Pin It

In scena dal primo fino all'11 dicembre al Teatro della Tosse di Genova, Antonio Latella affronta l'enigma dell'ingenioso hidalgo di Miguel de Cervantes e dirige un'ultima versione treatale del Don Chisciotte nella interessante drammaturgia di Federico Bellini, protagonisti Massimo Bellini e Stefano Laguni Hanno collaborato Giorgio Cervesi Ripa per le luci, Clelio Alfinito per la scena, Cinzia Virguti per i costumi, Brunella Giolivo per le foto di scena, Timmaso Tuzzoli per la regia ed infine Lucrezia Spezio. Epifania del doppio, la narrazione del grande iberico è come liquefatta in una scenografia povera e spoglia e man mano ricostruita nella trama di parole che si dipana da due personaggi programmaticamente privi di identità e di identificazione, metamorfosi metafisica dell'esistere senza riconoscersi. Anzi è proprio la parola nella forma della sua narrazione che tenta di ricostruire una verità ai due personaggi, un presupposto Don Chisciotte e l'attrettanto presupposto suo scudiero Sancho Panza, che proprio nell'identificazione letteraria tentano e quasi riescono a riscattare l'assenza, la loro assenza dalla vita e l'assenza della vita dal loro orizzonte. Se, come acutamente scrive il drammaturgo nel foglio di scena, la morte è l'unico orizzonte di realtà rimasto riconoscibile per l'umanità, allora la letteratura, e quindi il teatro, è l'unica mimesi possibile di una realtà che in sé pare non esistere ma che sembra potersi manifestare solo ed esclusivamente nel suo essere raccontata e raccontata in scena. Così lo spazio scenico è come ricostruito, nella affascinante trascrizione di Latella, attraverso la letteratura e attraverso i simulacri concreti di questa, i libri, che danno l'unica sostanza di verità alla nostra volontà di identificarci e riconoscerci, fino a diventare, le parole ed i libri, la nostra stessa sostanza corporea. Scriveva il compianto Edoardo Sanguineti che le parole in fondo sono cose, e lo spettacolo di Bellini e Latella talora ha ricordato il sanguinettiano Storie Naturali nella necessità di spogliare la parola e incarnarla quasi nel corpo dell'attore, denudato in scena e quasi ultimo baluardo prima della caduta nel 'non senso'.
Epifania del doppio e in fondo sintesi del pensiero barocco quale apoteosi del falso, non tanto come simulacro ma come unica metafora della verità e della realtà, verità e realtà in sé non perdute ma quasi divenute irragiungibili e per questo irreali e dunque superflue. Una letteratura che non influenza le vite reali ma in certo qual modo le sostituisce e per questo le invera. Spettacolo dunque intrigante e difficile, che impegna i due bravi protagonisti in una prova difficoltosa, tra le esigenze della carnalità e la capacità di piegare anche la volgarità in direzione della sincerità, prova difficoltosa ma, credo, ben superata. Se un limite alla drammaturgia può essere trovato credo debba essere cercato nella volontà di forse troppo spiegare e pensare, nella spinta a decifrare che a volte rende il percorso scenico non del tutto spontaneo e fluido. Spettacolo che comunque sa pienamente sfruttare la forza di una comicità contagiosa ma sempre profondamente critica e alienante, perchè, come scrive Walter Benjamin ne Il dramma barocco tedesco: <<Proprio la risata infernale è infatti la forma eccentrica e deformata che ha la materia di spiritualizzarsi. Essa diventa così spirituale che supera d'un balzo la parola, vuole spingersi oltre e sfocia nel fragore della risata.>>.
Il pubblico presente ha gratificato lo spettacolo e i suoi protagonisti con convinti applausi.