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Una città che sogna il teatro, il suo teatro, è questo il senso dell'evento, un vero e proprio work in progress, curato a Genova da Carlo Quartucci e Carla Tatò il 15 16 e 17 maggio, a spasso tra installazioni, musei, conservatori e palcoscenici. Seguendo il sottile ma fortissimo filo rosso che lega, oltre le profondità del tempo, Borges, Cervantes ed Euripide “Suena Qujano”, questo il titolo dell'evento, più che il simbolo o la metafora didattica è la voce stessa del teatro che si manifesta d'improvviso, ma padroneggiata con sapienza affinché giunga ai nostri occhi, alle nostre orecchie e attraverso quelli al nostro cuore.
Tutte e tre le giornate sono state suggellate da questa drammaturgia, una cantata sulla barbarie, impostata sulle Troiane di Euripide nella traduzione/travestimento di Edoardo Sanguineti e per la regia di Carlo Quartucci, assistito da Gianmarco Mecozzi.
Un titolo icastico e dalle profonde suggestioni, quasi a ricordare che il teatro stesso è sostenuto da queste voci arcaiche, cariatidi, appunto, bellissime e inquietanti, dagli sguardi pieni di domande ancora inevase e di enigmi da risolvere.
Una splendida Carla Tatò è la cantora, dalla voce sapiente che trasforma, nell'insuperata lezione di Carmelo Bene, la microfonatura in strumento quasi esplosivo di approfondimento di senso, riuscendo ad articolare nello spazio e nel tempo della scena quella tragedia che Sanguineti definiva dalla “testualità epica”, ovvero “epopea rovesciata che passa a contrappelo, con il mito stesso, ogni sua possibilità di articolazione teatrale”.
Dunque, nel qui e ora del palcoscenico, non si tratta più di narrazione ma di dramma che, strutturandosi a partire dal testo-traduzione, risolve l'assenza di una vera e propria dialettica dialogica, e qui mi cito, “accentuando l'accavallarsi frenetico di singoli racconti, ciascuno autoreferente, e così ripristinando un movimento scenico, centrato più su una fonesi fatta di sonorità contrastate, che su una evoluzione interna al discorso euripideo”.
Ne sono coerenti interpreti Quartucci e la Tatò, che in effetti non hanno mancato di ricordare, al contrario di molti altri, il peso significante dell'apporto sanguinetiano, quando riescono a ribaltare in spessore drammatico e comunicativo, fatto di profondità psicologiche e di piani narrativi sovrapposti, questa parola dell'antico tragico che “tende al lamento” nell'impotenza di una lingua che contiene quasi solo il fiato sensibile.
Spesso e recentemente, nella foga frettolosa dei tecnicismi specialistici e filologici, alla base ad esempio delle valutazioni di Federico Condello intorno all'Ippolito sanguinetiano, tale aspetto è dimenticato se non esplicitamente cassato in nome di una corrispondenza puramente formale e sintattica, certamente fondata e molto “colta”, mentre a chi, tra gli studiosi, ne sottolinea il peso è talora imputato un atteggiamento ingenuo e irrazionale.
Al contrario, e questo spettacolo credo possa confortarlo, citabilità e dicibilità, lungi dal definire una facilitazione semplicistica della recitazione e avendo un senso specifico in questo contesto estetico, che sembra non perfettamente conosciuto e praticato, e in questa finalità, vogliono dire lavorare e predisporre la parola per la scena affinché lì, sulla scena e attraverso il lavoro dell'attore che dice ciò che non è suo, possa recuperare un suo significare profondo e soprattutto condiviso, significare che in senso lato pre-esiste all'evento stesso.
Ben altro significato assumono così gli elementi, presenti dentro la modalità del tradurre sanguinetiano e non negli occhi di chi lo studia, di ingenuità (quale adesione spontanea, onesta e dunque sincera al significato profondo, come nella etimologia originaria della parola) e irrazionalità (perché il senso pur incorporato al testo si realizza oltre il testo nel qui e ora, nel come se della recitazione, ove la parola detta acquista un più di significato rispetto a quella scritta. La scena consente infatti la coerenza di queste due grandezze non altrimenti commensurabili, razionale e irrazionale, Dioniso e Apollo).
Questo, in proposito, mi rispose Sanguineti nel corso di una mia intervista di ormai oltre dieci anni fa: “Devo dire che quando mi capita di assistere ad un mio pezzo teatrale, quello che provo è persino, mi è accaduto già di confessarlo, quasi un senso di imbarazzo, perché mi trovo dinanzi ad un testo che non sento totalmente mio, e certe volte, con un certo stupore, scopro di aver detto, cioè fatto dire, da un personaggio, da una voce, delle cose che in fondo mi meravigliano.”
Poiché, come scrisse Sanguineti nella prefazione alla traduzione del 1974, “nel corpo degli attori si misura così, secondo l'arco della peripezia, la transazione dalla parola al fiato: al silenzio”, Quartucci e Tatò modulano questo silenzio rintracciando il senso profondo e perduto della parola euripidea e finalmente “citandolo” e “dicendolo”.
Tragedia del “senso di colpa”, credo, per aver abbandonato gli Elleni la matrice femminile su cui si è fondata la loro civiltà, tragedia al femminile o del femminile, protagoniste le donne troiane, quelle stesse donne che i greci hanno reso prima vedove e poi schiave. andando a combattere “fuori” dalle loro case, uccidendo e morendo in terra straniera senza onore, subordinandosi ad una fredda ragione “maschile”.
Quindi tragedia oltre il pacifismo e l'anti-militarismo, pure presente in essa e tradizionalmente riconosciuto, in cui l'assenza di dialettica è il segno del desiderio di gettare uno sguardo nel profondo di noi stessi e della nostra storia più intima e segreta.
È la ricerca di una elaborazione,collettiva e comunitaria allora e ora latamente introspettiva, che guida forse Euripide, ma che certamente è letta e interpretata, a partire dal testo, nella messa in scena.
Così la voce di Carla Tatò, dalle tonalità inaspettate quasi, nei ritmi arcaici dell'accompagnamento, e dallo spettro così ampio da sembrare musica sostenuta in scena dal violoncello di Giovanna Famulari, ci sospinge, ci guida, ci transita dallo stupore al dolore ed infine allo spavento di fronte al j'accuse di queste donne offese e sconfitte, uno spavento che per questo sembra, più che loro stesse, riguardare i “vincitori”. Dal silenzio dello sconcerto al silenzio della empatia e della elaborazione più intima.
Sotto le mura e le alte torri di Ilio, che occupano virtualmente lo spazio di una scenografia tra l'arcaico ed il post-moderno, Carlo Quartucci interloquisce dalla platea, più che un coro antico un moderno esegeta, una guida nella contemporaneità.
La drammaturgia sfrutta così ed esalta un linguaggio quotidiano, ma mai banale, che raffreddando ogni effetto patetico riattiva ed ancora al presente la relazione di conoscenza tra testo, traduzione, messa in scena e pubblico, e riconduce e riconcilia con il senso più profondo di questo doppio sogno che è il teatro, dall'alterazione rituale dell'antico spazio tragico fino alla elaborazione condivisa della nostra modernità.
Un lavoro profondamente moderno, pur nelle sue radici antiche, intelligente e appassionato, di quella passione che innerva la storia dei due protagonisti, empatico e commovente che merita la nostra gratitudine e al quale forse la città non è apparsa del tutto preparata.