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Decima edizione di questo appuntamento estivo che ogni anno si arricchisce di nuovi scenari, non solo di contesto, nella rinnovata integrazione 'estetica' con le consuete bellissime residenze reali di Torino e dintorni, ma anche di nuovi stimoli intellettuali ed artistici, che ne sostengono un respiro che va oltre i confini nazionali per consolidarne i legami con il miglior teatro europeo. Importantissimo in proposito, e anche quest'anno rinnovato ed irrobustito,

il legame con le drammaturgie ed il teatro in genere di lingua francese, che costituisceil centro attorno al quale comunque si snodano esperienze e contributi di ben otto nazionalità diverse, rappresentate nei 38 spettacoli presentati nel corso dell'intera rassegna dalle 31 compagnie invitate. Un panorama vasto, dunque, rappresentativo dei nuovi fermenti della scena internazionale, e quindi un percorso che si articola in oltre due settimane dall'8 al 25 luglio. D'altra parte un così diversificato e complesso repertorio, tra danza, drammaturgia e nuovo spettacolo circense, non ha inficiato od ostacolato, a mio modo di vedere, l'emergere di uno sguardo ben più omogeneo di quanto si possa immaginare al solo scorrere le presentazioni degli spettacoli, confermando invece scelte che, alla prova della rappresentazione, indicano un tentativo di lettura unitaria e coerente dei movimenti e sommovvimenti che, dal punto di vista estetico e per così dire linguistico, percorrono il teatro europeo. In particolare complessivamente mi è sembrato di individuare nei pur diversi approcci, sintattici e drammaturgici in senso lato, una comune suggestione che spinge alla tendenziale destrutturazione delle consuete grammatiche spettacolari, ovvero rappresentative, e punta, di conseguenza, ad utilizzare rimescolamenti e meticciamenti per tentare di organizzare la sostanziale 'confusione', esteriore nella società od interiore nell'individuo, che caratterizza la nostra contemporaneità, in direzione di nuove significazioni e conoscenze che emergono e quasi spontanemente costruiscono una rinnovata capacità di comprensione e comunicazione della realtà. Una riconversione estetica e linguistica che innerva, ad esempio, i ben oliati meccanismi dello spettacolo circense con gli inattuali tempi del dialogo drammaturgico e lungi dallo squilibrare l'uno e l'altro, li mantiene in un equilibro, instabile forse, ma certamente produttivo di senso nuovo. Ospite della rassegna dal 15 al 18 luglio, ho potuto ricavare una tale impressione, forse inattesa o non sperimentata spesso, ma comunque stimolante. Tra gli spettacoli cui ho assistito, vorrei ora soffermarmi su alcuni che, nell'angolatura indicata e senza nulla togliere agli altri, mi sono apparsi particolarmente significativi.

L'IMMEDIAT
Ideato dal giovane francese Camille Boitel, definito un “Buster Keaton scapigliato”, predilige quasi in controtendenza i 'pieni' del palcoscenico anziché i 'vuoti' e, così, riempie la scena di una apparentemente informe catalogo di quotidianità in perenne dis-equilibrio così da metaforicamente rappresentare la sovrabbondanza, non solo oggettuale, che riempie la percezione contemporanea e, lungi dal costruire o costituire un più di conoscenza, disperde le esistenze nel continuo e snervante tentativo di mantenere tutto in 'equilibrio'. Apparentemente sull'orlo della catastrofe, il mondo poetico di Boitel in realtà sembra scoprire che il senso profondo, la verità delle umane esistenze sta appunto in questo operare, fisicamente e anche mentalmente acrobatico, che organizza la perenne confusione di oggetti a caso accatastati e così tenta, forse riuscendovi, di recupare noi dal naufragio di tempi senza 'spirito'.

DETTE D'AMOUR
Interessante drammaturgia di Eugène Durif con la regia di Beppe Navello, già proposta in forma di studio alla Biennale goldoniana del 2007 e qui in prima nazionale. In prima impressione una più tradizionale sperimentazione di teatro nel teatro, con al centro una piccola compagnia in attesa di mettere in scena una nuova versione de Le bourru bienfaisant di Goldoni che il contemporaneo drammaturgo mai conclude. L'impossibilità di organizzare sintassi e significati scenici caratterizza dunque il metaforico svilupparsi sulla scena della nostra attualità, che sembra così perdere, incapace come è di recuparne un rapporto significante, sia il senso della tradizione scenica che gli spazi di una innovazione sempre più dispersa in rivoli di autocoscienza insieme disorganizzata e solipsistica. D'altronde lo spettro di un Goldoni un po' persecutorio, esaurisce alla fin fine la sua funzione nell'essere 'pietra di paragone' di una evidente crisi creativa, che da singola rischia di diventare condivisa.

LE CIRQUE DES GUEUX (4' SOUS D'CIRQ...)
Produzione di Cirque Baroque, è un progetto ed una ideazione artistica di Christian Taguet, anima della compagnia. Costruito, direi, attorno all'Opera dei mendicanti di John Gay, e quindi con inevitabili suggestioni brechtiane, mi è apparso una vero e proprio tentativo di traduzione nella sintassi esuberante del nouveau cirque dei tempi e modi di una drammaturgia tradizionale, o se vogliamo letteraria. Articolata in tre quadri, con diverse spefiche regie, gestisce con abilità ed esiti anche sorprendenti meticciamenti ed inserti linguistici, utilizzando in maniera del tutto innovativa la fisicità di acrobati e danzatori per 'travestire' di carne e sangue in movimento le parole in transito dalla scrittura alla visionarietà pittorica, con straordinari ed anche inaspettati effetti di disvelamento e emersione di senso, affettivo, in qualche modo, più che astratto o metafisico.

LES JARDIN DES DELICES
“Pièce per 9 ballerini e un pianista' per la regia e coreografia della ispano-francese Blanca Li, ha superato brillantemente la contingenza di una improvvisa e violenta grandinata riuscendo a riorganizzarsi con esiti certamente non meno efficaci, credo, della versione strutturata. Altro esempio di traduzione e travestimento, stavolta ricostruisce o “prolunga in scena”, come scrive la regista, il famoso trittico del maestro fiammingo Hieronymus Bosch. Il mescolarsi dei generi musicali in scena fa, così, da sfondo all'emergere in tridimensionalità dei sogni e degli incubi di una umanità che oscilla tra la luce e l'ombra. È proprio l'effetto prospettico così padroneggiato che sembra sottrare dalla sua apparente lontananza il mondo figurativo del fiammingo, per farne articolazione linguistica, in presenza di corpi e movimenti, del nostro essere nel mondo e nello, o meglio, contro lo spirito del tempo.

Spettacoli tutti, ciascuno nella sua singolare specificità, che disarticolano percezioni consuete, se non ormai irrigidite, e spostano sensi e significati in funzione peraltro del recupero di una verità, o meglio di una sincerità dell'esistere dell'umanità che, purtroppo, si cerca di cancellare o celare sotto disordinate montagne di concretezza, quasi che il solo nome del sentimento sia diventato man mano impronunciabile.
Una tale suggestione, peraltro, è condivisibile anche negli altri spettacoli cui ho assistito e cui, per ragione di spazio non posso soffermarmi a lungo, come negli spettacoli della compagnia belga “Dame de Pic”, che hanno al centro lo spaventapasseri, vera e propria metafora dell'apparenza umana alla ricerca di identità, oppure in Storia d'Italia in 150 date, di Fruttero&Gramellini curiosa ed ironica rivisitazione narrata, da Bruno Gambarotta, dei luoghi della mente post-unitaria.
Il notevole successo riscosso da ogni rappresentazione testimonia invece che una tale ricerca, che nel fare 'rappresentazione' e spettacolo cerca da sempre un suo centro ineludibile, ha ancora un senso e più di una speranza.