1. Tradurre il teatro
Questo è il resoconto di una collaborazione riuscita.
A febbraio 2010 al Teatro Comunale di Casalecchio di Reno, a pochi passi da Bologna, ho interpretato Stabat Mater Furiosa di Jean Pier Simèon, per Face à Face, parole di Francia sulle scene d’Italia, in collaborazione con ERT.
Per la traduzione del testo Anne Rayberoux, attivissima responsabile della sede bolognese di Alliance francaise, mi ha messo in contatto con Marie-Line Zucchiatti, docente di francese che a Forlì si occupa di traduzioni teatrali (Università di Bologna, Facoltà di Lingue, distaccata a Forlì).
Tra me e le allieve del suo corso, in particolare con Chiara Gianlupi, che poi ha firmato la traduzione finale, ci sono stati diversi incontri.
Io leggevo ad alta voce, segnalavo i problemi di lingua, di ritmo, di incomprensibilità in italiano, di non adesione all’analisi che avevamo fatto insieme all’inizio sul testo francese. Loro mi proponevano soluzioni o aprivano discussioni su aspetti particolari, a loro sconosciuti, del fare teatro. Per due volte sono stata invitata a tenere un breve seminario a Forlì, aperto agli altri studenti, facendo partecipi tutti delle questioni affrontate. Per me e credo anche per loro la collaborazione è stata molto utile.
Credo siano pochissime in Italia le situazioni che si occupano di traduzione teatrale per testi stranieri, ancora meno purtroppo quelle che si occupano di sostenere la traduzione all’estero di testi italiani.
Chiara Gianlupi discuterà a breve la sua tesi di laurea in cui riporta dettagliatamente tutti i passaggi di questa collaborazione. A me premeva segnalare a Dramma.it un luogo in cui il teatro è considerato un universo culturale a cui riservare attenzione e studio. Cosa rara in Italia.
2. Sul lavoro a proposito di Stabat Mater Furiosa
Quando si decide di mettere in scena un testo straniero c’è un primo problema da affrontare: la traduzione.
Il copione teatrale è un testo da dire, da agire nello spazio, deve amalgamarsi con tutti gli altri linguaggi della scena: scene, oggetti, costumi, luci, musiche, scelta degli attori, stile di recitazione. Chi cura la regia di uno spettacolo dovrà tener conto che la lingua usata sarà altrettanto evidente e incisiva di ogni altro elemento che compare nello spazio teatrale. In teatro, al contrario che nella quotidianità, non c’è nulla di casuale, se si mettono insieme elementi incongrui, poco armonici, il rischio è, non solo di sciatteria, ma anche di comunicazione ambigua, poco comprensibile. Quindi la traduzione va scelta e curata come qualunque altro elemento.
Ma non è semplice. Faccio un esempio: decido come regista di mettere in scena una versione contemporanea di Amleto con costumi di oggi, gesti e spazi contemporanei. Dovrò decidere se usare una traduzione di Shakespeare già esistente o no. E tra quelle già esistenti quale sceglierò? di che epoca: fine ‘800? del 1950? O commissionerò a un traduttore contemporaneo una traduzione che trasformi metafore, allusioni, riferimenti di Shakespeare in parole comprensibili al pubblico di oggi? Se decido per una traduzione contemporanea tutto sembrerà congruo, armonico e chiaro.
Ma non è così semplice. Perché in questo modo il pubblico avrà la sensazione che i problemi posti da Amleto siano quelli dell’uomo contemporaneo, mentre sono lì da almeno 4 secoli.
Potrei allora decidere di usare una traduzione datata che metta in risalto come, nonostante tutta la nostra modernità, ci dibattiamo in problemi che appartengono alla storia dell’individuo da molto prima che diventassero i nostri, almeno fin da quando abbiamo deciso di staccarci dalla tutela di un Dio. Ipotesi affascinante quanto la prima.
Potrei proseguire con altri esempi, scoprendo che ogni scelta della lingua da usare modifica la percezione dello spettacolo. Dobbiamo perciò essere consapevoli che se tradurre significa inevitabilmente tradire e che scegliere una soluzione implica la rinuncia di altre, è anche vero che un’attenta traduzione può contribuire al successo della creazione artistica.
Per Stabat Mater Furiosa i problemi non erano di datazione. E’ lo scritto di un poeta contemporaneo, Jean-Pier Siméon, non ancora drammaturgo e il linguaggio dei poeti è denso, così denso che l’azione non ha spazio. Per questo, scelto il testo, ho stabilito di concentrare l’attenzione mia e del pubblico sulla lettura. Non solo per un budget molto ristretto, ma perché la sola lettura avrebbe fatto scoprire l’azione teatrale all’interno delle parole stesse.
Il contrasto di fondo, sempre necessario per raccontare e rappresentare, in questo testo era tra maschile e femminile, scontro quasi elementare a una prima lettura. Già il titolo però pone accanto a Stabat Mater, richiamo al dolore e alla pietà femminile cristiana, un aggettivo incongruo Furiosa, un ossimoro, e da questo contrasto Simeon inventa una figura nuova, archetipica, una donna, figlia, sorella, moglie, madre, senza una connotazione geografica o anagrafica, che semplicemente non si rassegna al predominio del pensiero guerresco, identificato come valore inevitabilmente maschile.
Il testo è una preghiera, laica, ma preghiera: furiosa, irrispettosa, accusatoria, pignola, paradossale, ma pur sempre una preghiera. Cioè una richiesta, una domanda, una serie di domande, dirette a un interlocutore che muta durante la preghiera e che diventa padre, fratello, passante, “homme de la guerre” e infine vita, che è insieme maschio e femmina, principio di ogni azione. Dio, il concetto di Dio, è estraneo a questa preghiera. Anche se alcune metafore, oltre al titolo, il concetto di rinascita e di speranza, il “beati gli ultimi”, rimandano a una concezione religiosa del mondo, mi sembra che l’autore si muova in una concezione religiosa, sacra, della vita senza dire Dio, senza aver bisogno di un Dio come interlocutore dell’umano. La vita, per Siméon, è già un concetto che ci lega. La vita è religio, dal latino “res ligare” legare le cose come le persone e dare loro un senso.
Non era semplice la traduzione di Stabat Mater Furiosa. Il problema fondamentale era parlare di religiosità nel senso di dare un senso alla vita, alla quotidianità della vita, e nello stesso tempo svuotare di senso lo strumento della guerra, che obbligandoci con la violenza alle regole del vincitore ci impone una logica violenta, non capita, ma venduta come inevitabile.
Per questo ho accettato immediatamente la proposta di Chiara Gianlupi di tradurre “celle qui” con la donna e “l’homme de la guerre” con signore della guerra.
In italiano dire sono colei che si rifiuta di capire oppure quella che si rifiuta di capire non ha la stessa forza archetipica di Sono la donna che si rifiuta di capire. Quanto a “l’uomo della guerra” in italiano non risuona in nessun modo, sembra un venditore, un profugo, una vittima, mentre signore della guerra ha immediatamente due valenze: una di mercante e padrone dei destini di chi subisce la guerra, l’altra è una consonanza religiosa che in Italia non può non rimandare al “Signore dio degli eserciti, i cieli e la terra sono pieni della tua gloria”, che forse qualcuno di noi ha distrattamente ripetuto senza rifletterci troppo.
Con queste idee di fondo io e Chiara ci siamo confrontate nelle successive fasi della traduzione, controllando che le parole da dire restituissero queste idee. Dei vari problemi discussi credo relazionerà Chiara. Particolarmente importanti per la recitazione sono il suono, a volte onomatopeico, delle parole, la frequenza delle ripetizioni in funzione sia ritmica che di scivolamento di senso, la colloquialità di alcuni passaggi e la ritualità di altri, l’interpretazione degli “a capo” da mantenere in italiano ricreando ritmo e significato. Gli esempi non mancano.
Se un giorno decidessi di mettere in scena Stabat Mater Furiosa credo che starei seduta su uno sgabello basso al centro del palcoscenico, con appena qualche luce a indicare in modo largo lo spazio. Abiti sobri e semplici, niente gioielli o ornamenti, tanto meno orientaleggianti. Naturalmente la traduzione sarebbe quella di Chiara.
Stabat mater furiosa
- Scritto da Marinella Manicardi