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La qualità del tempo deriva dalla coscienza che abbiamo della sua finitezza e per questo, opportunamente, gli antichi distinguevano tra kronos (tempo vuoto) e kairòs (tempo pieno, vissuto consapevolmente). Questa partizione interpretativa vale per le società così come per gli individui: se a un certo punto ti accorgi che la tua vita, il tempo che hai vissuto e quello che pensi d’avere ancora a disposizione, stanno finendo o stanno inaspettatamente

cambiando segno e strada, allora quel che resta è appunto kairòs, tempo pieno, pervaso di grazia. E però, quello di “grazia” non è soltanto un concetto religioso, ma un’idea profondamente umana che va ben oltre i limiti della presenza del divino nell’umano e che in sintesi può esser concepito come la necessità che alla vita occorre comunque dare un senso, positivo o negativo che sia, ma un senso. Potrebbe leggersi con questo schema la vicenda che mettono in scena i Teatrialchemici dei palermitani Luigi Di Ganci e Ugo Giacomoazzi, con la collaborazione registica di Julio Garcia e l’apporto musicale e sonoro di Gianluca Porcu e Francesco De Marco, ne “La signora”, lo spettacolo che s’è visto mercoledì 21 luglio nel contesto delle Orestiadi di Gibellina dirette quest’anno da Claudio Collovà. Si tratta d’uno spettacolo solido, con una lunga fase di scrittura e di elaborazione (lo studio “Ergo non sei”, che ha partecipato al Napoli fringe Festival) la cui qualità migliore ed essenziale, occorre dirlo subito, è la compatta tenuta teatrale: due ore di teatro, con ritmo scenico serrato e senza cadute di tensione né gratuiti riempitivi. Due ore di teatro che vedono appunto il quarantenne protagonista, Michele (Luigi Di Ganci), aprire in pochi giorni gli occhi sulla realtà della sua vita e liberarsi finalmente di quanto di velenoso e di inautentico conteneva la sua tranquilla quotidianità di ricercatore universitario di filosofia, celibe, ateo, tutto mamma, istituto, professore e studio. Liberarsi definitivamente: ma con quanta fatica però, quanto dolore, quanta tagliente violenza persino a dover riconoscere d’aver rischiato di far proprie, d’introiettare (come direbbero gli psicologi) ansie, voci e presenze misteriose che gli promettono un fulgido e tutto spirituale futuro d’“eletto”. E una su tutte, la “Signora”, “la Madonna del ponte”, che gli appare frequentemente nel buio polveroso del suo studio, lo segue in macchina, lo protegge, intercede e interviene per lui: ha ottenuto, da un vociante, mistico e di retrogusto politico, conclave di tutte le madonne che sarà lui e solo lui, non altri, il nuovo “eletto”, l’“unto”, il suo predestinato a portare all’umanità il nuovo “vangelo”. Una decisione tremenda che azzera la sua quotidianità, violenta la sua ordinaria intimità di studioso ateo e ordinato figlio di mamma (il suo segreto diario quotidiano, l’antico e prezioso papello, oggetto del suo studio filosofico, le piccole, mortificanti, rivalità con gli altri ricercatori d’istituto, le colazioni della mamma e sopratutto i suoi magnifici pranzi della domenica). Una decisione irrevocabile però, che gli viene comunicata senza chiedere permesso, senza dargli scelta e che, ovviamente, finisce col trovare nella madre (interpretata da un convincente Ugo Giacomazzi), cattolica fervente, iscritta al corso d’inglese over sixty, pia e borghesissima giocatrice di “burraco”, convinta seguace d’un tal padre Gruppuso e del “grappolo” delle parrocchiane, la prima ed entusiasta sostenitrice: se il figlio sarà l’“eletto”, lei diventerà “la madre dell’“eletto” e certo, a pensarci bene, non è male. Ma poi la vicenda scarta, il giocattolo si rompe, quel che capita a Michele non è solo un gioco surreale o un brutto sogno, è una violenza vera e però questa violenza gli concede la forza e la lucidità di conquistare piena consapevolezza di se stesso e allora si ribella e della forza di questa ribellione, mamma e madonne tutte (anche quella “del Ponte”), non potranno che prender atto. Il tempo di quest’uomo, coltissimo ma mai cresciuto fino in fondo, cambia passo, si riempie della grazia e dell’ironia feroce dell’intelligenza e della libertà. È davvero una ricerca teatrale interessante questa dei Teatrialchemici, seppur forse da chiarire meglio nei suoi motivi e nelle sue coordinate di pensiero, e tanto più interessante quanto più questi artisti non la raccontano semplicemente ma la propongono teatralmente con gesti, movimenti, corpi, ritmo, buio e luce, scrittura dello spazio e fatica d’attori. La propongono con la gioia avventurosa, e assai feconda in questi ultimissimi anni, delle giovani compagnie siciliane che provano a trovare una loro nuova strada e provano a trovarla nella realtà e con uno sguardo lucido e colto sul mondo che cambia a velocità inaudita. Ricerca che però deve investire non solo i processi sociali, le situazioni e i segmenti del vissuto, ma soprattutto, e qui il coraggio non è mai troppo, la drammaturgia, la prassi teatrale e nuovi mezzi espressivi per andare oltre gli stilemi forti che caratterizzano il linguaggio del migliore teatro palermitano contemporaneo.