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Gli attori del Laboratorio over60, giovane compagnia milanese che ha lavorato da tempo sul coinvolgimento in scena di persone anziane, portano al Teatro Menotti di Milano  “Il Tramonto sulla pianura”, dall’omonimo romanzo di Guido Conti edito da Guanda, per la regia e l’adattamento  teatrale di Emilio Russo e Caterina Spadaro.
E’ l’ultimo giorno del 1989, dalla tv arrivano notizie di grandi cambiamenti nella storia, dalle proteste di piazza di Tienanmen al muro di Berlino che cade, fino alla deposizione di Ceaosescu in Romania. Loro, gli anziani di una casa  di riposo, assistono da spettatori all’epopea di un mondo che si trasforma, ma al quale paiono non appartenere più.
C’è chi ricorda con nostalgia il Duce, anzi «il mio maestro incompreso» come ama ripetere, c’è chi vaga nel proprio delirio da un angolo all’altro del grande salone conviviale, c’è chi perpetua la propria gioventù di seduttore millantando amanti infinite, c’è chi si strugge nella malinconia di una moglie troppo giovane per lasciarla legata ad un marito troppo vecchio e malato.
Tanti personaggi, tanti stili e tanti accenti volutamente sottolineati, come a rappresentare l’italianità più varia. Recitano se stessi, recitano le inquietudini di un’età che sta al limitare del passaggio, tempo di bilanci talvolta amari, tempo di lentezza e riflessione.
Ma l’apparenza inganna. Loro, seduti placidamente a giocare a tombola davanti alle grandi vetrate della “Villa” in cui sono ricoverati, con una vista fantastica sul mondo rurale. Loro accartocciati su se stessi nell’ultimo slancio prima della fine. Loro, proprio loro, sono vivi eccome. L’amore, la gioia e il dolore, la saggezza maturata con la vita. Tutto ciò trionfa amabilmente in questo spaccato di vita vera. Così, l’ultimo recalcitrante arrivato alla “Villa” finisce per non volersene più andare, ammaliato da tanta umanità che scorre in quelle stanze. La suora autoritaria, reggente ferrea della struttura geriatrica, si deve piegare a cotanta vitalità acconsentendo alla festa di Capodanno, il Veglione tanto atteso, simbolico baluardo di un ultimo attaccamento alla vita, alle sue passioni, ai suoi codici. «Cos’è la vita, senza l’amore, è come un albero che foglie non ha più», riecheggia più volte nel salone luminoso, inno alla vita e al compimento dell’umanità.
Il testo è forte, la cura del fluido raccordo musicale è altrettanto efficace, sebbene una regia meno semplicistica avrebbe reso ragione di cotanta magia che i simpatici (e autoironici) over60 sanno infondere allo spettacolo.
Si tratta di un fenomeno di costume, secondo i sociologi, che parlano di “grey pound” in riferimento alla nuova centralità sociale acquisita dalle fasce più agé della società. Forse una parte dell’interesse di questo spettacolo sta proprio in questo segnale infuso al linguaggio teatrale: gli anziani raccontano se stessi, tanto per sfatare una serie di luoghi comuni piuttosto invalsi, che tendono a sminuirne l’affettività o la lucidità sempre e comunque.
Resta l’interesse per una riscrittura teatrale che sa conservare certa magia dei sentimenti e delle situazioni. In questa chiave, l’atmosfera volutamente anti-professionistica che lo spettacolo si è voluto dare acquisisce valore di testimonianza, come un’incursione nel sacro tempio dell’arte recitata da parte di chi sa di portare una ventata di vita vissuta.