Due sono i momenti cruciali che precisano, sia sul versante drammaturgico che su quello scenico, la sostanza, ad un tempo ideologica e formale, di cui si impronta La Madre:’I figli so’ piezze’i sfaccimma, lo spettacolo prodotto dallo Stabile di Napoli e andato in scena al Teatro San Ferdinando, di cui è autore, regista e interprete Mimmo Borrelli:
l’incipit e il finale, chiusi in quella circolarità temporale tipica del mythos, che è poi uno degli elementi fondamentali della tragedia in argomento. Lo spettacolo, infatti, si apre con queste precise parole: «Na mamma che vva facenne ’i bbucchine nunn’è degna ’i essere chiammata Maria, figliola … mugliera, perzine mamma che vasa ’i figlie ’nt’ ’a nuttata, stugliannese ’a faccia ’ncopp’ ’a nu mantesine cu chella vocca ch’anco’ feta a ppeste ’i sfaccimma!»; e si chiude con queste altre: «Mamma senza famiglie. Mamma senza figlie. Mamma ca ’u piglie ’nt’ ’i ppacche mentre figlie[…]Madre terra fertile. Mamma indomabile. Mamma assai terribile. Mamma Vergine Madre, figlia del suo figlio. Mamma di suo Padre per incestuoso appiglio. Mamma ’i Ggiesù Criste[…]Mamma assaje puttana, cu ’a statua r’ ’a Maronna se fa na fessa’mmane[…]». Parole disturbanti, crude, oscene, sfiguranti, intrise di maledizioni e bestemmie, che il protagonista, tal Francesco Schiavone, detto Santokanne –di cui si intuisce chiaramente il valore simbolico del nome che, traslato dalla realtà camorristica, fa riferimento al capo dei casalesi- urla all’indirizzo della sua donna, Maria Sibilla Ascione, all’inizio della rappresentazione e alla fine, rispettivamente dall’alto di un ipotetico pulpito e mentre sta sprofondando in un altrettanto ideale abisso, al momento della sua morte. Parole empie, madide di disumanità, il cui unico scopo è quello di colpire la donna in ogni sua connotazione esistenziale, in ogni sua esperienza, sia essa terrena o metafisica. E allora si comprende quanto dicevo all’inizio: e cioè che, sia dal punto di vista ideologico che da quello della pura strutturazione formale, lo spettacolo in parola ha nell’incontro/scontro tra il basso e l’alto –nel senso culturale, linguistico, scenico- la sua essenziale peculiarità. L’intera messinscena è caratterizzata, infatti, da una “marcatura ossimorica” che Borrelli ha realizzato, sia come autore che in qualità di regista, operando un continuo straniamento dei registri drammaturgici e interpretativi, degli elementi dello stile, dell’uso del segno e del significante, all’interno di una costruzione scenica intesa come sistema linguistico-simbolico. Celestiale/infernale, sublime/fecale, cerebrale/ventrale, poetico/prosaico, sacro/profano, tragedia/cronaca sono, dunque, le coincidentiae oppositorum -come le chiamerebbe Moscato- che scorrono all’interno del corpo drammaturgico/spettacolare della pièce in parola. E proprio l’iniziale collocazione sul pulpito e la discesa finale all’inferno del protagonista esprimono la perfetta sintesi metaforica di quanto detto finora. Schiavone infatti non rappresenta altro, nell’universo simbolico/drammaturgico creato da Borrelli, che il capo camorra sanguinario e bestiale, la cui cultura, intrisa di violenza, ferocia e inumanità, si rivela qui prevalentemente nel perverso rapporto con la donna, da lui concepito nel segno di un ancestrale dominio ai limiti del sadismo. Le bestemmie da lui lanciate dall’alto del pulpito, altro non sono che i marchi a fuoco di un dispotismo patriarcale primordiale, di un maschio/ padre/dio che vedremo agire, per tutta la rappresentazione, con crudeltà e scelleratezza non solo nei confronti della moglie, ma anche dei figli e della comunità di cui si sente il padrone assoluto, potendo deciderne i destini, la vita e la morte. Una morte che però sarà proprio lui ad incontrare, quando la moglie, Maria Sibilla Ascione –odierna Medea- deciderà di vendicarsi, stanca del suo sadismo e delle sue vessazioni, uccidendo lui ed i figli, da lei stessa inebetiti fin da piccoli, attraverso uno svezzamento col vino anziché col latte materno. Per tutta la vita, lei ed i suoi ragazzi sono rimasti nascosti agli occhi del mondo, in una sorta di caverna/conca che, nello spettacolo, Borrelli riproduce attraverso un bunker posto al di sotto della scena, sotto i piedi degli spettatori. Questa grotta lurida e buia –che scenicamente riproduce quel basso di cui si parlava precedentemente- è l’immagine allegorica di tutti gli orrori, le oscenità, i crimini che ci vengono narrati sulla scena. Orrori e crimini che non sono stati commessi solo dal protagonista maschile, ma anche dalla moglie e dai figli. E allora appare giusto quanto dice Borrelli, nell’introduzione al suo dramma, per spiegare la scelta di ambientare l’azione in un: «utero-voragine di ogni dolore: il bunker, la caverna, la fossa comune, la sala delle torture votive, offerte in anelli di catene rumorose e strascicate come i misteri di Procida, dove si nasconde ogni celato segreto e dove Santokanne ha nascosto e “arrepezzato” e tumulato per anni, l’ignominiosa vergogna dei suoi snaturati figli, Pascale e Totore Mammiluccio». Borrelli parla di utero/voragine e questo è, se vogliamo, non solo una chiara allusione al femminile, ma anche a quella terra in provincia di Napoli -Borrelli è di Torregaveta, località dell’area flegrea- funestata dalla presenza e dal dominio camorristico, che tanti delitti e tanti scempi, ambientali e sociali -c’è anche, all’interno della pièce, un riferimento all’annoso problema dell’immondizia- ha perpetrato. Dunque, ancora una volta il femminile: stuprato, sfregiato, deformato e corrotto da quella barbara cultura, maschilista e violenta, che ha nella camorra, e nelle mafie tutte, il suo apice esemplificativo. Il femminile, nella messinscena di Borrelli, è Maria Sibilla Ascione che, lo si sarà capito, ne condensa i vari volti: donna, terra, madre, madonna, semplice utero, o peggio semplice buco che anche i figli provano a penetrare, in un’ eccitazione incestuosa, che è il confine non detto di ogni empietà, di ogni sordido crimine. L’iniquità e la bestemmia, l’umiliazione e il sacrilegio, la profanazione e il crimine, sono quindi le uniche prerogative all’interno di un codice linguistico e gestuale proprio di un mondo, di una terra, di un’umanità, che Borrelli ci narra con passione e dolore, restituendocela attraverso una poesia drammatica e scenica che ci rimanda direttamente al teatro della crudeltà di Artaud. Il discorso teatrale di Borrelli si predispone, ovviamente, a diverse chiavi di lettura, per la quantità degli elementi e dei riferimenti culturali che l’autore ha voluto e saputo mettere in gioco. Anche se –e lo diciamo soltanto come consiglio- in alcuni casi la fantasia e il godimento intellettuale vanno tenuti un po’ a freno, altrimenti potrebbero trasformarsi in bulimia e autocompiacimento. Fatta questa precisazione, va detto comunque che qui Borrelli spazia, con intelligenza e senza mai smarrire la bussola, dal sociale al politico –mi sembra chiaro, in proposito, il riferimento alla nostra realtà, dove un presidente democratico si è trasformato in una sorta di capo orda, una sorta di padre primordiale che usa il corpo delle donne come se fosse, appunto, semplice carne da stupro; dall’antropologia alla psicanalisi, dalla religione al mito. E i riferimenti culturali che vi si possono rintracciare sono molteplici e di grandissima caratura: basti pensare ad Eros e Civiltà di Marcuse e a Il Ramo d’oro di Frazer, per quel che concerne il discorso sulle società arcaiche e il dispotismo patriarcale; a Lacan, per quanto riguarda l’uso di quella lingua/vernacolo visionaria e materica, arcaica e infantile, che ricorda, appunto, lalangue corpo/voce di matrice lacaniana: una lingua svuotata di ogni funzione rappresentativa ed investita di una significanza “creatrice di senso”, dunque una lingua teatrale e teatrante; per finire con Cassirer e Colli per quel che riguarda i miti: c’è sempre infatti, nei lavori di Borrelli, un elemento di follia dionisiaca che percorre la scena dall’inizio alla fine. E del resto, per l’occasione, Borrelli si rifà chiaramente al mito di Medea. Dunque, uno spettacolo di straordinario impatto, sia visivo che emotivo, e che in più passaggi è risuonato come un vero e proprio manrovescio assestato sul viso di ogni illusione buonista, di ogni melliflua speranza, di ogni ipocrisia moralistica, di ogni borghese scorciatoia per una più o meno serena felicità. Uno spettacolo disperato e pessimista che, una volta tanto, ci rivela la vita per quello che è il più delle volte: crudeltà. Infine, non possiamo dimenticare gli attori. Innanzitutto è doveroso citare Milvia Marigliano, una Maria Sibilla Ascione lacerata e lacerante nel suo dolore di donna e di madre, squarciata dalla follia e dilaniata dalla colpa per aver reso ebeti i figli, ma anche accesa dal fuoco della vendetta, che consumerà con spietatezza e fredda premeditazione. La Marigliano è capace di variare di registro senza mai smarrire il centro del suo personaggio, cui regala le forti tonalità della follia e della crudeltà, e i più tenui colori dell’umana tenerezza e della compassione. In seconda battuta, Gennaro Di Colandrea e Geremia Longobardo, i due figli, bravissimi nei loro movimenti stereotipati e frenetici, dovuti alla loro condizione di ritardati, ma anche capaci di essere lascivi fino alla depravazione nel rapporto con la madre. Lo stesso Borrelli, che dona al suo Santokanne tutta la crudeltà, l’infamia e la nefandezza che ci si possa aspettare da un boss di camorra, simile più ad un satiro tragico che ad un uomo. Ed infine, Agostino Chiummariello e Serena Brindisi, rispettivamente Adamo ed Eva, forse gli unici personaggi positivi in questa discesa negli inferi dell’umanità, che con i rispettivi ruoli, anche se un po’ defilati, contribuiscono alla riuscita dell’allestimento. Degno di menzione, per le bellissime scenografie, Luigi Ferrigno.
IN SCENA FINO A DOMENICA 12 DICEMBRE