincita al lotto (sei numeri, appunto, sei numeri benedetti e maledetti insieme). Tutto questo va bene, ma tutto questo è ancora quasi soltanto il testo di Rizzo, non lo spettacolo e qui invece è dello spettacolo che dobbiamo dire, dello spettacolo di Pirrotta. Perché Pirrotta appare assolutamente consapevole delle straordinarie potenzialità del testo che ha in mano, della sua levatura tragica e della solidità dei due interpreti e tuttavia non rinuncia a proiettare con decisione il suo personale segno sulla scena. Ma forse meglio sarebbe stato se avesse ulteriormente esplorato la verità nuda e feroce del testo di Rizzo (interamente composto nella pasta densa e carnale del dialetto palermitano), la sua musicalità dolente, se avesse lasciato soltanto in controluce le proprie qualità professionali di regista formatosi nella tradizione del cunto, restando in silenzio rispettoso e partecipe. Ma non è stato così: il suo immaginario scenografico (i colori, le luci, le trasparenze), i movimenti, le nenie dolorose e strozzate, le litanie ritmate, le cantilene straniate, le sonorità ancestrali che connotano i suoi lavori, sono tutti elementi consueti (quindi esterni alla verità singolare del dramma in scena) del teatro di questo regista e hanno trovato ancora largo spazio in questo lavoro; così come del resto appare eccessiva la presenza delle musiche (seppure colte e di grande fascino) di Cuticchio.